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Dalla pianta al farmaco. Il protocollo di Nagoya
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Articolo di Redazione
11 ottobre 2014 16:39
 
Dall'aspirina agli anticancro, il mondo vegetale ha fornito all'industria farmaceutica la materia prima per la fabbricazione di una gran parte di farmaci. Dietro questo mercato lucrativo si forma un disequilibrio geografico: da un lato, la biodiversita' come fonte delle sostanze attive si concentra nei Paesi del Sud; dall'altro, i centri di ricerca e laboratori farmacologici sono soprattutto nei Paesi del Nord. Guardiani della biodiversita' come guardiani delle tecnologie: e' grossomodo in questo contesto mondiale che nel 2010 e' stato adottato il protocollo di Nagoya.
Questo accordo internazionale, che riguarda l'accesso alle risorse naturali e la divisione dei loro benefici, entra in vigore domenica 12 ottobre, dopo essere stato ratificato da piu' di cinquanta Stati e dall'Unione Europea -con l'assenza degli Usa.
Cosa dice il protocollo di Nagoya? Si applica alle “risorse genetiche” -dalla pianta all'estratto da cui le molecole provengono direttamente-, ma anche alle conoscenze locali che sono ad esse legate -nello specifico a quelle delle medicine tradizionali. L'accesso a queste risorse deve essere disciplinato da un contratto che garantisca il chiaro consenso del fornitore, e di un accordo internazionale riconosciuto che preveda la divisione “giusta ed equa” dei vantaggi, quando ci sono grazie ad un prodotto immesso sul mercato.
Questo quadro commerciale e' uno dei tre grandi obiettivi, insieme alla conservazione e all'uso duraturo della biodiversita', posti dalla Convenzione sulla diversita' biologica del 1992, al Summit della Terra di Rio de Janeiro. A quell'epoca, il mercato della biodiversita' diede ai Paesi del Sud delle formidabili ricadute grazie all'aumento delle biotecnologie, essenzialmente in ambito farmaceutico -premunendosi contro la biopirateria. “In parallelo, i movimenti autoctoni si sviluppano e trovano in questi negoziati una rara occasione per far ascoltare la propria voce”, dice Catherine Aubertin, ricercatrice all'Istituto di ricerche per lo sviluppo (IRD). Venti anni dopo, il protocollo di Nagoya puo' ancora mantenere queste promesse? Per saperlo, vediamo cosa fa l'industria dei farmaci a base di piante.
Le piante come risorsa dell'industria farmaceutica
La morfina, principale rimedio contro il dolore, e' estratta dal papavero; il chinino, utilizzato contro il paludismo, proviene dai quinquinas (alberi dell'America centrale e delle Ande la cui corteccia fornisce il chinino); l'aspirina proviene dal salice bianco o regina dei prati. “L'industria farmaceutica nasce nel XIX secolo a partire dalle piante -dice Jacques Fleurentin, presidente della Societa' francese di etnofarmacologia. Da una parte ci sono le piante medicinali, che sono alla base di tutti i farmaci tradizionali, dall'altra ci sono le piante tossiche, che interessano essenzialmente la chimica. Il digitale, per esempio, e' un veleno per il cuore, ma isolato chimicamente e in dosi molto piccole, la sua sostanza attiva puo' anche curarlo: da cardiotossico diviene quindi cardiotonico”.
Nel 2006, circa un quarto dei 500 miliardi di euro del mercato farmaceutico proveniva in parte o del tutto da sostanze naturali, secondo l'Unione Internazionale per la conservazione della Natura (UICN).
Presso Pierre Fabre, all'avanguardia in queste ricerche, circa il 35% del business viene dalle piante, dice Bruno David, direttore dell'approvvigionamento e della botanica dei laboratori farmaceutici. Dal 1969 stanno commercializzando il piu' importante farmaco contro la lotta al cancro del seno e del polmone, il cui principio attivo e' estratto dalla pervinca del Madagascar.
Il boom della bioprospezione e dello screening degli estratti vegetali
Nel laboratorio Pierre Fabre come nei piu' grandi gruppi farmaceutici, la ricerca sulle sostanze naturali ha un punto di svolta negli anni 1990, con l'arrivo di una nuova tecnologia: lo screening ad alto rendimento. Dei robot si mettono ad analizzare migliaia di estratti vegetali ogni giorno ed a trovare le molecole attive, suscettibili di essere efficaci contro questa o quella patologia.
Il metodo richiede lo screening di un numero considerevole di sostanze naturali. Laboratori e centri di ricerca rimpolpano i propri stock di piante grazie all'esplorazione in foreste e altri ecosistemi maggiormente ricchi di biodiversita'.
Quando Pierre Fabre adotta lo screening robottizzato, nel 1998, analizza con rapidita' alcune decine di piante che stava studiando per costituire un archivio di ben 16.000 campioni botanici, e fa lo screening di 50/100.000 estratti biologici ogni giorno. “All'inizio, utilizzavamo anche le piante dei balconi e dei parchi di Toulouse, ricorda Bruno David, anch'esso parte in causa ai quattro angoli del mondo. Si cercava un po' a casaccio. Per noi, ogni pianta era un contenitore di molecole con una grande diversita' chimica, fatte per influire sul vivente, per cui avevano una potenziale utilita'”.
Anche nel settore pubblico la bioprospezione e lo screening robottizzato conoscono il proprio momento di gloria. All'Istituto di chimica sulle sostanze naturali (ICNS) del CNRS di Gif-sur-Yvette (Essonne), Marc Litaudon e Vincent Dumontet hanno fatto accordi ufficiali di collaborazione con la Malesia, il Vietnam, il Madagascar, l'Uganda, la Guayana e la Nuova Caledonia per la raccolta di piante -fino a 6.000 ad oggi. Queste piante sono raccolte in loco, identificate, poi essiccate e trattate con dei solventi, fino ad ottenere un estratto vegetale che viene messo in piccoli tubi, pronti per lo screening. Se viene identificata una molecola attiva, il chimico la isola, poi identifica la sua struttura, infine la riproduce integralmente con un processo di sintesi, o la modifica in parte, attraverso la hemisynthesis. L'obiettivo e' di arrivare ad un molecola unica, semplificata e migliorata, facile da riprodurre in laboratorio.
E' grazie a questi lavori di hemisynthesis che l'ICSN ha scoperto il principio attivo di uno dei primi farmaci anticancro -in termine di business-, il taxotere, immesso sul mercato nel 1995 da Sanofi. “Negli anni 1960, alcune équipe americane hanno fatto lo screening a 118.000 estratti di 35.000 piante nell'ambito della ricerca sul cancro”, spiega Françoise Guéritte, una delle ricercatrici dell'equipe che aveva fatto la scoperta. Grazie a questi estratti, una molecola attiva e' stata trovata nel tasso del Pacifico, un albero poi portato in Usa: il taxolo. Ma la molecola si trova in cosi' piccola quantita' nella sua corteccia che gli abbattimenti intensivi per produrre il farmaco mettono in pericolo la specie. La soluzione arrivera' dall'ICSN: “diversi tassi europei erano stati abbattuti nel parco del CNRS per fare una strada, si ricorda Françoise Guéritte. L'équipe ne ha approfittato per recuperare gli estratti vegetali ed ha messo a punto un test per valutare la loro attivita' biologica”. Risultato: una molecola con una struttura piu' semplice rispetto al taxolo e' stata scoperta, e in maggiore quantita', e questa volta nelle foglie del tasso. Dopo alcune modifiche chimiche, il taxotere era nato, si rivelo' anche due volte piu' attivo del suo predecessore.
Un protocollo di Nagoya anticipato... o inadeguato
Dopo tutte queste campagna di bioprospezione e questi sforzi di ricerca, le piante miracolose hanno generato, come sperato, benefici nelle loro patrie? In proposito, alcuni, come il laboratorio Pierre Fabre o l'ICSN, si sono distinti in tutto per aver anticipato il protocollo di Nagoya. Il primo ha contribuito alla ricostruzione della facolta' di farmacia della Cambogia, del Laos e del Togo, come dice Bruno David: “ha portato un reddito a circa 3.000 famiglie grazie alla raccolta di pervinca nel sud del Madagascar”. Il secondo e' passato dagli accordi “al piu' alto livello” con gli organismi di ricerca dei Paesi fornitori, e scambia le piante con la formazione di studenti e dei collaboratori scientifici. “Tutto e' previsto in caso di scorporo del brevetto”, dice Marc Litaudon.
In alcuni rari casi, la bioprospezione ha anche prodotto qualche impatto negativo e relativa perdita di soldi. L'esempio maggiore e' il contratto, nel 1991, tra il laboratorio Merck e l'Istituto Nazionale di biodiversita' del Costarica: un milione di dollari all'anno in cambio di migliaia di campioni biologici, che alcune ONG hanno valutato come una svendita a basso costo della biodiversita' del Costarica -nonostante l'assenza di risultati per Merck.
Al di la' di questi esempi, occorre constatare che i miliardi promessi dai Paesi ricchi in biodiversita', si fanno ancora attendere. Il protocollo di Nagoya cambiera' la situazione? Non sicuramente, tant'e' che si mostra, in diversi casi, inadatto alle pratiche attuali dell'industria farmaceutica. Inoltre, il protocollo non si applica alle molecole naturali modificate o integralmente imitate dalla chimica, che costituisce pressocche' il 40% delle nuove sostanze introdotte sul mercato americano tra il 1981 e il 2006 -rispetto al 4% di farmaci che contengono direttamente l'estratto o la molecola naturale, facendo riferimento alle etichette.
Tra questi estratti di piante, quanti ne provengono dai Paesi del Sud? Molti laboratori fanno riferimento ormai alle proprie raccolte di piante “a domicilio”, ormai ben sviluppate dopo decenni di raccolta. “Il parco botanico di Kew gardens, in Inghilterra, raccoglie circa 30.000 specie, perche' cercare altrove?”, fa notare Marc Litaudon. Il protocollo di Nagoya non prevede un'applicazione retroattiva per le piante raccolte prima della sua entrata in vigore.
Infine, l'immagine di un guaritore che orienta la ricerca farmaceutica in virtu' delle famose “conoscenze locali”, che fa parte del protocollo, sembra ancora una volta molto lontano dall'essere messo in pratica. Gli effetti delle piante utilizzate nella medicina tradizionale sono confermati in tre quarti dei casi dalla etnofarmacologia, dice Jacques Fleurentin. E alcuni laboratori vi si sono interessati, come Shaman pharmaceuticals -che da allora e' fallita-, ma l'industria farmaceutica, per l'assenza di ritorni sugli investimenti, si e' rapidamente disinteressata.
Puo' essere perche' i laboratori volevano, giustamente, evitare tutte le incertezze giuridiche in merito ad eventuali diritti di proprieta' intellettuale che potrebbero essere rivendicati dalle comunita' che utilizzano queste piante. Ma anche perche' queste conoscenze non sono necessariamente adatte ai loro bisogni. Non e' certo che esse rappresentino un netto vantaggio in rapporto alle numerose sostanze gia' sul mercato, soprattutto per le patologie che hanno bisogno di maggiore impegno di ricerca, come il cancro. Non e' evidente, inoltre, che i preparati dei guaritori siano facilmente commercializzabili: si tratta spesso di una miscela di pianthe fresche, o di piante in cui diverse molecole agiscono in modo convergente. Tutto il contrario di cio' che cerca l'industria farmaceutica: una molecola unica, isolabile e brevettabile.
La ricerca farmaceutica: grandi impegni per pochi farmaci
Se la divisione dei benefici si fa attendere, e' anche perche' non c'e', molto spesso, nessun beneficio da spartire. Queste lunghe ricerche, anche se contribuiscono a far avanzare le conoscenze nel campo della chimica, della biologia e della botanica, non producono, se non raramente, un prodotto commercializzato. Da Pierre Fabre, le attivita' di prospezione e di screening sono state per il momento infruttuose, e continuano sempre, dopo quindici anni, con la speranza di immettere sul mercato, un giorno, un nuovo farmaco. Stesso scenario all'ICSN: sono state trovare delle molecole attive, dei brevetti depositati, ma gli stessi non sono mai riusciti ad andare oltre i molteplici test effettuati prima dell'immissione sul mercato.
A fronte di questa mancanza di redditivita', la maggior parte dei grandi laboratori farmaceutici ha finalmente messo un termine alle proprie ricerche sulle sostanze naturali per rivolgersi verso le molecole direttamente fabbricate dai laboratori di chimica. La chimica combinatoria, notoriamente, ha permesso di assemblare milioni di molecole, a casaccio, ad un costo minore, piu' semplicemente ed in un quadro giuridico piu' chiaro rispetto alle molecole che provengono dalla natura. Essa alimenta delle immense banche di prodotti chimici, che i robot crivellano instancabilmente alla ricerca di molecole attive.
Ma anche in questo contesto i risultati sono modesti -anche se il 41% delle sostanze sviluppate tra il 1981 e il 2006 proviene da queste molecole senza origine naturale. “La chimica combinatoria produce piu' che la natura, ma meno bene: delle molecole molto semplici, che hanno molte poche possibilita' di essere utilizzate da qualche parte, spiega Marc Litaudon. La molecola naturale ha una struttura di una complessita' e di un raffinamento che l'uomo e' incapace di immaginare. Essa e' il frutto di milioni di anni di selezione, per cui essa ha a maggior ragione una utilita' biologica”. “La ricerca sulle sostanze naturali torna poco a poco di moda, rincara Françoise Guéritte. E' ciclica”.
Eppure, tali ricerche si baseranno non necessariamente sulla biodiversità come si e' immaginato nelle prime ore dei grandi negoziati ambientali: sono sempre di piu' i microrganismi e gli organismi dei grandi fondali marini o dei luoghi piu' estremi che ispirano gli scienziati. Comunque, il protocollo di Nagoya avra' sempre il merito di porre un quadro piu' sistematico, internazionalmente riconosciuto, in modo da regolare il grande mercato della biodiversita', dice Catherine Aubertin. “E' almeno il riconoscimento che non si puo' piu' fare il mercato a proprio piacere nei Paesi del Sud, e' la fine di un certo spirito coloniale che e' prevalso per lungo tempo nella ricerca e in botanica”.

(articolo di Angela Bolis, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 11/10/2014)

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