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Omicidi in ospedale. Intervista all'autore di un'indagine
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Articolo di Redazione
8 settembre 2010 8:53
 
Intervista al professor Karl Beine che da vent'anni cerca di capire perché certi operatori sanitari uccidano i propri assistiti.

Karl Beine è primario della clinica psichiatrica al Sankt-Marien-Hospital di Hamm (Germania) e titolare di cattedra all'Università Witten/Herdecke. Ha indagato su tutti i casi di omicidi seriali di pazienti venuti alla luce dal 1970 a oggi, e ha scritto un libro intitolato "Omicidi di malati in ospedali e case di cura. Scoprire e impedire".

D - In base alle sue conoscenze, dal 1970 sono stati scoperti 35 autori di omicidi multipli nel mondo. Quanto pensa sia grande il numero ancora nascosto?
R - Di solito, il numero dei delitti non scoperti è di due o tre volte quelli noti. Trattandosi di malati la cifra oscura potrebbe essere superiore.

D - Perché dovrebbe essere così?
R - Primo, perché non sono casi facili da chiarire: il personale sanitario di solito uccide con i farmaci, ciò che non appare come un delitto, ma piuttosto come atto di routine. Inoltre, non si sospetta che simili azioni accadano nei luoghi deputati a proteggere e ad aiutare gente bisognosa di cure.

D -
Ma allora perché capita che degli operatori uccidano i loro assistiti?
R - In primo luogo esiste una particolare configurazione psichica degli autori di questi delitti. Costoro -in maggioranza uomini- non hanno sicurezza in se stessi. Molti indizi fanno pensare che la scarsa autostima sia già alla base della loro scelta professionale. E giacché aiutare e curare gli altri è apprezzato dalla società, essi sperano di essere stimati per la loro attività e di compensare così l'insicurezza che li affligge.
Ma quando i risultati non si vedono perché i pazienti anziani e incurabili spesso non possono essere salvati, e dato che la società vede l'assistenza sempre più come un peso e un onere finanziario, la sicurezza in sé di questi soggetti viene meno, e l'insoddisfazione e la sofferenza verso la propria professione si proiettano sui pazienti. Gli esperti parlano di identificazione proiettata, io la chiamo autocommiserazione spostata. I confini tra paziente e operatore diventano labili e a un certo punto il soggetto crede di sapere che cosa sia il meglio per il presunto sofferente: la morte, che lo libererà.

D - Ma come si arriva alla reiterazione dell'atto?
R - Dopo la prima volta la soglia dell'inibizione si riduce. Il sollievo provato dura poco e il disagio dell'autore del delitto cresce. Ai suoi occhi le sofferenze del paziente e la propria attività professionale non hanno più senso. E allora uccide ancora contro il dolore: proprio e altrui.

D - La situazione nelle cliniche e nelle case di cura ha un suo peso? In molti luoghi il personale è carente e gli operatori sono oberati dal lavoro.
R - E' vero, ma oggettivamente l'impegno degli autori di delitti non superava quello di altre strutture, talvolta era anche inferiore. Non penso che le condizioni di lavoro siano all'origine di quelle azioni. Se mai, la sensazione individuale di sovraccarico. Uno degli autori lo ha detto: "Ero stressato perché insoddisfatto. Inoltre era un'assistenza impegnativa e io ero arrivato al limite delle capacità. Mi sovrastava, e non vedevo via d'uscita".

D - Ciò che inquieta nella sua ricerca è che gli autori, ben prima del loro arresto, fossero soprannominati "angelo della morte" o "esecutore". Si tratta di tacita indulgenza?
R - Sì. Le reazioni dei colleghi andavano dalla disattenzione a velate sollecitazioni. Per esempio, un collega disse a una delle infermiere poi divenute assassine: "Vai tu da quel paziente, forse riuscirà a morire più facilmente". Dal canto loro, gli autori non nascondevano troppo il loro atteggiamento. Spesso usavano espressioni grevi come "crepare" e minacciavano i malati di morte. Il loro agire poteva essere facilmente osservato dai colleghi.

D - La nostra società ha difficoltà a confrontarsi con la vecchiaia e la morte. Può un tale atteggiamento indurre a una certa trascuratezza nelle strutture sanitarie?
R - Se di fronte ad azioni sospette i colleghi si girano da un'altra parte, ciò non è altro che l'estremizzazione di quanto viviamo nella società. Nel caso migliore la morte non c'interessa. Gran parte della gente dice di voler morire a casa propria, ma in realtà molti passano le loro ultime ore in una casa di cura o in ospedale. Non vogliamo vedere la morte, la deleghiamo alle istituzioni -e fingiamo indignazione se in quelle strutture le persone sono trascurate o uccise.

D - Nel caso migliore la morte non c'interessa, e nel peggiore?
R - Nel peggiore pensiamo di poter stabilire noi cosa valga la pena d'essere vissuto e cosa no. Gli operatori che hanno ucciso i loro pazienti raramente si sono confrontati con il punto di vista di quest'ultimi. Magari non li conoscevano affatto, eppure ritenevano di sapere che cosa fosse il meglio per loro. Nella discussione sull'aiuto attivo a morire vedo un modello simile. Conduciamo il dibattito con l'ottica dei giovani e dei sani. Non sappiamo quello che provano le persone vicine a morire. Siamo sicuri, veramente, di volergli togliere la possibilità di decidere della propria morte?

D - Come si può in futuro evitare gli omicidi dei malati?
R - In parte questi atti si possono evitare stando attenti ai segnali premonitori. C'è un legame tra la presenza di determinati operatori sanitari e la frequenza dei decessi? In quella struttura domina un linguaggio rozzo? Si moltiplicano le doglianze dei parenti? Anche il controllo puntuale dei farmaci può prevenire, così come la denuncia anonima di eventi sospetti.

(intervista a cura di Berit Uhlmann, traduzione dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung del 2 settembre 2010)
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