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Le scimmie potrebbero sparire tra 20-50 anni
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Articolo di Redazione
19 gennaio 2017 16:27
 
 Le scimmie sono i nostri piu’ vicini cugini ma le stiamo guardano mentre muoiono a pezzetti. Le stiamo portando verso la loro scomparsa ad un ritmo che non ha eguali. In uno studio pubblicato su “Science Advances” lo scorso 18 gennaio, trentuno primatologi internazionali hanno delineato un quadro allarmante: se niente sara’ rapidamente fatto per ridurre le pressioni umane sui primati e sul loro habitat, assisteremo a delle estinzioni di massa di questi animali emblematici nei prossimi 20-50 anni.
Combinando la lista rossa delle specie minacciate dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (UICN), la letteratura scientifica esistente e i dati di base delle Nazioni Unite, Alejandro Estrada, dell’Universita’ nazionale autonoma del Messico, e i suoi colleghi, hanno effettuato un’analisi della situazione, delle minacce e degli sforzi per la conservazione delle 504 specie di primati del mondo, dai potenti gorilla fino ai fragili lemuri, passando per gli orango-tango, gli scimpanze’ e altri bonobo.
I risultati di questo studio, il piu’ vasto mai condotto fino ad oggi, sono eclatanti: gli scienziati stimano che il 60% delle specie di scimmie sono in pericolo di estinzione in virtu’ delle attivita’ umane, e il 75% di queste popolazioni accusano gia’ un declino. Quattro specie di grandi scimmie su sei sono ad un passo dalla scomparsa, secondo l’ultimo rapporto dell’UICN, di settembre del 2016. Questi animali essenziali agli ecosistemi -contribuiscono a mantenere e rigenerare le foreste disperdendo notoriamente dei semi- giocano, inoltre, un ruolo centrale nella cultura, tradizioni e anche l’economia dei territori che occupano.
“L’undicesima ora”
I primati, gruppo di mammiferi tra i piu’ ricchi in specie dopo i roditori e i pipistrelli, si trovano in 90 Paesi dell’America latina, dell’Africa e dell’Asia. I due terzi sono concentrati nel cuore di solo quattro Stati: Brasile, Madagascar, Indonesia e Repubblica democratica del Congo. Se la maggior parte vive nelle foreste tropicali umide, le scimmie si evolvono ugualmente nei boschi temperati, le mangrovie, le savane, le praterie e anche nei deserti. Dovunque la loro vita e’ in pericolo: l’87% delle specie del Madagascar sono in pericolo, il 73% in Asia, il 37% nell’Africa subsahariana e il 36% in America latina.
“E’ l’undicesima ora per molte di queste creature”, dice Paul Garber, professore di antropologia all’Universita’ dell’Illinois (Usa),che ha co-diretto lo studio. Diverse specie, come i lemuri con la coda a forma di anello, i colobi rossi di Udzungwa, in Tanzania, i rinopitechi bruni o i gorilla di Grauer, non contano ormai che qualche migliaio di individui. Nel caso dei gibboni di Hainan, in Cina, ne restano meno di trenta esemplari”.
Grazie alle diverse minacce, il cui peso non ha smesso di crescere nel corso degli anni, e che spesso si sommano fra di loro. Gli habitat delle scimmie spariscono anche sotto la pressione dell’agricoltura (che colpisce il 76% delle specie), della distruzione delle foreste (60%), dell’allevamento (31%), della costruzione di strade e ferrovie, delle perforazioni petrolifere e dei gas e della diffusione delle miniere (tra il 2 e il 13%). Inoltre, la caccia e il bracconaggio toccano direttamente il 60% delle specie. A cui bisogna ancora aggiungere alcuni pericoli emergenti, come l’inquinamento e il cambiamento climatico.
Prima incriminata, la domanda sfrenata di prodotti agricoli (soia, olio di palma, zucchero di canna, riso, etc..) e di carne, ha accelerato la deforestazione nei quattro angoli del Pianeta, e quindi la frammentazione degli habitat. Tra il 1990 e il 2010, le coltivazioni sono cresciute di 1,5 milioni di Kmq nelle regioni dove vivono i primati, mentre la presenza delle foreste e’ calata di 2 milioni di Kmq.
Un’evoluzione fatale per le scimmie. La produzione di olio di palma mette anche gravemente in pericolo gli orango-tango del Borneo e di Sumatra, avendo questi ultimi perduto il 60% del loro habitat tra il 1995 e il 2007. L’espansione delle piantagioni di caucciu’ nel sud-ovest della Cina, ha provocato la quasi estinzione dei gibboni a guance pallide e dei gibboni di Hainan. Il futuro non ci porta verso l’ottimismo.
I primatologi hanno, nello stesso tempo, quantificato l’impatto delle altre attivita’ umane sui nostri parenti quadrupedi. I numeri ci fanno capire. L’espansione dell’agricoltura industrializzata, della distruzione delle foreste, delle miniere o dell’estrazione di idrocarburi, dovrebbero far crescere le strade e le reti di trasporti di 25 milioni di chilometri da qui al 2050 nelle zone delle foreste tropicali. Lo sviluppo di dodici mega-sbarramenti idraulici nello Stato del Sarawk, in Malaysia, potrebbe portare alla perdita di 2.430 Kmq di foreste, colpendo la popolazione dei gibboni di Muller, in via di estinzione.
Il commercio di scimmie, legale e illegale, e’ ugualmente incriminato. Secondo i dati della convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione, 450.000 di questi animali sono stati venduti vivi tra il 2005 e il 2014, e 11.000 in piu’ a pezzi (corpi, pelle, capelli e crani). Questi mammiferi sono scambiati per il consumo della loro carne e l’uso di diverse parti del loro corpo nella medicina tradizionale, come talismani e trofei, per la ricerca biomedica, le collezioni degli zoo e infine come animali di compagnia.
“Una rivoluzione e’ necessaria”
“Considerando l’ampiezza dell’attuale declino e l’aumento futuro delle pressioni umane, ne’ il loro carisma ne’ il loro status di specie emblematiche saranno sufficienti per preservare i primati dall’estinzione -dice Paul Garber. La loro conservazione ha bisogno di una rivoluzione urgente e maggiore delle nostre attuali iniziative, poiche’ la loro scomparsa e’ oggi legata all’incertezza politica, l’instabilita’ socio-economica, la criminalita’ organizzata, la corruzione e le scelte a corto termine”.
“Noi stiamo allertando sulla situazione delle scimmie da diversi anni, ma essa e’ ben piu’ grave di quanto la immaginiamo -dice Russel A. Mittermeier, presidente del gruppo di specialisti dei primati dell’UICN e uno degli autori dello studio. Intanto, degli sforzi di conservazione sono stati fatti a lunga gittata: grazie ad essi, l’insieme dei primati non ha conosciuto nessuna estinzione nel corso del XX secolo. Ma queste iniziative sono oggi insufficienti”.
Gli autori propongono un modello per proteggere questi animali a livello nazionale, regionale e locale, rispondendo ai bisogni umani. Grazie a queste linee di intervento, fanno appello per coinvolgere le popolazioni locali nella gestione delle foreste -fonte vitale di reddito per loro-, a lottare contro la poverta’ ed a limitare la crescita demografica. “Si tratta di costruire delle economie locali fondate sulla conservazione degli alberi, sviluppando per esempio l’ecoturismo sui primati -dice Garber. E formare le comunita’, i particolare coloro che decidono e i giovani, ai programmi di conservazione”.
La riforestazione fa ugualmente parte delle soluzioni, cosi’ come l’espansione delle zone protette, che costituiscono, a lungo termine, dei santuari. La reintroduzione di alcune specie ha gia’ funzionato, notano gli autori, a condizione che gli animali siano nati nella natura e non allevati in cattivita’. Il proseguimento della ricerca scientifica in loco e’ cruciale. Ma soprattutto, i primatologi fanno appello alle popolazioni perche’ riducano i danni ecologici nelle regioni dove si evolvono i primati.
La situazione non e’ comunque persa a priori, stimano i ricercatori. “I gorilla di montagna, presenti nelle regioni dei Grandi Laghi africani, sono le sole popolazioni di scimmie che sono in aumento. Noi dobbiamo ancora fare dimostrazione di prudenza -non ne restano che 880-, ma questo risultato e’ frutto della collaborazione, sul lungo termine, tra le comunita’ e le autorita’, con l’aiuto degli scienziati -dice Liz MacFie, del gruppo di specialisti dei primati dell’UICN, che non ha partecipato allo studio. I gorilla sono ora percepiti come estremamente preziosi. La loro conservazione e’ a vantaggio di tutte le specie che dipendono dai servizi resi dalle foreste, compresi quelli umani”.

(articolo di Audrey Garric, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 19/01/2017) 

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