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Ameriguccio - Ma cosa occorre per esserlo davvero?
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Articolo di Annapaola Laldi
6 agosto 2016 13:28
 
A commento delle mie noterelle del 25 giugno scorso un lettore, che sembra essere persona dotata di raffinata cultura, sano realismo e altrettanto sano buon senso, corrispondeva alle mie riflessioni sull’importanza, che avevano avuto nelle elezioni comunali di Torino e Roma la freschezza e l’energia incarnate da Appendino e Raggi, proponendo la lettura (in francese e in italiano) di un’ode di Victor Hugo tratta dal “ciclo eroico cristiano” della Leggenda dei secoli (1859) dal titolo Ameriguccio (Aymerillot), che tra poco, tra squilli di trombe e rullio di tamburi (immaginateveli, perché ci stanno bene!), copierò qui sotto perché è proprio bella, godibile, anche divertente. E fa riflettere.
Il lettore la introduceva scrivendo, tra l’altro, così: “anche se, a Roma, ho fatto campagna accanita pro Raggi - ma solo in ossequio al vecchio principio campagnolo che, quando nessuna vacca risulta ingravidata, per prima cosa s'abbatte il vecchio toro - confesso che condivido appieno le tue perplessità per le due sindache M5S […]”. E aggiungeva che “in questi giorni, non faccio che distribuire [questa ode] a destra ed a manca, per rialzare il depressissimo morale romano ed italico”.
Ripropongo questa ode adesso per i seguenti motivi:
perché, lo ripeto, vale la pena di leggerla sia per la sua intrinseca bellezza, sia per il tema (il vecchio, declinante, perché stanco o pago di ciò che ha già, incarnato dai paladini storici di Carlo Magno, e il nuovo, incarnato dal paggio Ameriguccio, che, pieno di energie e senza niente da perdere, può osare un’impresa che sembra disperata), sia, infine, perché, a un mese abbondante dall’elezione di Virginia Raggi a sindaco di Roma, con tutti i gineprai che mi sembrano avvilupparla, a me sorge spontanea la domanda se questa giovane donna, così pimpante all’apparenza, abbia davvero i requisiti di Ameriguccio. Chissà, forse, se i suoi compagni di partito (e scelgo la parola apposta, perché sono tutti impantanati, mi pare, nel solco delle peggiori tradizioni delle alchimie partitiche) la lasciassero davvero fare il sindaco in prima persona! (Invece di pretenderla esecutrice di ordini superiori, o collaterali, proprio come i danni)
Ma ora, bando alle ciance e godiamoci questa splendida ode.


AMERIGUCCIO

Nel frattempo [Carlomagno] avanza; dopo tre giorni
ha raggiunto la parte superiore degli alti Pirenei.
Lì, nello spazio immenso gli sembra di sognare:
in lontananza, e prima dell'entroterra, su una montagna
si vede una città molto fortificata,
circondata da mura con due torri a ogni porta.
A chi la vede così, dalla lontananza, essa esibisce
trenta torri principali con tetti di lamiera
e merli di forma saracena.
Nel centro c'é una bella torre dipinta di resine e pece
ancora non ben asciutte, perché davvero non la
si sarebbe potuta dipingere tutta in un solo giorno estivo.
I merli sono sigillati con piombo; ogni protezione
fà intravedere un arciere il cui occhio sempre vigila e misura;
Le sue bocche di lupo spaventano; sulla sua vetta rossa
riluce un diamante grosso come il sole,
che neanche da tre miglia può esser fissato.

A sinistra c'é il mare con grandi onde azzurre
che consentono ai veloci dromoni d'attraccarci.

Sui monti Carlo trasalisce alla vista di quelle torri.

“Naymes, duca di Baviera, mio saggio consigliere,
che città é questa vicino a questa costa?
Chi la tiene ben può considerarla unica sotto i cieli.
Ciò mi rende triste, mentre é il caso d'essere allegri,
perché sì – dovessi rimanere quattordici anni da queste parti -
o combattenti, arceri, compagni, capitani,
miei ragazzi! Miei leoni! Santo Denis mi sia testimone
che questa città sarà mia prima che io me ne allontani!”

Rabbrividisce il vecchio Naymes a queste parole:

“Allora compratela, perché nessuno può assaltarla!
Per difendersi, oltre ai suoi cittadini,
ha ventimila saraceni protetti da doppia armatura.
Noi invece abbiamo sì trionfato
ma, al momento, i Vostri prodi non valgon più di femmine,
per quanto son stanchi e vogliosi di tornare a casetta loro.
Io – che sono il più vecchio, sono il meno stanco,
Sire io parlo francamente, non ne faccio mistero,
inoltre noi non abbiamo macchine d'assedio
i cavalli son belli che andati, le genti sazie;
io penso che sia giunto il momento di riposarsi
e dico che bisognerebbe esser proprio folli come Voi
per attaccare queste torri con le nostre balestre!

L'imperatore rispose al duca bonariamente
“Duca, però tu non mi hai detto il nome della città.”
“Alla mia età, ci si può pure dimenticare di qualcosa.
Ma, Sire, abbiate pietà del Vostro seguito;
noi bramiamo i nostri palazzi, le nostre case, i nostri cari:
battagliare sempre significa non gioire mai
e noi giust'appunto ritorniamo dall'aver conquistato
un mucchio di province per l'ampliamento dell'impero.
Questi assediati riderebbero di Voi dall'alto di queste torri:
per sicuramente ricevere soccorsi
- se qualche insensato avesse preso di petto la fortezza –
essi dispongono di tre gallerie, scavate dagli infedeli saraceni,
e che arrivano la prima nella vallata di Bastan,
la seconda a Bordeaux, l'ultima fino a Satana!”

L'imperatore replicò sorridendo tranquillamente
“Ma nuovamente, Duca, mi avete taciuto il nome della città!”
“E' Narbona, Sire.” “Narbona é bella – disse il re -
ed io l'avrò; in fede mia io non ho mai visto bellezze
femminili senza rallegrarmene e lanciarmi
a ficcar le mani nei loro corsetti!”

Allora, vedendo passare un altro paladino di rango elevato
e che si chiamava Dreus di Montdidier “Per Dio!
Conte, questo buon duca di Nayme se la fa sotto per vecchiaia!
Ma Voi, amico mio, prendete Narbona ed io
Vi lascerò tutte le terre da qui a Montpellier;
perché Voi siete figlio d'un amabile cavaliere
ed il vostro zio – ch'io molto stimo – era abate di Chelles;
Voi stesso siete famoso; dunque, bel sire, mano alle scale!

All'assalto!” “Sire imperatore – rispose Montdidier –
ormai son solo da congedare;
per troppo tempo ho portato usberghi, maglie di ferro, elmi ed altri impicci,
ora ho bisogno del mio letto essendo molto ammalato;
ho la febbre e mi é venuta un'ulcera alle gambe;
ed inoltre é più d'un anno che non ho potuto dormire nudo,
per controllare tutte 'ste terre di cui non so che farmene.”

L'imperatore non dimostrò né turbamento né collera.
Egli cercò con lo sguardo Ugo di Cotentin;
costui era bravo e conte palatino.

“Ugo – egli disse – sono lieto di comunicarti
che Narbona é tua; tu non l'hai che a prendere.”
Ugo di Cotentin salutò l'imperatore

“Sire, sarà un soldato felice come un aratore?
Qualunque briccone - che solca la terra bruna o rossa -
finito il suo solco, rientra nella sua tana.
Io ho invece già vinto Trifone, Tessalo e Gaiffer,
ma sia nel freddo che nel caldo son vestito di ferro,
in qualunque momento del giorno sento le trombe come ritornello
nella mia sella non ho più un attacco che tenga;
insomma da molto tempo non ho per destino
che d'andare a letto molto tardi per alzarmi di primo mattino,
di ricevere fendenti sia per Voi che per i vostri:
non ne posso più, date Narbona ad altri!”

Al re la testa cadde sul petto:
ciascuno si defilava affinché la patata bollente toccasse al suo vicino;
pertanto Carlo, chiamando Richer di Normandia
“Voi siete un gran signore e di razza ardita,
Duca, non vorreste Voi per caso prendere Narbona?”
“Imperatore, io son duca per grazia di Dio.
Queste avventure proponetele ai nullatenenti:
quando si ha il mio ducato, re Carlo, non si vuole che quello!”

L'imperatore si rivolse al conte di Gand:
“Tu hai già abbattuto il brigante Maugiron;
quando nascesti, sulla spiaggia marina,
la brezza ti ficcò in petto l'audacia;
tua madre Bavon era di gran buona nascita;
nessuno ti ha mai potuto battere se non per tradimento,
perché dopo la caduta il tuo coraggio era ancora migliorato.
Un giorno che avanzavamo da soli
e che nella piana di fronte sentimmo
i battiti confusi dei lanceri saraceni,
mentre io raccomandavo a Dio la mia ultima ora,
nel tuo occhio azzardato apparve espressione gioiosa.
Il pericolo da te fu sempre ben accolto,
Conte allora prendi Narbona a te ne farò balivo!”

“Sire – disse il gandese – io vorrei essere in Fiandra.
Io ho fame, la mia truppa ha fame; noi usciamo da una guerra
intrapresa in un paese indiavolato;
Al posto della farina di grano noi ci siam dovuti mangiare
zoccole e sorci e, come se non bastasse,
abbiamo divorato pure un mucchio di vecchi stivali.
E poi il vostro sole di Spagna m'ha talmente rosolato
ch'io sono tutto nero e bruciato;
così quando con simile faccia scura ritornerò
in ambiente più salubre, nella mia città di Gand
mia moglie - che probabilmente si sarà già presa qualche amante -
mi prenderà per un moro e non più per un fiammingo!
Io ho proprio voglia d'andar a veder laggiù cosa succede:
anche se – per prender tale incarico – Voi mi donaste
tutto l'oro di Salomone più quello di Pepin,
no, io me ne tornerei in Fiandra, dove almeno si mangia pane!”

“Questi bravi fiamminghi – disse Carlo – allora che mangino!”

E continuo “Quanto sono stupido, é proprio strano
che io cerchi un conquistatore di città proprio qui
davanti al mio vecchio uccello predatore Eustachio da Nancy.
Eustachio a me! Tu vedi quanto tosta sia questa Narbona;
essa ha trenta castelli, tre fossati e l'aria inconquistabile;
nessun riparo davanti alle porte e, per Dio, io dimenticavo
laggiù quelle sei grosse torri in pietra alberese.
Quei fossati là ci fanno intendere
che bisognerà ricominciare nel momento in cui si termina,
perché, anche a città presa si può far cilecca sui torrioni.
Ma che importa? Non sei tu la grande aquila?” “Un piccione,
Un passerotto – disse Eustachio – un fringuello nella siepe!
Re, io mi salvo nel nido perché la mia truppa vuol la paga,
mentre io non ho più un soldo talché nessun fante
mi farà credito d'un altro colpo di spadone;
dai loro occhi potrò ottenere attenzione giusto
per ogni zecchino d'oro che mi vedranno trarre dalla scarsella.
Massa d'accattoni! Quant'a me io sono molto annoiato:
il mio vecchio pugno sanguinante non é riuscito mai ad asciugarsi;
io sono affaticatissimo perché, sire, ci s'adatta alla guerra
ma poi si arriva ad odiare quello che dapprima s'amava,
vedendo nere le complicazioni che si vedevano rosee;
ci si consuma, ci si sposta, finendo per avere
la gotta alle reni, la distorsione ai piedi, le vesciche alle mani,
e così tanti acciacchi che – partiti avvoltoi – si diventa polli.
Io desidero una berretta da notte, non più un cimiero!
Ho già così tanta gloria, sire, ch'ormai aspiro tornare al letame!”

Il buon cavallo del re batteva coi zoccoli il suolo
come se comprendesse; sul monte solitario
passavano le nuvole. Gerardo di Roussillon
era poco distante col suo battaglione;
Carlomagno ridendo gli si avvicinò “Valent'uomo
Voi siete duro e forte come gli antichi romani;
Voi impugnate i pali senza badare ai chiodi,
gentiluomo impagabile, questa città é per Voi!”

Gerardo di Rossillon guardò con aria triste
la sua cotta di ferro arrugginita, l'esiguo numero
dei suoi soldati, che marciavano tristemente davanti a lui
il suo liso stendardo ed il suo cavallo azzoppato.

“Tu esiti – disse il re – come nella Sorbona uno studente all'esame;
é davvero necessaria così tanta esitazione per accettare Narbona?”

“Mio re – disse Gerardo – grazie, ma ho possedimenti altrove!”

Ecco come parlavano questi già fieri combattenti
mentre i torrenti muggivano tra le querce.

L'imperatore fece il giro di tutti i suoi comandanti
chiamando i più arditi, i più focosi,
Eudes, re di Borgogna, Alberto da Périgueux,
Samo, che l'attuale leggenda divinizza,
Garin che, trovandosi in quel tempo a Venezia,
si mise sulle spalle il leone di San Marco,
Ernaut da Beauléande, Ogieri di Danimarca,
Ruggero infine, anima grande e sempre pronta al pericolo.

Ma tutti rifiutarono. Allora, sollevando la testa,
drizzandosi tutto in piedi sulle sue grandi staffe,
estraendo la sua larga spada dai riflessi mortiferi,
con accenti aspri pieni di tacita contrarietà,
pallido, spaventoso, simile a l'aquila dei nembi,
atterrendo con lo sguardo il suo accampamento sgomento,
L'invincibile imperatore gridò “Codardia!
Oh conti palatini caduti in queste vallate
Oh giganti visti sempre in piedi nelle mischie,
davanti cui anche Satana si sarebbe arreso,
Oliviero, Orlando, perché Voi non siete più qui!?
Se Voi foste vivi, voi prendereste Narbona,
Paladini! Voi almeno, e le vostre spade, eravate buoni!
Elevati erano i vostri cuori, voi non avreste mercanteggiato!
Voi avanzereste senza mettervi a contare i vostri passi!
Oh compagni addormentati in tombe profonde
se Voi foste ancora vivi, noi prenderemmo il mondo!
Grandio, che vuoi che faccia attualmente?
I miei occhi cercano invano un prode dal cuore possente
- profondamente spaventati dal loro immenso compito – andando
da quelli che son morti a quelli che son disfatti!
Io non riesco a capire come mi si arrechino questi affronti!
Io li getto ai miei piedi, non ne voglio più! Baroni,
voi che mi avete seguito sino a questa montagna,
normanni, lorenesi, marchese dei mercati tedeschi,
cittadini di Poitiers, Borgognoni, genti del paese pisano,
Brettoni, Picardi, Fiamminghi, Francesi, tornatevene a casa!
Guerrieri, sparite dal mio intorno,
verso là dove non si senta il suono dei miei corni,
tornate ai vostri alloggi, a casa vostra,
ma smammate da qui, ch'io vi scaccio tutti!
Non ne posso più di voi! Ritornate dalle vostre mogli!
Andatevene a vivere nascosti, prudenti, contenti, infami|
Eì così che si arriva all'età dei nonni.
Per quanto mi riguarda, io assedierò Narbona anche da solo:
Io resto qui, pieno di gioia e di speranza!
E, quando Voi sarete tutti tornati nella nostra dolce Francia,
Oh vincitori dei Sassoni e degli Aragonesi,
quando Vi scalderete i piedi presso i vostri caminetti,
obliandovi i giorni della guerra e degli allarmi,
se qualcuno vi chiederà, ricordando tutte le vostre imprese belliche,
- che lungamente riempirono la terra di spavento -
“Ma dove avete lasciato il vostro imperatore?”
voi risponderete chinando gli occhi al pavimento
“Noi ce ne siamo fuggiti in giorno di battaglia,
così lesti, tremanti e di corsa
da non più sapere dove l'abbiamo abbandonato.”

Così Carlo di Francia, detto Carlomagno
esarca di Ravenna, imperatore di Germania,
parlava in quella montagna con tal gran voce
che i pastori lontani, sparsi in fondo ai boschi,
ascoltandolo, credettero trattarsi di tuoni:
I paladini, costernati, abbassarono gli sguardi a terra.
Improvvisamente, mentre ognuno permaneva interdetto
un gran bel giovanetto uscì dai ranghi e disse:
“Che san Denis protegga il re di Francia!”

L'imperatore sbigottì per tutta quella sicurezza
e studiò colui che s'avanzava: come il re Saul
all'apparire di Davide, vide una specie di ragazzo
dalla pelle rosea e dalle mani bianche, che a prima vista
i mercenari, cui il pugnale batte sull'anca,
presero per una ragazza vestita da maschio,
dolce, fragile, fiducioso, sereno, senza distintivi
né pennacchi, che – coi suoi abiti di velluto – aveva
l'aspetto grave d'un gendarme nell'aria fredda d'una vergine.

“Che vuoi tu – disse Carlo – e cosa ti smuove?”
“Io vengo a domandare ciò che nessuno sembra volere:
l'onore d'essere, o mio re, - se Dio non m' abbandona -
l'uomo di cui si dirà “E' colui che prese Narbona!””

Il ragazzo parlava così, con aria leale,
riguardando gli astanti con semplicità.

Il gandese, che rialzò ben presto la fronte,
si mise a ridere e disse al resto della compagnia
“Alè! E' l'Ameriguccio, il giovane paggio!”
“Ameriguccio – riprese il re – dicci il tuo nome, qualificati.”
“Amerigo e son povero quanto un povero monaco;
ho vent'anni ma non paglia né avena,
conosco il latino perché son laureato.
Questo é tutto, Sire, piacque alla sorte di dimenticarmi
quando furono distribuiti i cespiti ereditari.
Per coprire le mie terre bastan due soldi
ma neanche tutto l'immenso cielo potrebbe riempire il mio cuore.
Io penetrerò in Narbona e, se ne sarò vincitore,
subito dopo castigherò i criticoni, se ce ne saranno ancora.
Carlo, raggiante più d'un arcangelo celeste
gridò “Per così elevato proposito tu sarai
Amerigo di Narbona e conte palatino
e di te non si potrà parlare che con rispetto:
va, figlio mio!”....L'indomani Amerigo prese la città.


Qui il testo originale dell'ode che, rispetto alla traduzione sopra trascritta, ha anche le due strofe iniziali che ci mostrano Carlo Magno rattristato dalla perdita di Orlando e dei suoi compagni.


 
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