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I diritti di base si sciolgono sul globo
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Articolo di Redazione
27 ottobre 2018 20:00
 
Come le civiltà, le democrazie sono mortali. Moribonde? Alcune no: i regimi democratici nono sono mai stati così tanti sul Pianeta e molti di loro sono solidi. Non siamo negli anni 30. Ma un nuovo male vola su di loro, un male più insidioso, più pernicioso, un male che viene dall’interno e che consuma la cultura democratica. Il mappamondo che ne pubblichiamo mostra l’estensione: in numerosi Paesi, il nazional-populismo non smette di guadagnare terreno. Punto di dittatura aperta. Ma una conquista progressiva che, a nome della nazione, tradisce lo Stato di dritto, abbassa il confronto pubblico, erode le libertà, emargina le minoranze, attacca il diritto delle donne e presenta un po’ ovunque lo straniero come un bieco emissario.
“Liberté, égalité, fraternité”, dice la Repubblica francese. “Identità, sicurezza, intolleranza”, rispondono i nazionalisti. Metodi legali, un appello alla sovranità popolare, poca violenza fisica: il fascismo non è alle porte. Ma ovunque gli stessi tempi, le stesse semplificazioni, gli stessi slogan aggressivi e in linea di massima dominanti. Ci sono le “democrature”, come la Turchia, passata sotto la cappa del sultano Erdogan. C’e’ soprattutto la vittoria dei partiti reazionari, fusi in uno stampo costituzionale, al potere in Italia, in Ungheria, in Usa e nelle Filippine. E presto, bisogna farsene una ragione, in Brasile. Ci sono infine un po’ dovunque, questi partiti xenofobi, omofobi, declinisti, climatoscettici nella maggior parte dei casi, rapidi in materia di sicurezza, retrogradi in materia di costumi, che riempiono le urne e che svuotano le teste a beneficio di affetti sommari, mobilitazioni semplicistiche, una sorta di marea brunastra che si insinua in regimi fino allora ufficialmente dedicati al progresso e alla libertà.
Epidemia
Una sociologia pigra criminalizza la crisi economica, le ineguaglianze, le fratture sociali. Esse giocano il loro ruolo, relegando una gran parte delle classi popolari in una miseria relativa e un malessere urbano o campagnolo che alimenta un sentimento di abbandono, offrendo un terreno fertile ai demagoghi. La versione liberale della mondializzazione minaccia gli acquisti, fa crescere le differenze di reddito, mina le protezioni, offusca i punti di riferimento, nasconde il futuro dei più svantaggiati. Il liberalismo senza freni, foriero di nazionalismo. Ma l’epidemia non si limita ai Paesi poveri o dove vigono le diseguaglianze. La Svizzera, Stato ricco ed equilibrato, ha anch’essa il suo partito intollerante, così come le nazioni scandinave e i Paesi Bassi, che hanno fatto tanti sforzi a favore della protezione sociale e dell’integrazione. La crisi economica crea una scena. Essa non spiega nel particolare. Sono le fatture culturali, societarie, che fanno la vera differenza. “Siamo a casa nostra!”. Dovunque, lo slogan riassume l’umore dei popoli. Questo è ciò che rende il compito dei democratici, dei progressisti o di sinistra, così difficile, di coloro che si dedicano alla tolleranza e all'apertura. Cosa rispondere a coloro che sentono di non appartenere più? Che sono razzisti? Un po’ poco. Allo stesso modo, la predicazione a favore del "vivere insieme", sotto tutti gli aspetti ma anche ottimistico quando i quartieri si trasformano in ghetti, le comunità si spiando e talvolta si affrontano, e le città concentrano tutti i mali e i villaggi vivono nell'angoscia della negligenza.
Capro espiatorio
In queste condizioni, l’identità e la nazione diventano il solo patrimonio di coloro che non hanno, mentre come il rifugio identitario rassicura simmetricamente le minoranze lasciate fuori dei muri. L’immigrazione diventa naturalmente, nella popolazione, il capro espiatorio di tutti i risentimenti. Spesso spiega l'improvvisa svolta di questo o quel partito che perora la chiusura. In Germania, in Svezia, in Danimarca, tutti Paesi generosi e aperti, ha suscitato una reazione politica devastante. In Italia, l’umiliazione di un Paese lasciato dall’Europa solo di fronte all’ondata migratoria del 2015, ha fatto da propulsore per la Lega, fino a quell’epoca confinata nel regionalismo nordista, oggi in testa nei sondaggi dei voti popolari.
L’insicurezza gioca anche il suo ruolo. E’ l’impotenza della democrazia filippina nel contrastare il dilagare delle bande che spiega la vittoria di Rodrigo Duterte, che ormai combatte queste bande con metodi da gangster. E’ la stessa che ha gonfiato la popolarità di Jair Bolsonaro, questo militare nostalgico della dittatura che domenica sta per conquistare il potere in Brasile. Il rifiuto delle élite, infine, riunisce la maggior parte dei voti populisti. Elite corrotte, come in Basile; élite ritirate sull’Aventino della loro prosperità, come in tanti Paesi, vivendo in un mondo aperto, protetto dalla barriera dei prezzi dell’immobiliare nelle grandi capitali; élite impotenti, soprattutto, le cui promesse di recupero sono un fiasco, dove il liberalismo economico crea incomprensione e collera, così come sono tagliati fuori dal resto della popolazione.
Quando la democrazia classica, conservatrice o socialdemocratica, non riesce a far fronte ai mali della società, quest'ultima si volta verso un regime più muscoloso, più intollerante, più chiuso, che invoca il declino a favore di un discorso nazionale aggressivo e l’immigrazione per alzare nuovi muri e frontiere. Su questo, la lezione degli anni 30 è sempre valida. Senza aver frenato la crisi economica, reso un futuro per la nazione, mantenuto l'ordine civico, superate le divisioni culturali e sociali, le democrazie d’Europa (Italia, Germania, Ungheria, Polonia, Spagna o Francia) sono cadute una dopo l’altra sotto i colpi del fascismo. Per aver dato speranza alle classi popolari, dato una prospettiva alla nazione, messa insieme con abilità una coalizione politica intorno al suo progetto, Roosevelt ha vinto sui leader populisti del suo tempo, Lindbergh, Huey Long o il padre Coughlin, anche perché la crisi del 1929 fu più violenta in Usa che in Europa.
Pericolo
La casa brucia e si guarda altrove. Vero per il clima, l’aforisma vale anche per la democrazia. Il pericolo è reale, palpabile, immediato. Gli ingredienti del nazional-populismo sono presenti, sotto i nostri occhi. I rimedi? Sono facili da dire. E la messa in opera che manca. Una politica umana di immigrazione, impostata su accoglienza e apertura, ma un’apertura organizzata, con regole stabili e chiare. Un rifiuto repubblicano – tollerante ma fermo – della deriva comunitaria che è l’anticamera dello scontro. Una politica economica rivolta verso la protezione e la promozione delle classi popolari, anche per gettare alle ortiche la deleteria camicia di forza dell'ortodossia. Riforme sociali che non siano sinonimo di sacrifici, chiedendo agli stessi, ma che restaurino in modo tangibile l’idea di progresso. Un progetto per la nazione, che renda alla stessa la sua vera identità, fondata sulla giustizia e la libertà, all’opposto dei confini etnici. Un comportamento delle élite, infine, che le faccia uscire dalla loro torre d’avorio e le riconcili con il resto della popolazione, da una comprensione delle difficoltà che la globalizzazione impone ai popoli, ad un atteggiamento di rispetto e non di lontana commiserazione.
Questa condizione è cruciale: senza di essa, l’invecchiamento della classe politica continuerà a prevalere, a beneficio dei nemici della libertà. Ci vuole una consapevolezza urgente. Ovviamente, siamo lontani …

(articolo di Laurent Joffrin, pubblicato sul quotidiano Libération del 27/10/2018)
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