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Vestire alla moda dei tempi. Come farci male: dopo l’automobile ecco la moda
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Articolo di Vincenzo Donvito
2 settembre 2019 12:06
 
  Tutti lo sanno, ma sembra che facciano finta di niente.
Chi non ha mai negato al proprio figliolo di andare in uno di quei grandi magazzini (in genere catene internazionali con produzione in Paesi asiatici) dove vendono capi d’abbigliamento a prezzi incredibilmente bassi?
Chi, magari dopo aver parlato col figliolo per cercar di fargli capire che non si può acquistare una maglietta e poi non indossarla mai più, non ha ceduto di fronte al fatto che quella maglietta costava 1 euro?
Chi accompagnando sempre questo figliolo tra gli espositori di questi mega-negozi, si è posto il problema della mano d’opera (spesso minorile e senza le garanzie tipiche del nostro mondo del lavoro) che produce questi capi d’abbigliamento e nello stesso tempo che questi lavoratori (adulti e bambini) se non avessero questi lavori starebbe anche peggio?
E chi si è soffermato a leggere qualche etichetta di questi capi e non ha trovato altro che prodotti sintetici la cui produzione è sotto gli occhi di tutti gli osservatori ambientali per l’alto inquinamento ambientale, nonché sanitari per le conseguenze da contatto col corpo umano?
E – sempre - chi non ha fatto un pensiero a tutta quella mega-produzione tessile che, proprio perché grossomodo usa-e-getta, va ad accumularsi ai rifiuti già ingestibili di altre produzioni apparentemente più necessarie alla nostra quotidianità?
Anche se – sempre il nostro chi – magari era informato che per fare un paio di jeans (a prezzi stracciati o più costosi perché del marchio super-pompato) occorrono – dalla raccolta del cotone all’uscita dalla fabbrica - più di 75.000 litri di acqua?

Domande più o meno frequenti ma che hanno sempre ceduto il passo al fatto che quella maglietta costava meno di un caffè o i jeans meno di 10 euro o, se questi ultimi erano di marca, “come si fa a dir di no al figliolo” per importi che, tutto sommato, sono molto più bassi di quanto noi abbiamo pagato per ciò che indossiamo?

Domande a cui ognuno può rispondere e decidere di conseguenza.

Nel frattempo, a margine del recente vertice di Biarritz dei G7, le grandi aziende della moda, più o meno consapevoli di quello che abbiamo riportato nelle nostre domande, hanno siglato un “Fashion Pact” per cercare di rimediarvi (1). Ne siamo contenti. Così come siamo consapevoli che, come per certi cibi il marchio bio (dove il “bio” talvolta è una chimera) serve a vendere meglio e di più, non possiamo escludere questo approccio anche per il mondo del tessile. Vedremo sviluppi e conseguenze.

Non possiamo, però, esimerci dal fare un parallelo col mondo dell’automobile. Non ci ricordiamo più a che numero del marchio Euro siamo arrivati come standard di produzione per non essere costretti a circolare solo a singhiozzo, ma siamo consapevoli che le conseguenze della produzione industriale di autoveicoli ci ammazza non solo per le sue emissioni, ma per tutto ciò che concerne l’uso di questi mezzi: soprattutto l’uso privato (traffico urbano ed extraurbano, costi di acquisto e manutenzione – tasse, benzine, garage, riparazioni, incidenti, etc). E nonostante questo le produzioni continuano, lo standard sociale e logistico del possesso di un proprio mezzo di locomozione continua ad essere prioritario. Con, al momento, il fallimento di tutte le estese commercializzazioni (locali ed internazionali) di produzioni a prezzi mozzafiato in Paesi con costi molto più bassi dei nostri (motivi vari, non ultimi le aspettative di performance dei mezzi che non potevano confrontarsi con quelle standard del conducente medio, anche a livello mondiale).
Con l’automobile, quindi, continuiamo a volerci far male, non solo economicamente perché, al di là delle efficacia dei vari standard Euro e delle molteplici politiche urbane di disincentivazione, tutti gli altri aspetti di inquinamento del possesso privato continuano ad esser tali e, globalmente (con poche eccezioni, limitate ad una piccola parte del mondo), peggiori.

Se mettiamo insieme automobili e abbigliamento, ne viene fuori un quadro preoccupante, nonostante le presunte buone intenzioni di produttori e consumatori. Intenzioni che per quanto buone possano essere, devono comunque confrontarsi – estremizzando - con due domande:
1 – tu consumatore, quanto sei disposto a fare a meno del possesso dell’auto privata (soprattutto come standard sociale, ché per quello economico – facendosi un po’ di conti – non è difficile arrivare alla conclusione che con tutte le opportunità di trasporto pubblico e privato a noleggio che ci sono, le tasche del consumatore ne resterebbero felici)?
2 – tu consumatore, quanto sei disposto a pagare una maglietta 10 euro ed utilizzarla più volte, invece che pagarla 1 euro e buttarla via dopo un singolo uso? E soprattutto, tu genitore di quel figliolo che accumula magliette, calzoncini e pantaloni e gonne (per quelle poche che ancora le usano…) dopo che è andato a “svagarsi” con gli amici nei grandi negozi iper-economici, quanto sei disposto a ragionare con quel figliolo e a tirare fuori di tasca più soldi?

Noi, al momento, facciamo solo un discorso culturale… ché istituzionale è un po’ più articolato… e poi, tutto sommato, non dovrebbero essere le istituzioni la fotografia e l’opportunità pratica dei comportamenti e dei desideri degli amministrati?
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