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Gli scambi commerciali che minacciano la biodiversita'
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Articolo di Redazione
5 gennaio 2017 11:55
 
 E’ un fatto conosciuto. La deforestazione, la over-pesca o il bracconaggio sono responsabili di una erosione spettacolare della biodiversita’ in tutto il Pianeta.E uno dei principi motori di questa sovradimensione delle risorse naturali, e’ nella produzione dei beni e dei servizi destinati all’esportazione. Uno studio pubblicato lo scorso 4 gennaio nella rivista “Nature Ecology & Evolution” permette di identificare quali consumatori, in un Paese, minacciano alcune specie in un altro Paese. Lo studio delinea un atlante mondiale che indica, con vari colori, le zone di biodiversita’ piu’ colpite dal commercio internazionale.
“Possiamo anche fare il punto sulle rotte economiche internazionali che hanno il piu’ grande impatto sulla fauna selvaggia, si’ da migliorare le politiche di conservazione -spiegano gli autori, Daniel Moran (Universita’ Norvegese di Scienza e tecnologia) e Keiichiro Kanemoto (Universita’ Shinshu, Giappone). Nostro obiettivo e’ che le imprese e i consumatori utilizzino questa mappa per salvaguardare la biodiversita’”. Poiche’ c’e’ un’urgenza: secondo il WWF, piu’ della meta’ della popolazione dei vertebrati e’ scomparsa nel mondo in rapporto al 1970 e, a questo ritmo, i due terzi dei rimanenti potrebbe seguirli entro il 2020.
I due scienziati stanno conducendo un lavoro intrapreso da piu’ di sette anni. Nel 2012, hanno gia’ pubblicato su Nature, sotto la direzione di Manfred Lenzen, specialista in sviluppo durevole all’Universita’ di Sydney, una cartografia delle pressioni esercitate sugli ecosistemi dalle catene di approvvigionamento in merci e in prodotti alimentari, Escludendo le specie invasive, concludono che il 30% delle minacce che pesano sulle specie nel mondo, sono legate al commercio internazionale -una proporzione che puo’ attestarsi tra il 50 e il 60% in alcuni Paesi come il Madagascar, la Papuasia-Nuova Guinea o Sri Lanka.
Impatto sull’Asia del sud-est
Il consumo -soprattutto da parte dei Paesi sviluppati- di caffè importato, di the, di zucchero, di prodotti tessili, di pesce e di altri articoli manufatti, colpisce anche la biodiversita’ dei Paesi produttori -maggiormente in via di sviluppo- che sono a migliaia di chilometri distanti. Lo studio va oltre, mettendo nel dettaglio le minacce che pesano sulla biodiversita’ a livello terrestre e sulle coste, e questo a livello regionale e non solo nazionale.
Per realizzare la loro mappa, gli autori hanno recensito le zone di ripartizione di 6.803 specie animali vulnerabili o in pericolo, iscritte sulla lista rossa dell’Unione Internazionale di Conservazione della Natura. I pericoli che minacciano la loro scomparsa -166 in tutto, come lo sfruttamento delle foreste, l’agricoltura, l’urbanizzazione o i trasporti- sono associati ai consumatori finali di 187 Paesi. Il risultato è una percentuale di rischio per una specie in un Paese a causa del consumo di beni in un altro.
In Brasile, per esempio, la sopravvivenza della scimmia-ragno comune (Ateles paniscus) e’ compromessa dallo sfruttamento delle foreste e la produzione agricola avviata per il consumo di beni in Usa. Il consumo di the in Giappone e’, di per se’, responsabile del declino delle popolazioni a nord del Vietnam, in Thailandia, o nella parte meridionale di Sri Lanka. Il legno della Malesia, largamente commercializzato in Europa e in Cina, ha privato del loro habitat l’elefante, la clanga clanga e l’orso malese.
Globalmente, l’Asia del sud-est e’ la regione piu’ colpita per quanto riguarda la biodiversita’ marina. I consumatori americani ed europei sono responsabili di numerose sfruttamenti per la fauna -soprattutto legati alla pesca, l’acquacoltura e l’inquinamento. L’Europa fa ugualmente delle forti pressioni con l’oceano Indiano, sulle isole de La Reunion, di Mauritius e delle Seycelles. Sulle terre emerse, gli Usa compromettono la biodiversta’ dell’Europa del sud, delle coste del Messico, del sud del Canada, del Brasile (Amazzonia e altopiano brasiliano), della Spagna o del Portogallo, cosi’ come i Paesi dell’Ue minacciano il Marocco, l’Etiopia, il Madagascar o la Turchia, essenzialmente per i prodotti agricoli.
Etichettatura dei prodotti
“La nostra mappa puo’ aiutare le imprese a fare scelte giudiziose sui loro guadagni ed attenuare il loro impatto sulla biodiversita’. Speriamo che le imprese comparino le nostre mappe e i luoghi dei loro acquisti e riconsiderino i loro canali di approvvigionamento”, spiega Keiichiro Kanemoto. Gli autori fanno appello ad una etichettatura dei prodotti in funzione dei rischi che essi rappresentano per la biodiversita’. “I consumatori potrebbero anche scegliere dei prodotti rispettosi della biodiversita’ nella loro vita quotidiana”, aggiunge lo scienziato nipponico.
Tanto piu’ che, secondo lo studio, le zone da proteggere sono meno vaste di quanto ci si aspettava: il 5% delle aree marine piu’ colpite dal consumo americano, concentrano per esempio il 60% degli habitat delle specie minacciate. Oggi, il 90% dei sei miliardi di dollari (5,7 miliardi di euro) che vengono utilizzati annualmente per proteggere le specie in pericolo, sono distribuiti nei Paesi ricchi. “E’ raro che in questi Paesi si trovino dei punti caldi”, rileva Kanemoto. “Questo e’ uno dei primi studi che permette di fare il legame diretto tra l’impatto sulla biodiversita’ da un lato e i Paesi consumatori e le industrie che ne sono responsabili dall’altro, invece di accontentarsi di studiare i Paesi toccati -dice Céline Bellard, ecologa all’University College di Londra-. In un mondo globalizzato dove la maggior parte dei consumatori desidera dei prodotti esotici, e’ essenziale avere una visione chiara dell’impatto del nostro consumo sulla biodiversita’ mondiale. Inoltre, i programmi di protezione della biodiversita’, essenzialmente nell’ambito delle convenzioni internazionali, hanno bisogno di individuare la responsabilita’ dei Paesi e delle industrie”. “Tuttavia, si tratta di una prima tappa. A termine, sara’ importante, a livello locale, utilizzare informazioni piu’ precise sulle popolazioni minacciate e di allargare lo studio alle attivita’ illegali. Bisognera’ ugualmente studiare l’insieme del canale di approvvigionamento: tra le industrie produttrici a monte e i consumatori alla fine della catena, gli intermediari hanno anche un responsabilita’ nel declino della biodiversita’”.

(articolo di Audrey Garric, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 05/01/2017)




 
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