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Censura sugli 'hot dogs' per i consumatori della Malaysia?
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Articolo di Redazione
21 ottobre 2016 12:57
 
  Gli hot dogs sono universali. Salvo -puo' darsi- che in Malaysia, Paese musulmano al 60%, abituato alle polemiche di stampo religioso partite da cose banali. Spesso, il cane, considerato come impuro secondo i precetti musulmani, vi e' coinvolto in un modo o nell'altro.
Nel 1937, il Paese si lacero' per sapere se la saliva canina era impura. Ottant'anni dopo, una discussione partita da Facebook divide la societa' tra coloro che pensano che i musulmani abbiano il diritto di toccare un cane e quelli che rifiutano di farlo. La settimana scorsa, e' l'hot dog, piu' precisamente il “btetzel dog” (una salsiccia in un btetzel!) della catena americana Auntie Anne's che e' servito a pretesto per un dibattito tagliente, vivo e politicizzato, nell'ambito della religione nella vita quotidiana.
“Un hot dog e' un hot dog, anche in Malaysia”
Il dipartimento federale dello sviluppo islamico ha chiesto ad Auntie Ann's di cambiare il nome del suo “bretzel dog” per il pericolo di perdere la certificazione halal che loro concedono, e dunque il potenziale accesso al 60% del mercato del Paese.
Il motivo ufficiale, per il suo presidente, Sirajuddin Suhaimee, secondo la stampa locale: alcuni turisti musulmani si erano lamentati della confusione che implica il nome. Essi hanno creduto che il “bretzel dog” fosse fatto con carne di cane. Ed hanno chiesto di cambiare immediatamente il suo nome... perche' no, per esempio, in “bretzel sauce”? In questo modo, non ci sarebbe stata nessuna confusione. In un'ottica puramente commerciale, l'impresa non ha protestato ed ha rapidamente proposto dei nomi alternativi. Una parte dei malaysiani, musulmani e non musulmani, vi ha visto una censura religiosa, una decisione ridicola e controproducente, che appannava l'immagine del Paese all'estero. Ma questo ha piu' o meno consentito agli umoristi dei social network di fare degli scherzi e dei montaggi sull'intransigenza quasi comica delle istanze islamiche.
In primo luogo, il ministro del Turismo e della Cultura, Nazri Aziz, si e' opposto ad “una decisione stupida e arretrata” ed ha argomentato, ripreso dalla stampa e dai privati: “l'hot dog e' sempre stato conosciuto come un alimento occidentale. Questo viene dalla lingua inglese. Un hot dog e' un hot dog. Noi se ne mangiano da tantissimi anni. Io sono musulmano e questo non non mi offende per niente”. La mia fede non e' mai stata messa in pericolo”.
La polemica ha preso una dimensione politica e sociale senza dubbio piu' importante del previsto. Il dipartimento federale dello sviluppo islamico ha diffuso, il 20 ottobre, una precisazione: il nome di “bretzel dog” non e' mai stato motivo di minaccia per concedergli la certificazione halal. Si tratta di un banale “problema di documenti amministrativi incompleti”, scrive il suo presidente, Sirajuddin Suhaimee. Le sue parole sarebbero state deformate dalla stampa e dai social network: “Non abbiamo mai avuto intenzione di vietare una definizione gastronomica ben radicata”.
Se la parola “dog” non sembra (ancora) creare un problema, il dipartimento federale dello sviluppo islamico vieta gia' la certificazione halal a tutti i prodotti che utilizzano queste parole, sempre nell'ottica di aiutare i consumatori musulmani disorientati: “jambon”, “bacon”, “birra”, “rhum”, “bak kut teh” e “char siew”, due piatti a base di maiale.
Jahabar Sadiq, giornalista per Asian Correspondat, fa notare che anche se il futuro di “bretzel dog” e' salvo, questa polemica mostra che “le certificazioni halal sono diventate strumenti di dominio e di oppressione” di istanze politico-religiose, “quelle che si concedono il diritto di decidere sulla moralita' di cio' che si consuma quotidianamente, che si sia musulmano o meno”. Il suo consiglio ai malaysiani che sentirebbero un leggero clima di repressione religiosa: “continuate ad ordinare degli hot dog e non fate caso alla certificazione halal. I loro poteri si evaporano quando i cittadini e le imprese li ignorano”.

(articolo di Luc Vinogradoff, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 21/10/2016)
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