mi pare che questo articolo chiarisca parecchio la
situazione... Tratto da IL GIORNALE del 17 ottobre
2007
"Una diciottenne esce di scuola
con lo zainetto in spalla e va a trovare un amico gravemente
malato. Tornando a casa, sconvolta dopo averlo visto in coma
su un letto di ospedale, si lascia andare a commenti del
tipo: «Se succedesse a me, non vorrei continuare certo a
vivere così».
Chi di noi non ha pronunciato, in
qualche occasione, frasi come questa? E cosa poteva dire di
diverso una ragazza con tutta la vita davanti, alle sue
prime esperienze di confronto con il dolore e la morte?
Eluana Englaro non immaginava certo che su alcune parole
dette agli amici e ai genitori per liberarsi da
un'emozione troppo forte, si sarebbe costruito un
dibattito etico e giuridico nazionale. Ieri la Corte di
Cassazione ha emesso una sentenza con cui stabilisce che è
possibile togliere l'acqua e il cibo a un malato in
stato vegetativo, a due condizioni: che i medici ritengano
impossibile un recupero, e che, sulla base del «vissuto del
paziente» e dei suoi «convincimenti etici, religiosi e
filosofici» si possa desumere che questi avrebbe voluto
sospendere il trattamento.
Quanto siano granitici
i nostri convincimenti culturali e religiosi (anche
filosofici, non dimentichiamolo), lo sperimentiamo nelle
incertezze quotidiane, nel patteggiamento con la realtà che
ogni giorno mettiamo in pratica, nell'evoluzione
costante che ognuno, per adattarsi alle diverse fasi della
vita, è costretto a compiere. È difficile che, esaminando
con onestà il vissuto di una persona, si possano dedurre
posizioni etiche irriducibili e non invece atteggiamenti
contraddittori e mutevoli. Pensiamo per esempio a Sylvie
Menard, capo del dipartimento di oncologia all'Istituto
nazionale dei tumori di Milano, che ha cambiato radicalmente
idea su testamento biologico ed eutanasia dopo essersi
ammalata: «Da medico, da oncologa, ero favorevole: oggi
rivendico il mio diritto a vivere». E aggiunge: «Il
testamento biologico non si può fare da sani, perché in
questo caso la morte è qualcosa di astratto; quando ti
ammali la prospettiva cambia e oggi io troverei uno scopo
anche costretta a letto». Ma non sono solo le nostre
opinioni ad essere oscillanti e incerte, lo sono anche
quelle dei medici. La medicina non è una scienza esatta, ma
un insieme di conoscenze che si scontra continuamente con
l'imponderabile e l'imprevisto, con le reazioni
soggettive e l'unicità di ogni individuo. Stabilire,
come chiedono i giudici, «standard scientifici
universalmente riconosciuti» che certifichino
l'impossibilità di tornare indietro da uno stato
vegetativo, vuol dire negare le molte controversie che
esistono su questo punto tra gli esperti, ma soprattutto
espone i malati al rischio di essere considerati dei
non-viventi. Sarebbe una sorta di certificato di
«pre-morte», con cui il paziente, dopo aver perso la
consapevolezza, perderebbe anche la dignità umana, la
considerazione che si ha per un essere il cui cuore ancora
batte, e della cui misteriosa condizione di incoscienza
sappiamo molto poco. Non è un rischio remoto: il Journal of
Medical Ethics, circa un anno fa, ha pubblicato un articolo
in cui si proponeva di usare i malati in stato vegetativo
persistente come cavie umane per la sperimentazione sugli
xenotrapianti. Perché no? Se si può staccare la spina, se
si può smettere di nutrirli, perché non utilizzarne i
corpi per esperimenti utili all'umanità?"