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La catena alimentare mondiale pesa per un terzo sulle emissioni di CO2
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Articolo di Redazione
2 marzo 2019 19:21
 
 Una pizza fatta in casa, acquistata surgelata o consumata al ristorante non avrà lo stesso sapore. E neanche lo stesso “impatto carbone”. Per la prima, bisognerà considerare l’”impatto carbone” di ogni ingrediente e del loro modo di preparazione e di cottura. Per la seconda occorrerà aggiungere i processi di lavorazione in fabbrica, il trasporto e la conservazione. Per l’ultima dovrà essere presa in considerazione l’energia consumata nell’edificio.
Alla fine, quella fatta in casa, preparata a partire da alimenti di base, avrà il primato di “impatto carbone”, così come si deduce dalla lettura di un rapporto del think tank francese Institute for Climate Economics (I4CE). Che ha utilizzato gli studi esistenti per quantificare l’impatto a livello mondiale della domanda alimentare globale sulle emissioni di gas ad effetto serra ed individuare i meccanismi che permetterebbero di ridurli.
Se è relativamente facile valutare quanto gas ad effetto serra genera una superficie agricola, è molto più complicato calcolare l’impatto di tutta la catena alimentare, compresa la conversione dei terreni, la trasformazione dei prodotti, il loro stockaggio o il trattamento dei rifiuti, come si sforzano di fare gli autori del rapporto, pubblicato il 25 febbraio
La prima constatazione è che mancano i dati. Cercando di mettere in connessione diversi studi internazionali comparsi in questi ultimi anni, gli esperti del I4CE stimano che la domanda alimentare produce dal 22 al 37% di emissioni di gas ad effetto serra, in tutti i settori che hanno analizzato. In senso ampio, che si spiega essenzialmente con la difficoltà a precisare l’effetto del cambiamento di impatto dei terreni, cioè la deforestazione conseguenziale alla produzione alimentare.
“Non c’è consenso sulla parte del consumo alimentare con l'insieme delle emissioni in virtù di questa incertezza, ma l’ordine di grandezza alla quale abbiamo fatto riferimento – un terzo delle emissioni antropiche globali dovute all’alimentazione - è debole”, dice Lucile Rogissart, ricercatrice presso il I4CE e coautrice dello studio.
A livello francese, Il Centre international de recherche sull’environnement e le développement ha concluso in un‘inchiesta diffusa a gennaio che l’alimentazione pesa per il 24% di “impatto carbone” delle famiglie francesi, ma questo dato non considera il parametro dell’impatto sui terreni.

Lotta contro lo spreco
Vista dalla parte delle emissioni mondiali, l’alimentazione ha quindi un ruolo centrale per cercare di raggiungere l’obiettivo fissato dall’accordo di Parigi destinato a contenere il riscaldamento climatico sotto la soglia dei 2 gradi centigradi. Lo studio del I4CE valuta il peso delle diverse tappe della produzione alimentare. “I due terzi delle emissioni di gas ad effetto serra legati al consumo di cibo sono dovuti ai prodotti dell’industria – precisa Lucile Rogissart. La trasformazione e il trasporto contano per il 20% e la fase finale, dal negozio alla tavola, per il 13%”.
Secondo i dati raccolti dal think tank, il settore dell’allevamento genera da solo il 63% delle emissioni dell’alimentazione mentre riesce a dare solo il 16% delle calorie consumate nel mondo. Per Rogissart, “ridurre il proprio consumo di prodotti animali, e soprattutto la carne di ruminanti, è alla grande la leva più efficace, essendo tutto questo compatibile con le questioni di sanità pubblica”. Un vasto studio pubblicato a gennaio dalla rivista medica The Lancet e dalla Fondazione EAT indica a sua volta di non consumare più di 100 grammi di carne rossa, l’equivalente di una bistecca, a settimana.
La lotta contro lo spreco alimentare costituisce l’altro livello d’azione da portare avanti. “Dividere lo spreco della metà permetterebbe di ridurre le emissioni di circa il 5%”, insiste lo studio del I4CE, che fa anche appello a ridurre il consumo di prodotti molto trasformati, confezionati e importati via aerea e a rispettare la stagionalità. Un frutto fatto crescere in serra riscaldata genera “da 6 a 9 volte più emissioni rispetto ad un frutto prodotto nella sua stagione”, notano gli autori.
D’altro canto, l’acquisto in un circuito corto o in agricoltura biologica, si rileva meno significativo in termini di bilancio carbone. “L'agricoltura biologica sta emettendo, in media e attualmente, più del settore convenzionale a causa delle rese più basse, dice Rogissart. Ma il bio porta altri benefici, essenzialmente ambientali”.
Per ridurre l’”impatto carbone” del proprio piatto, il consumatore viene messo difronte alle sue scelte. Ma l’analisi del I4CE allerta soprattutto sulla necessaria coerenza delle politiche agricole pubbliche, sanitarie ed ambientali.

(articolo di Mathilde Gérard, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 01/03/2019)
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