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AGITAZIONE, FRETTA, VELOCITA' - MA E' PROPRIO COLPA DELLA SOCIETA'?
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Articolo di Annapaola Laldi
15 agosto 2003 0:00
 
"Abbiamo un bisogno urgente di rallentare, riprendere fiato, di sbarazzarci dell'angoscia di non arrivare a fare tutto quello che si deve fare nell'arco delle ventiquattro ore che fanno la giornata. Nella ricerca della tranquillita', il primo passo e' il divorzio dal mito della velocita'. Quello va bene per i programmi software e i gran premi di Formula Uno. Noi piccoli uomini, lasciamoci attrarre dal richiamo della lentezza. Cominciamo a praticare la sosta, le pause lunghe, il passo pigro".
Trovo questa citazione in apertura della recensione a uno dei libri che il mensile "Altreconomia" (14/2003, p.16) consiglia di leggere nell'estate, all'insegna del motto: "La liberazione e' (anche) questione di lentezza", e la cosa mi incuriosisce perche' io ho quasi sempre ritmi accelerati e nervosi anche quando non c'e' niente di oggettivo che mi invita a correre. Talvolta, per strada, mi ritrovo a fermarmi per chiedermi: "Ma, Annapaola, lo sai che Roma l'hanno gia' presa?". E allora, per qualche brevissimo minuto, procedo a un passo piu' lento -ma la falcata resta discreta-, e mi dico: "Ma guardati intorno -quante cose belle! Perche' non te le godi, visto che puoi?" Ma, proprio mentre mi sto blandendo in questo modo. ho gia' ripreso il mio "passo infallibile", come lo chiama il mio giovane amico quattordicenne -motivo di una certa difficolta' a camminare con altre persone.
Poiche' le cose stanno cosi' da una vita, e questa rapidita' contrassegna tutto di me, non solo i gesti fisici, ma anche il pensiero, con esiti talvolta piuttosto problematici, da un certo punto in poi mi sono chiesta seriamente da dove scaturisca tutto cio'. E poiche' "l'indagine e' ancora aperta", ben vengano le idee di qualcun altro che ci ha riflettuto sopra.
Cosi', proseguo nella lettura che adesso e' una sorta di riassunto e dice: "Il lavoro, la cui etica ci vuole sempre indaffarati e mai soddisfatti, e' una condanna. Piu' lavoro per piu' guadagno per piu' consumi? Meglio lo scandaloso ozio. I soldi sono una droga, e in fin dei conti anche una grande scusa. Una distrazione che ci allontana dal senso delle cose..". Dunque, se capisco bene, la tesi del libro sarebbe che la velocita', che nella nostra societa' ha raggiunto livelli talora insostenibili a tutti i livelli, deriverebbe dal desiderio di denaro, a sua volta ingenerato dal consumismo.
Ma, mi chiedo, le cose stanno veramente cosi'? Davvero il ritmo ossessivo di questa nostra vita scaturisce dall'esterno, cioe' da una struttura sociale distorta che ci allontana dal "senso delle cose", e quindi, possiamo dire, anche dal senso della nostra umanita'? E' davvero il consumismo che ci spinge a voler avere piu' soldi e quindi ci costringe a lavorare di piu' -con tutto lo stress che ne deriva?
Ma, in tal caso, io cosi' poco incline ai consumi e che mi faccio bastare i soldi che ho, che cosa sono, chi sono, con questa fretta che non ha motivi oggettivi?
E chi ha soldi a bizzeffe e puo' comprarsi tutto il comprabile per i prossimi cent'anni, perche' continua a fare tutto e di tutto per averne ancora di piu'?
Infatti, se fosse vero che e' il consumismo a ingenerare la voglia di guadagnare di piu' e quindi il bisogno di lavorare di piu', chi e' arrivato al punto da avere il problema di trovare un desiderio da soddisfare, dovrebbe fermarsi e cessare l'accumulo e l'attivita'. E, invece, e' il contrario. Come dire, l'appetito vien mangiando, anche se il risultato e' l'indigestione cronica (o la bulimia?).
E da dove viene, poi, l'impulso a correre anche quando siamo in VACANZA, parola che significa proprio "essere liberi da" -dal lavoro, dalle preoccupazioni quotidiane.? E perche', anche nei rapporti personali, non abbiamo mai fermezza e non ci diamo il tempo di godere con riconoscenza la bellezza e il respiro di un'amicizia disinteressata senza precipitarci su di essa per trasformarla -forse soffocarla- in un abbraccio esclusivo? No, mi pare che la causa del "mito della velocita'", l'origine di questa febbrilita' che ci divora vada ricercato da qualche altra parte, e non nella nostra pur deprecata e deprecabile societa'.
Del resto, quando mai, in quale societa' testimoniata dalla storia umana, la calma, l'ozio -in questo senso positivo- hanno connotato seriamente la vita delle persone -di TUTTE le persone?
Lo sappiamo da dove viene OZIO? Viene dal latino OTIUM, che vuole dire appunto: "riposo", "quiete", "tempo libero", e questo OTIUM, nell'antica Roma, era considerato la condizione ideale per poter riflettere, comporre opere filosofiche o poetiche. L'opposto -e negativo, allora- era NEGOTIUM, cioe' il NON-OZIO, l'attivita' pratica, il commercio, gli affari che anche a quel tempo, evidentemente, erano vorticosi..
Ma a prezzo della NON-VITA di quanti schiavi, a prezzo dello sfruttamento di quanti plebei costretti al NON-OZIO per pura sopravvivenza, i nobili, i filosofi, i poeti potevano godere del loro OZIO? E inoltre: questo OZIO sara' stato connotato davvero dalla quiete dell'animo? Oppure, avra' fatto di nuovo la sua comparsa la febbrilita' -per preparare un'arringa convincente per il processo dell'indomani o finire il poema per il compleanno del mecenate di turno?
E perche' mai, gia' nel Seicento, il matematico e filosofo francese Blaise Pascal poteva scrivere: "Quando mi sono messo talvolta a considerare le diverse agitazioni degli esseri umani e i pericoli e le pene a cui si espongono, alla Corte, in guerra, da cui nascono tante liti, tante passioni, imprese ardite e spesso malvagie, ecc., ho scoperto che TUTTA L'INFELICITA' DEGLI ESSERI UMANI DERIVA DA UNA SOLA COSA E CIOE' NON SAPER RESTARSENE TRANQUILLI IN UNA STANZA.." .
Non sara' bene, dunque, andare a cercare l'origine dell'agitazione e della fretta nella nostra natura umana? Forse addirittura nella nostra sostanza biologica -un fattore evolutivo della specie in tempi remoti, che adesso, arrivato al parossismo a causa del progresso tecnologico, rischia di diventare un boomerang mortale?
Ma allora, che cosa possiamo fare se non guardare dentro di noi come funziona questo meccanismo, che cosa lo alimenta, come puo' eventualmente prendere fine?
Riconoscere apertamente le nostre paure -le paure dell'umanita'- della morte, della malattia, della vecchiaia, della solitudine, della poverta' .. puo' fornirci qualche aiuto? Non potrebbe essere, per esempio, che il mito della velocita' ha la funzione di distrarci da quello che ci fa paura? Ma cos'e' che ci fa paura: la cosa in se' o l'idea che ne abbiamo? Perche' non provare, quindi, a osservare noi stessi con tutta l'attenzione e l'amore di cui siamo capaci, non quando siamo in ozio (perche' allora non lo faremmo mai), ma, anzi, proprio mentre corriamo, senza fiato, da un appuntamento all'altro? Perche' non vedere se e' possibile riprenderci il tempo e noi stessi e la nostra vita proprio mentre tutto sembra che ci sfugga -essendo presenti, totalmente presenti al nostro affanno?

NOTA 1. Il libro, alla cui recensione mi riferisco, e' "Ozio lentezza e nostalgia" di Christoph Baker (Editrice missionaria italiana, 2001).
2. La citazione da Pascal, che ho tradotto dal testo francese dei "Pensieri" pubblicato a Parigi nel 1958 dall'editore Garnier, e' l'inizio del pensiero nr. 139 (secondo l'edizione di Brunschvicg), il quale e' una lunga e approfondita considerazione sull'agitazione umana. Essa serve, secondo Pascal, a distrarci dall'infelicita' "della nostra condizione debole e mortale, e cosi' miserabile che niente ci puo' consolare quando ci pensiamo sul serio". BLAISE PASCAL (Clermont Ferrand 19.6.1623 - Parigi 19.8.1662) e' famoso per le sue scoperte nel campo della matematica e della fisica. A lui, diciannovenne, si deve inoltre l'invenzione della "pascalina", la prima calcolatrice della storia, messa a punto per aiutare il padre che era addetto alla riscossione delle imposte in Normandia.
Spirito rigoroso e profondamente religioso, si distinse per una acuta polemica contro i Gesuiti e a favore dei Giansenisti di Port Royal condotta con "Le provinciali", lettere scritte fra il 1656 e il 1657. L'opera piu' famosa ai nostri giorni sono forse i "Pensieri", una nutrita serie di appunti che furono trovati alla morte di Pascal e messi in ordine per volonta' della famiglia, ma non pubblicati prima del 1670.
In italiano si possono leggere, fra l'altro, nell'edizione dei "Grandi libri" di Garzanti del 1994, dove il pensiero che ho citato si trova contrassegnato dal nr. 126.
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