testata ADUC
L'universita' italiana, emblema del provincialismo che ci affligge
Scarica e stampa il PDF
Articolo di Pietro Yates Moretti
14 febbraio 2012 11:30
 
Seppur negato da miopi politiche trentennali, l’istruzione costituisce l’elemento centrale per poter crescere e competere nel mondo. Solo investendo sulla formazione delle nuove generazioni, dando loro non solo il sapere tecnico ma anche e soprattutto la chance di scoprire e coltivare le proprie vocazioni, si può sperare di esprimere in futuro una classe dirigente all’altezza della sfida globale.

Questa premessa, pur apparendo ovvia, è evidentemente condivisa solo a parole dai nostri governanti e da chi li ha eletti. Le nostre università, con pochissime quanto meritevoli eccezioni, sono mediamente fra le più scadenti del mondo industrializzato e faticano a tenere il passo persino con atenei di qualità medio-bassa in Paesi quali Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti. Le cause sono molteplici, e non è questa la sede per elencarle. Bastino alcuni esempi.

Immaginiamo un Paese, che per comodità chiameremo col nome di fantasia “Anemia”, dove fino a trent’anni fa non esistevano corsi di laurea, dove in pochi sanno ancora oggi cosa sia un diploma di laurea, e dove tutt’ora si acquista il titolo di dottore con il diploma di maturità. Pensiamo che quel Paese possa generare un classe dirigente competente, in grado di competere con l’Italia e l'Europa in termini di ricerca scientifica, industria, innovazione? Possibile, ma estremamente improbabile.

Ebbene, rispetto al resto dell’Europa e degli altri Paesi industrializzati, quel Paese immaginario è l’Italia. Il dottorato di ricerca, il più alto e selettivo grado di istruzione universitaria, è stato introdotto nel nostro ordinamento solo nel 1980, in pochi sanno ancor oggi cosa sia un dottorato, tanto è vero che si consegue il titolo di dottore con il solo diploma di laurea piuttosto che, come altrove, con il completamento del dottorato di ricerca.

E’ ovvio che il problema dell’istruzione e della ricerca italiana non è la generosa distribuzione di titoli accademici, se non fosse che nel nostro caso ciò raffigura precisamente il grado di arretratezza e provincialismo che ci contraddistingue all’osservatore straniero.

Ritorniamo per un attimo a “Anemia”. Non solo si acquista il titolo di dottore con l’esame di maturità, ma soprattutto a quel titolo viene dato valore legale. In altre parole, in qualunque scuola si studi, sia essa una scuola iperselettiva di alto spessore intellettuale e scientifico o un istituto di scarsa qualità, il titolo di dottore ha lo stesso valore ai fini dell’ingresso nel mondo del lavoro pubblico (e in buona parte anche privato) o ai gradi superiori di istruzione. Soprattutto, sempre in “Anemia”, solo chi ha studiato in una scuola del luogo si vede riconosciuto il titolo di dottore. Ne consegue che lo straniero laureato, marcatamente più istruito, verrebbe considerato privo di titolo accademico e quindi escluso da buonissima parte del mercato del lavoro: non potrebbe presentarsi ai concorsi pubblici, né quindi insegnare in quelle scuole per offrire la propria superiore competenza alle giovani generazioni di “Anemia”.

Ancora una volta, rispetto al resto d’Europa e del mondo occidentale, “Anemia” è l’Italia. Che si consegua la laurea presso il miglior o peggior ateneo italiano, il diploma ha lo stesso identico valore. Con la conseguenza paradossale, peraltro, che a parità di intelligenza e sforzo, lo studente che ha conseguito il titolo nell’ateneo peggiore avrà addirittura voti più alti rispetto allo studente che ha studiato nell’ateneo di eccellenza. Ne consegue che quest’ultimo avrà minori chance di trovare un lavoro, e il settore pubblico premierà con l’assunzione gli studenti meno preparati. Soprattutto, colui che ha conseguito una laurea o anche un dottorato di ricerca all’estero, magari in una delle università più selettive e prestigiose al mondo, è equiparato ad un analfabeta ai fini dell’ingresso nel mondo del lavoro.

Difficile sorprendersi, quindi, se la scadente qualità delle nostre Pubbliche Amministrazioni--dalle università alle amminisitrazioni comunali, dalla burocrazia ministeriale all’amministrazione sanitaria-- è da tempo oggetto di critiche da parte della comunità internazionale e principalmente dall’Unione Europea. La negazione della cosiddetta meritocrazia non è solo questione di raccomandazioni e corruzione, giustamente lamentata e fulcro di giustificabili sentimenti antipolitici; in Italia, l’assenza di meritocrazia è strutturale, prevista per legge.

In Gran Bretagna o negli Stati Uniti, esempi di cui ho conoscenza diretta, si selezionano i migliori studenti, insegnanti e ricercatori, indipendentemente dalla loro cittadinanza e dal loro pregresso percorso di formazione. Mettendo le proprie generazioni in competizione con il meglio che il mondo possa offrire, quei Paesi hanno elevato la qualità dei loro atenei, e di conseguenza dei loro studenti e di tutto il sistema Paese, fino a monopolizzare da decenni le classifiche sulle migliori università al mondo. L’ingresso, le borse di studio e l’incoraggiamento a raggiungere i più alti livelli sono offerti a tutti, cittadini e stranieri, nella consapevolezza che proprio le giovani generazioni statunitensi e britanniche ne beneficeranno per prime.

Ovviamente sono stati in grado di raggiungere tali livelli anche grazie al fondamentale apporto del settore privato, che finanzia buona parte dell’istruzione e ricerca universitaria. Grazie anche a questo apporto, che le migliori università distribuiscono in modo trasparente ed equilibrato se migliori vogliono restare, i più importanti centri di studio non solo di economia o medicina o ingegneria, ma anche di materie umanistiche, si trovano proprio in quei Paesi. Non sorprende quindi che molti dei migliori cervelli italiani oggi studino e insegnino nelle università statunitensi o britanniche piuttosto che nelle nostre. In Italia, dove l’apporto privato è considerato bestemmia (non sempre a torto, viste le storture del nostro “libero” mercato e la scarsa trasparenza che ci contraddistingue) e i fondi pubblici sono sempre più scarsi, solo chi ha alle spalle una famiglia facoltosa potrà permettersi di trascorrere le giornate a fare ricerca nei ricchissimi --quanto sottofinanziati-- archivi italiani.

Senza finanziamenti, e con i migliori cervelli emigrati all’estero, abbiamo perso ogni primato anche nello studio della nostra stessa storia.

Di fronte all’inesorabile declino, possiamo reagire aprendoci al mondo oppure, come abbiamo fatto fino ad oggi, mettendo in atto misure protezionistiche e conservatrici per tutelare nell'immediato i nostri giovani seppur meno preparati. E’ comprensibile avere l’istinto di rifiutare la competizione con chi ha avuto la forza e spesso la fortuna di studiare in università migliori e lavorare in realtà ben più competitive della nostra. Ancor più comprensibile che ciò avvenga in un momento di terribile crisi economica: meglio un lavoretto oggi (ormai difficile trovare anche quello) piuttosto che la prospettiva tutt’altro che concreta di un lavoro eccellente domani. Non vi è dubbio che avremmo dovuto agire anni, anzi decenni fa.

C'è da considerare che il sistema universitario italiano è piagato soprattutto da corruzione, nepotismo, baronismo e altri terribili “ismi” imputabili a pochi privilegiati in posizioni di potere. Questo però non può giustificare la difesa di feticci quali il valore legale della laurea e il rifiuto di quella parte di mondo più competitiva e sviluppata. Proprio questa crisi dovrebbe aiutarci a capire che l’Italia oggi è “Anemia” agli occhi del mondo, e che chiudersi ai progressi che l’umanità tutta è riuscita a raggiungere significa perpetuare quei maledetti “ismi”, veri e propri parassiti che sopravvivono e si moltiplicano solo in ambienti chiusi e ristagnanti.
Pubblicato in:
 
 
ARTICOLI IN EVIDENZA
 
ADUC - Associazione Utenti e Consumatori APS