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Come la nostalgia (e il nostro DNA) rischia di distruggere la democrazia e i diritti di libertà
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Articolo di Pietro Moretti
21 novembre 2018 16:15
 
Siamo bombardati da informazioni, un flusso continuo, senza sosta. In un solo giorno i nostri cervelli devono assorbire e processare flussi di informazioni che un essere umano di un secolo fa non avrebbe avuto a disposizione in un decennio. 
Al contempo, il potere si sta frammentando, non risiede ormai più solo negli stati-nazione, e ancora meno in quelli piccoli come il nostro.  
Percepiamo un mondo fuori controllo, pericoloso, non ci sentiamo più in controllo delle nostre vite, delle nostre città, dei nostri Paesi, dei nostri figli.
Una sfida senza precedenti per l'essere umano: il nostro organismo si è evoluto lentamente per milioni di anni, nel contesto di un mondo che cambiava altrettanto lentamente. Negli ultimi due secoli, ed in particolare negli ultimi decenni, ci troviamo di fronte ad un mondo umano che cambia rapidissimamente: automazione, Internet-of-All-Things e Big Data, biotecnologie, globalizzazione dei trasporti e dell'economia. Ma il nostro DNA e la potenza del nostro cervello rimangono sostanzialmente gli stessi di decine di migliaia di anni fa.
Immaginare il futuro è difficilissimo e inquietante, pensare ad un modo per regolamentarlo è ancora più improbabile. 
E' in questo contesto che l'unica certezza e consolazione viene dal passato, un passato immaginario e rassicurante: il ritorno al campanile, allo stato-nazione, alla famiglia tradizionale, ad un'economia novecentesca o addirittura pre-industriale, alla separazione geografica tra "razze" umane (come dovrebbe essere ormai noto, la biologia ci spiega che il concetto di razza umana non ha alcuna base scientifica). E nell'impossibilità di restaurare il passato, nonostante i molti demagoghi che ci provano, abbiamo bisogno di spiegarci come tutto ciò possa essere accaduto. Come sempre nella storia umana, questa ricerca porta all'individuazione di untori e vittime sacrificali, contro cui si riversano le colpe di tutti. Utilizziamo lo smartphone 24 ore al giorno, e ce ne laviamo la coscienza dando la colpa alle multinazionali che ce li vendono. Acquistiamo compulsivamente online ogni settimana, salvo poi accusare questi siti di distruggere le antiche botteghe sotto casa. Viaggiamo per il mondo per vederlo tramite la telecamera del nostro cellulare, salvo poi lamentarsi dell'inquinamento che producono le compagnie aeree o scagliarsi contro i troppi turisti che invadono le nostre città.
Si chiama ipocrisia, un meccanismo essenziale della psicologia e socialità umana frutto di milioni di anni di evoluzione. Se ne fossimo forse un poco più coscienti, potremmo evitare di accendere roghi inutili.
L'aspetto più preoccupante, almeno per me, è che questa ipocrita nostalgia sacrificale rischia di travolgere una delle più grandi (se non la più grande) conquista sociale dell'essere umano: la democrazia liberale e la creazione di istituzioni sovranazionali, unici strumenti efficaci (anche se ancora molto imperfetti) ad oggi sperimentati per proteggere i diritti di libertà di ogni individuo. Nella frenetica ricerca di capri espiatori, stiamo gettando alle ortiche ciò che faticosamente abbiamo scoperto solo due secoli fa e che  negli ultimi settant'anni avevamo cominciato ad implementare. Ci rifugiamo religiosamente nelle nostre (in)certezze, selezionando attentamente solo le informazioni che le supportano, indipendentemente dalla loro fondatezza, rigettando saperi e conoscenza come frutti avvelenati di un fantomatico establishment che ci perseguita. Di fronte ad un mondo globalizzato, dove i nuovi centri di potere se ne infischiano di elezioni nazionali e frontiere, invece di concentrare il potere pubblico in grandi organizzazioni globali per darci regole globali, troviamo ristoro mentale nel ritorno al nazionalismo e al campanile. 
E' sempre accaduto che in momenti di incertezza, i peggiori istinti e i più pacchiani degli arruffapopolo prendessero il sopravvento. In tempi "normali" sarebbe facile riconoscerli e relegarli al palcoscenico della comicità, piuttosto che a quello politico. Questo avrebbe dovuto essere il destino di un Hitler o di un Lenin. Mi ero illuso che nel 2018, dopo le esperienze del passato e le conoscenze senza precedenti a nostra disposizione, si potessero evitare gli stessi identici errori dei nostri nonni e bisnonni. Non è così. D'altronde, il nostro DNA e il nostro cervello sono praticamente identici a quelli dei cacciatori-raccoglitori che a partire dall'Africa orientale cominciarono ad occupare il mondo intero settantamila anni fa. 

p.s. Mi permetto di consigliare la lettura dei seguenti saggi:
"Sapiens" e "Homo Deus" di Yuval Noah Harari
"Thinking, Fast and Slow" di Daniel Kahneman
"Behave" di Robert M. Sapolsky

 
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