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La disinformazione, un fenomeno economico
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Articolo di Redazione
6 giugno 2018 15:39
 
 Nell’epoca delle grandi piattaforme digitali – Google e Facebook in testa – la classificazione, la diffusione e la priorità delle informazioni su Internet sono sempre più dei mezzi utili che permettono di sviluppare un profilo di ogni utente e di personalizzare i contenuti proposti. Questi strumenti, siccome hanno come scopo quello di influenzare i comportamenti, possono porre problemi di riduzione della libertà di scelta degli individui o di manipolazione. Il modo in cui le grandi piattaforme “scelgono” l’informazione che ci propongono, é una questione centrale per tutti i tentativi di regolare il cosiddetto fenomeno “fake news”.
Per comprendere le “ali” tecniche ed economiche delle fake news, occorre partire da una domanda: come va avanti la diffusione dell’informazione online, e più particolarmente sulle grandi piattaforme? Grazie ad una logica di affinità e di prossimità: gli internauti citano, si relazionano, fanno riferimento a quello che loro giudicano interessante. Diversi studi hanno potuto mostrare che questa logica, nonostante il suo potenziale diretto ed egualitario, genera una compartimentazione tematica o ideologica (quello che il militante e imprenditore americano Eli Parise ha voluto illustrare con la nozione di “filter bubble” - bolla di filtro).
Un esempio di questo fenomeno é la navigazione in “modo personalizzato” su Google: il motore di ricerca potrebbe, in alcuni casi, diventare uno strumento che conforta un’opinione gia’ esistente, invece di aiutare ad esplorare l’informazione… a causa di un modello economico che consiste nel mostrare agi internauti ciò che loro piace. In modo simile, EdgeRank, l’algoritmo che guida la classificazione delle informazioni su Facebook, segue un principio di prossimità - l’informazione che noi vogliamo in primo luogo é quella che é condivisa tra i contatti con cui siamo più vicini. Ancora una volta, questo meccanismo risponde ad un principio di “economia del click”: l’algoritmo di Facebook ritiene che più noi abbiamo scambi con un contatto, “linkando” o condividendo i suoi post, più i contenuti che lui condivide sono importanti per noi.
Industria della disinformazione
L’impegno centrale per le piattaforme, grazie a questi esempi e anche altri, é sicuramente economico: si tratta di mettere a profitto i dati personali dei suoi utenti (e quindi di mantenere la loro attenzione più a lungo possibile per poterle raccogliere) per poi generare degli utili esponendoli a contenuti pubblicitari che hanno una forte possibilità di vedersi apprezzati e scambiati coi propri partner. Quello che sottointende l’infrastruttura tecnica di Facebook é anche un principio molto classico di profilazione pubblicitaria e di fidelizzazione.
C’é quindi un ostacolo che sarebbe specifico delle piattaforme digitali, e che renderebbe questo fenomeno meno identificabile e più problematico? La risposta é dove i GAFA (Google, Facebook, Apple e Amazon) si sono inseriti nella nostra vita: nati come strumenti di contatto e di networking sociale, essi costituiscono ormai uno dei nostri principali punti di accesso all’informazione online.
Ora, sempre piu’ frequentemente, una vera “industria della disinformazione” si sovraespone ai processi che abbiamo appena descritto e – siccome le grandi piattaforme hanno uno stimolo economico a dare la priorità ai contenuti sensazionali, perché più suscettibili di attirare l’attenzione – finisce per favorire la polarizzazione e la radicalizzazione dei dibattiti.
Le fake news non sono un fenomeno nuovo: si tratta, in fin dei conti, di un aggiornamento delle voci, dei passaparola. Ciò che cambia con le grandi piattaforme digitali, é che questi fenomeni sono industrializzati e re-intermediati: contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, la disinformazione sulle piattaforme é ben lungi dall’essere un fenomeno spontaneo. Essa é artificiale e organizzata, e più spesso, non ha niente a che vedere con il vero impegno politico, ma con degli attori che hanno molto ben compreso quali leve dell'economia digitale devono manovrare per vedere aumentare i loro introiti pubblicitari.
La circolazione della disinformazione sul web ha un legame diretto con il metodo con cui le piattaforme cercano di avere un profitto economico dalla loro audience; la loro efficacia di reddito, come fa notare Romain Badouard nel suo libro “Le Désenchantement de l’Internet” (FYP éditions, 2017), é dovuta al fatto che essa ormai fa parte delle architetture tecniche e gli algoritmi che fanno circolare le informazioni, e non più delle informazioni in quanto tali.
Le reazioni a queste pratiche sono di diverso tipo e mobilitano diversi attori: i grandi attori privati, i giornalisti, i ricercatori e i poteri pubblici. Al momento, sono le piattaforme stesse che, a dispetto del loro ambiguo status, hanno reagito con maggiore rapidità. Facebook, dal 2016 ha preso un insieme di misure per lottare contro la disinformazione sulla sua piattaforma. Ha per esempio modificato il suo algoritmo per considerare non solo la popolarità di certi contenuti ma anche le specifiche fonti, favorendo alcuni media considerati come “legittimi”, ed ha fatto sapere di aver soppresso 583 milioni di falsi conti di utenti durante il solo primo trimestre del 2018. Google, per suo conto, ha modificato il suo algoritmo per applicare un’etichetta ai siti considerati come affidabili.
La circolazione della disinformazione su Internet trae profitti da un certo numero di fattori tecnici ed economici, come i modelli economici delle piattaforme o le architetture e le infrastrutture tecniche che le stesse aggiornano. Un tentativo di regolamentare le fake news sarebbe bene che prenda in considerazione queste cause più profonde, al di là dell’aspetto che ci é più vicino in quanto utenti – quello dei contenuti.

(articolo di Francesca Musiani, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 06/06/2018)
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