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Cannabis shop, è già ora di chiudere?
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Articolo di Adriano Saldarelli e Fabio Clauser *
20 giugno 2019 17:34
 
 La tanto attesa sentenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione che avrebbe dovuto mettere un punto fermo sulla liceità o meno del commercio dei derivati della cannabis sative (foglie, infiorescenze, resine, olii) ha deciso di non decidere, ribadendo quello che già si sapeva: c’è reato soltanto se la sostanza ha effetto drogante.
La Suprema Corte sembra semplicemente affermare che la commercializzazione della cannabis non sia regolamentata dalla legge.
Facciamo un piccolo passo indietro: nel 2016 è stata emanata la legge n. 242 con la finalità di tutelare la biodiversità e di promuovere e sostenere la coltivazione della canapa quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell'impatto ambientale in agricoltura.
Per la verità, la legge, pur non disciplinando espressamente il commercio della canapa industriale, si pone l'obbiettivo di stimolare l'intera filiera produttiva.
Sostanzialmente, la coltivazione della canapa industriale è lecita e non necessita di autorizzazione, nei casi in cui il prodotto rientra in una delle varietà “non droganti” richiamate dai cataloghi comunitari ed è munito di un'apposita certificazione.
Il coltivatore ha l'obbligo di conservare, oltre alle fatture di acquisto, anche i cartellini attestanti la certificazione delle sementi per dodici mesi.
Vengono poi escluse, espressamente, eventuali responsabilità del coltivatore, nell'ipotesi in cui – durante un controllo – emerga un contenuto complessivo di THC superiore allo 0,2 per cento, purché sia inferiore allo 0,6 per cento.
Nel caso in cui emerga un valore superiore allo 0,6 per cento le piante potranno essere sequestrate, ma l'agricoltore non potrà incorrere in responsabilità, purché abbia rispettato tutte le disposizioni di legge.

Fanno da contraltare le norme contenute nel testo unico sugli stupefacenti che, fra le altre condotte, puniscono la coltivazione e la cessione della cannabis in generale (se non coltivata per uso medico) ed a condizione che non rientri nelle tipologie indicate nelle tabelle comunitarie.

Il sistema normativo in materia di stupefacenti è stato oggetto di moltissime sentenze della Corte di Cassazione.

In breve, la coltivazione di cannabis è illecita se realizzata al di fuori dei casi e dei modi disciplinati dalla legge, laddove contenga un principio attivo superiore alla soglia drogante. Sotto quest’ultimo profilo si è precisato tuttavia che rileva la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine a giungere a maturazione e a produrre la sostanza.
Anche la vendita di qualsiasi sostanza richiamata negli elenchi ministeriali è illecita se ha un contenuto drogante, ma questa soglia non è indicata da fonti normative e deve essere accertata caso per caso.
In questo solco giurisprudenziale e normativo si inserisce la citata sentenza delle Sezioni Unite di cui ancora non sono state pubblicate le motivazioni.
Con l'informazione provvisoria si è chiarito che “la commercializzazione di cannabis sativa e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell'ambito di applicazione della legge 242 del 2016".
Nessuna novità: come abbiamo visto la commercializzazione della cannabis sativa, la cui coltivazione è legale, non è regolamentata dalla legge, ma ciò non significa che sia vietata. Peraltro la circolare n. 5059/2018 MIPAAFT ammette espressamente la liceità della vendita a scopo ornamentale senza autorizzazione.
Prosegue l'informativa: "Pertanto, integrano il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, D.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante".

Ancora una volta, nulla di nuovo: come accennato, nel settore degli stupefacenti è sancita una illiceità “generale” delle condotte di detenzione, cessione e commercializzazione delle sostanze stupefacenti (incluse nelle tabelle di cui all'art. 14 dello stesso D.P.R., tra cui è ricompresa anche la cannabis, senza alcuna indicazione della percentuale minima di THC), cosicché le previsioni della legge 242, che autorizza la coltivazione a determinate condizioni, costituirebbero una “eccezione” rispetto alla “regola” della illiceità sancita dal testo unico sugli stupefacenti.
La non punibilità espressamente prevista per il produttore dalla legge 242 del 2016 (nel caso in cui durante un controllo emerga una percentuale superiore allo 0,6 di THC) potrebbe essere ritenuta non estensibile al commerciante, per il quale varrebbero le regole già vigenti prima del 2016.
Il venditore potrebbe dunque essere astrattamente punibile nel caso in cui dalle analisi dello stupefacente risultasse un effetto drogante in concreto (che per la letteratura scientifica non sussiste al di sotto dello 0,5 per cento di THC).
Con tutta la circospezione che merita il commento di una sentenza non ancora pubblicata, parrebbe dunque potersi affermare che per i “cannabis shop” non sia l’ora di chiudere, ma con la consapevolezza di tutti i rischi che potrebbero ricadere sul negoziante laddove la soglia drogante della sostanza ceduta venisse superata.

Di fronte ad una realtà economica così rilevante che soddisfa una domanda di mercato in continua crescita, la materia meriterebbe una più adeguata regolamentazione, a garanzia dei rivenditori, che finiscono per operare in una zona grigia esposti al continuo rischio di accertamenti e sequestri da parte delle forze dell’ordine, ed a garanzia del consumatore. Ma sono scelte che deve fare il legislatore, per porre fine ad un’incertezza normativa, che potrebbe costare allo Stato italiano molti soldi per l’affidamento ingenerato nell’utenza.

* legali penalisti, consulenti di Aduc
 
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