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I mercati finanziari sono complicati? Magari…
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Articolo di Alessandro Pedone
16 maggio 2016 8:22
 
 
Dobbiamo rendere le cose più semplici possibili,
ma non ancora più semplici.
A. Einstein

Spesso mi dicono che i mercati finanziari sono complicati, intendendo con questo termine “difficili da capire”.
Tecnicamente, i mercati finanziari non sono complicati, sono complessi.
Complesso, complicato e semplice sono termini che vengono tutti dalla stessa radice indoeuropea plek (parte, piega, intreccio). Da plek vengono i verbi latini plicare (piegare) e plectere (intrecciare) così come il suffisso plex (parte).
Quindi,  complicato = con pieghe (cum + plicare), cioè può essere s-piegato.
Complesso = con intrecci  (cum + plectere), cioè non può essere spiegato.
Semplice, invece, viene da sim + plex, cioè senza parti, né complicato né complesso.
Dal punto di vista della teoria della complessità, un sistema complesso si distingue da un sistema molto complicato perché le sue componenti interagiscono fra di loro in modo non lineare.  Ciò significa che una componente influenza ed è a sua volta influenzata da un’altra. Un orologio, ad esempio, è un sistema molto complicato, ma non complesso. Una cellula è un sistema incredibilmente complesso perché al suo interno avvengono moltissime reazioni frutto dell’interazione non lineare di tantissime parti.
Perché è così importante distinguere ciò che è complesso da ciò che è solo  complicato? Perché abbiamo bisogno di un armamentario teorico e di strumenti completamente diversi per studiarli e trarne le adeguate conseguenze.
 
Il problema dei modelli troppo semplici
Per poter studiare la realtà gli studiosi costruiscono dei modelli. I modelli sono una rappresentazione, in genere formalizzata da formule matematiche, di una porzione di realtà. Ad esempio in economia si parla di “equilibrio fra domanda ed offerta” per indicare un modello in base al quale all’aumentare dell’offerta il prezzo scende, all’aumentare della domanda il prezzo sale fino a quando si dovrebbe raggiungere un equilibrio fra le due cose. Questo è un pezzo del classico modello, costruito con banalissime equazioni di primo grado, sul quale si fonda tutta l’economia e quindi la finanza.
Qualsiasi modello, nessuno escluso, è necessariamente una semplificazione della realtà. Deve rappresentare in qualche modo un compromesso tra l’essere efficiente (cioè facile da utilizzare) ed efficace (cioè descrivere nel modo più rappresentativo possibile la realtà).
Prima dell’avvento dei computer, tutta la scienza si basava su modelli non complessi i quali sono molto efficienti, ma anche poco efficaci. I modelli tradizionali, in sostanza, sono delle banalizzazioni della realtà. In ambiti nei quali l’interazione reciproca delle componenti è trascurabile (come la fisica classica) questi modelli funzionano molto bene. Ma per la grande maggioranza dei sistemi che ci circondano nel mondo reale, cioè per tutti i sistemi complessi, questa banalizzazione non funziona, spesso ci trae in inganno.
Ad esempio, il modello del gas perfetto, costruito tra la fine del 1600 e l’inizio del 1800, prevede che il fluido sia del tutto privo di vischiosità. A causa di questa eccessiva semplificazione, non spiega il fenomeno della turbolenza.
Analogamente, la teoria economica tradizionale, per poter utilizzare formule matematiche gestibili con gli strumenti pre-informatici, ha costruito un modello il quale prevede agenti economici razionali, una concorrenza perfetta, assenza di vincoli all’impiego delle risorse e altre ipotesi assolutamente irreali.
Non dovremmo stupirci del fatto che gli economisti non sono in grado di prevedere le crisi! Abbiamo escluso tutti i fattori di turbolenza dal modello che analizziamo e ci stupiamo del fatto che non comprendiamo perché nel mondo reale le cose vadano molto diversamente dal modello teorico?
Con l’avvento dell’informatica siamo in grado di studiare fenomeni complessi attraverso modelli (sia multi-agente, sia multi-fattoriali) complessi, ma purtroppo questa innovazione ha due problemi: 1) è ancora relativamente giovane e 2) è piuttosto “costosa” (non solo e non tanto in termini economici, quanto in termini di difficoltà di utilizzo).
Nel mondo scientifico però il problema dei modelli eccessivamente semplificati è un tema ormai assodato. A partire dagli anni ’70 si è sviluppata una “cultura della complessità” la quale ha anche implicazioni filosofiche molto rilevanti, potremmo dire al pari della fisica quantistica.
Purtroppo in quasi tutti i campi – finanza compresa – siamo vittime di quella che io chiamo la “sindrome QWERTY”. Nelle prime macchine da scrivere, se si scriveva troppo velocemente i martelletti dei tasti si incastravano tra di loro. L’ing. Christopher Scholes, nel 1864 brevettò la disposizione dei tasti “QWERTY” perché rallentava i dattilografi evitando così che i martelletti s’incastrassero.
A distanza di oltre 150 anni continuiamo ad usare ancora una disposizione dei tasti volutamente scomoda semplicemente perché è difficile cambiare! E’ faticoso cambiare anche – e soprattutto – perché c’è tutto un ecosistema attorno a quella scelta che tende a bloccare il cambiamento.
Questo principio vale anche per i modelli scientifici che sono chiaramente inefficaci (ma molto efficienti).
 
Implicazioni della complessità del sistema finanziario
L’errore di fondo dei modelli matematici che continuiamo ad utilizzare in finanza è facilissimo da comprendere: tutti i modelli non includono nelle loro formule il fatto che le scelte degli operatori economici si auto influenzano in circoli viziosi o virtuosi. Questo aspetto, apparentemente banale, cambia tutto!
Crisi come quella del 2008 sono state causate anche grazie al fatto che i modelli matematici sui cui si basano praticamente tutti gli operatori nei mercati finanziari sono nati prima dell’arrivo della Teoria della Complessità e resistono ancora oggi, sebbene siano chiaramente inefficaci.
Praticamente tutti i prodotti e servizi offerti ai risparmiatori continuano ad essere fondati su questi modelli. Quando si acquista, ad esempio, un fondo comune d’investimento, una gestione patrimoniale, ecc. si sta comprando anche una metodologia d’investimento fondata su modelli palesemente non rappresentativi della realtà. Questi prodotti contribuiscono a creare turbolenze e disequilibri sui mercati.
A livello sistemico il fatto di non utilizzare modelli complessi implica che non abbiamo strumenti per prevenire le crisi finanziarie. I modelli che usano la teoria economica classica non sono in grado di spiegare le crisi per il semplice fatto che sono basati sul concetto di equilibrio. Tutti i fattori che causano le crisi sono escluse dal modello per semplificarlo in modo sufficiente da utilizzare una matematica lineare.
Ciò implica che i regolatori del mercato stesso, come è evidente in questa fase, adottino politiche le quali creano il terreno affinché si manifestino nuove turbolenze finanziarie. Se adottassimo modelli complessi per rappresentare i mercati, potremmo anche immaginare nuove regole di scambio nei mercati finanziari che riducano enormemente le perturbazioni, ma siamo distanti anni luce da queste conquiste.
A livello individuale, invece, il fatto che in finanza si continui ad utilizzare modelli così vecchi espone il singolo risparmiatore a continui pericoli. Il risparmiatore medio, oggi, si trova nella condizione di un malato nelle mani di un medico del 700 che ignora concetti fondamentali di fisiologia dell’organismo e prescrive salassi per curare la quasi totalità delle malattie.
 
Conclusioni
Abbiamo visto che i mercati finanziari non sono semplicemente complicati, ma sono bensì complessi, nonostante il fatto che i modelli sui quali si basano tutti coloro che vi operano, compresi i regolatori, ignorino questo aspetto assolutamente fondamentale. Che fare allora, sapendo questo?
La prima cosa è non credere alle favole che ci racconta l’industria del risparmio gestito (come quella del “bravo gestore”) e usare gli strumenti finanziari con grande prudenza partendo dal concetto che il primo obiettivo in finanza è evitare le grandi perdite.
 
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