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L'inquinamento chimico ha raggiunto gli abissi degli oceani
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Articolo di Redazione
15 febbraio 2017 12:45
 
  I grandi fondali marini sono l’ultima “terra incognita” del nostro Pianeta. Un mondo quasi inaccessibile, quasi inesplorato, che si immagina resti immacolato, immune da qualunque contaminazione. Non e’ cosi’. Perche’ porta, anch’esso, il marchio indelebile delle attivita’ umane. E’ quanto fa rilevare uno studio di alcuni ricercatori britannici pubblicato lo scorso 13 febbraio sulla rivista Nature Ecology & Evolution.
Alan Jamieson (Istituto delle scienze biologiche ed ambientali dell’Universita’ di Aberdeen in Scozia) e i suoi colleghi hanno analizzato due delle fosse oceaniche piu’ profonde, quella delle Marianne, nella zona nord-ovest del Pacifico, e quella di Kermandec, nella zona sud-ovest. E’ qui il luogo che gli oceanologi chiamano “l’ultraprofondo”, quello della zona adopelagica che comincia a partire da 6.000 metri al di sotto del livello del mare.
Hanno fatto scendere, fino al fondo dell’oceano, un robot sottomarino equipaggiato con rastrelliere, con le quali hanno bloccato, a diversi piani della colonna d’acqua (tra 7200 e 10000 metri per la fossa di Kermandec, tra 7800 e 10250 per quella delle Marianne), degli esemplari di anfipodi. Si tratta di piccoli crostacei col corpo adunco, della misura nell’ordine di centimetri, che si nutrono di tutti i detriti che finiscono nelle loro mandibole: degli spazzini, una sorta di netturbini di ogni tipo di mari. Hanno anche collocato dei campioni di tre specie endemiche: Hirondellea dubia, Hirondellea gigas e Bathycallisoma schellenbergi.
Queste pulci di mare sono poi state riportate in superficie, dove i ricercatori hanno analizzato il tenore dei loro grassi, come la materia secca ottenuta dopo la parboilizzazione (ndr - macerazione in acqua con successiva essiccazione), chiamata POP. Delle molecole che, come il loro nome indica, hanno la caratteristica di non degradarsi naturalmente, anche se restano durevolmente presenti nel terreno, nell’aria e nell’acqua. Esse si accumulano nei tessuti degli esseri viventi -animali o umani- che li inalano o li ingeriscono, con molteplici effetti deleteri.
“Potente contaminazione”
Due gruppi di composti appartenenti a questa famiglia delle sostanza chimiche sono stati passati al setaccio. Da una parte, i policlorobifenili (PCB), abbondantemente utilizzati negli anni 1930/1970 dai fabbricanti di apparecchi elettrici per le loro proprieta’ isolanti, prima di essere banditi in virtu’ della loro tossicita’. Dall’altra parte, gli eteri di difenile polibromurato (PBDE), usati negli anni 1970-1980 nell’industria petrolifera e tutt'ora utilizzati come ritardatori di fiamma, per rendere ignifuga la plastica, tessuti ed equipaggiamenti elettrici.
Gli autori dello studio fanno sapere di aver misurato “dei livelli straordinariamente elevati” di questi prodotti nei crostacei. I dati, espressi in nanogrammi per unita’ di massa corporale, non direbbero nulla ai non addetti ai lavori. Me i confronti sono espliciti: i tenori di PCB in modo particolare, sono alti, sono “cinquanta volte superiori” a quelli trovati in dei crostacei del fiume Liao, uno dei corsi d’acqua piu’ inquinati della Cina, e dello stesso livello di quelli rilevati nella baia giapponese di Suruga, una regione molto industrializzata del sud dell’arcipelago nipponico. “Questi dati mostrano chiaramente una potente contaminazione di origine umana ed una bioaccumulazione nella fauna”, concludo i ricercatori,
“I livelli rilevati sono molto significativi, commenta Francois Galgani, ecotosiicologo all’Institut français de recherche pour l’exploitation de la mer (Ifremer), che non ha partecipato a questo lavoro. Essi sono correntemente controllati nelle zone costiere segnate da una forte attivita’ industriale -come la baia di Seine in Francia- e, per altri inquinati come i metalli, significativamente superati in alcune zone in cui ci sono estrazioni minerarie, per esempio in Australia. Ma queste concentrazioni non sono ancora mai state documentate a tali profondita’”.
Ruolo dei detriti di plastica
Come queste sostanze sono finite a 10.000 metri in fondo al mare, a centinaia di km di distanza dalla terra ferma, e quindi da dove hanno origine? Gli autori sostengono che siano state trasportate dalle correnti atmosferiche e oceaniche, prima di essere trasportate verso gli abissi attraverso degli aggreganti di materia organica (batteri, cellule degradate di fitoplancton, di zooplancton e organismi marini in decomposizione) o inorganica (particelle fini di sedimenti, argille, microrifiuti…). Questi aggreganti formano la “neve marina”, un flusso continuo di particelle che puo’ trasferire gli inquinanti dalla superficie verso i fondali.
Un’ipotesi e’ che il processo sia alimentato dai miliardi di detriti di plastica di ogni dimensione che fluttuano nell’oceano, sui quali gli inquinanti organici persistenti si fissano spontaneamente. Nel Pacifico del nord si trova giustamente una gigantesca zona di convergenza (o vortice oceanico) di rifiuti di plastica. Il “Great Pacific Garbage Patch” o “grande contenitore dell’immondizia del Pacifico”.
Le conseguenze di questa contaminazione sugli ecosistemi dei grandi fondali marini sono da studiare. Gli autori ricordano che la produzione di PCB e’ stata stimata, nell’insieme dei Paesi, a 1,3 milioni di tonnellate, i due terzi dei quali si presume che si trovino oggi nelle discariche, o sempre negli equipaggiamenti elettrici. L’ultimo terzo ha raggiunto gli oceani e i sedimenti marini. I rifiuti della civilizzazione non hanno finito di avvelenare i crostacei delle grandissime profondita’ e, con esse, l’insieme della catena alimentare.

(articolo di Pierre Le Hir, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 13/02/2017)
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