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Investimenti finanziari e diversificazione: perché e come diversificare
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Editoriale di Alessandro Pedone
3 novembre 2020 17:07
 
 Questa è una miniserie di tre articoli per “investitori adulti”, secondo la terminologia di William J. Bernstein.
Affrontiamo il singolo tema più importante per gli investimenti finanziari, tema anche molto semplice, a suo modo, ma con qualche approfondimento che in genere non si legge nella letteratura rivolta agli investitori non professionisti.

Diversificare: perché?
Il concetto di diversificazione è estremamente semplice, ma non è affatto facile (in proposito si veda questo articolo). E’ lo strumento principale per ridurre il rischio negli investimenti, ma molto spesso viene frainteso.
Si vedono, sovente, portafogli finanziari composti da molte decine, talvolta centinaia, di prodotti finanziari (fondi, gestioni, ecc.), ma analizzandoli ci si accorge che investono tutti nelle medesime sette o otto tipologie d’investimento.
Quella non è diversificazione, quella è inutile complicazione. 
Diversificare significa investire in un numero ragionevolmente ampio di titoli tale per cui se uno affronta una grave crisi imprevedibile, il complesso del portafoglio finanziario non subisce perdite irreparabili.
Una seconda ragione per diversificare è quella di ridurre l’oscillazione complessiva del portafoglio. Sia chiaro, su questo punto la diversificazione non fa quei “miracoli” che molti venditori della finanza promettono. Tutto dipende da una parolina “magica” di quelle che in finanza spesso utilizzano per mettere in soggezione i clienti e fargli credere che loro non potranno mai capire cose così complesse: la parolina è “correlazione”. Significa la tendenza di un titolo a muoversi in modo simile ad un altro. Se fra due titoli c’è una perfetta correlazione, quando uno sale di una certa percentuale anche l’altro fa lo stesso. Se invece non sono sono correlati significa che non si può dedurre dall’andamento di un titolo cosa farà l’altro. Se sono correlati negativamente significa che quando un titolo sale, l’altro scende. 
In teoria bisognerebbe mettere in portafoglio titoli che hanno una tendenza ad essere negativamente correlati, la realtà dei fatti è che le correlazioni negative in finanza sono merce rarissima e comunque sono fortemente instabili nel tempo, cioè mutano molto, troppo, spesso per farci affidamento.
 
Quindi, è vero che un paniere di titoli oscilla molto meno della media dei singoli componenti, ma non dobbiamo aspettarci miracoli. Dobbiamo poi comprendere che questo fenomeno si esaurisce presto all’aumentare dei titoli. Se invece di investire in un singolo titolo azionario investo in dieci titoli azionari, l’oscillazione del portafoglio si ridurrà in modo significativo. Ma se invece di investire in dieci titoli investo in venti titoli, la riduzione delle oscillazioni che otterrò sarà contenuta. Se aggiungo altri dieci titoli, la riduzione sarà trascurabile, se poi passo da cento titoli a mille, la riduzione sarà impercettibile. 
Abbiamo quindi compreso che diversificare serve essenzialmente a due cose: 
  • fare in modo che l’eventuale fallimento (o simili) di un titolo venga facilmente assorbito dal resto del portafoglio;
  • ridurre parzialmente l’oscillazione del complesso del portafoglio rispetto all’oscillazione media dei singoli titoli che lo compongono.
Non bisogna confondere il concetto di diversificazione con quello di “asset allocation” (non esiste una espressione italiana che ricalchi il significato) sebbene i due concetti siano molto connessi. L’asset allocation è quel processo attraverso il quale si decide come ripartire le disponibilità di un portafoglio finanziario fra le diverse categorie di investimento. 
Le 4 macro-categorie principali sono: azioni, obbligazioni, liquidità, merci (alle quali si possono aggiungere investimenti più sofisticati per investitori più esperti). Ciascuna di queste macrocategorie ha delle sotto-categorie: azioni di una certa area geografica e/o di un certo settore; obbligazioni con diverse tipologie di cedola, valuta, merito di credito ecc; varie forme di impiego della liquidità come i conti di deposito, le obbligazioni governative a breve termine, ecc.; varie tipologie di merci come i metalli preziosi, quelli industriali, le merci agricole, ecc.
E’ chiaro che scegliere le varie categorie d’investimento costituisce già, in qualche modo, una diversificazione di portafoglio, ma lo scopo principale del processo di asset allocation è quello di rispettare il profilo di rischio e gli obiettivi del cliente. 
Il concetto di diversificazione più specifico di cui vi parlerò in questa serie di articoli si presenta una volta deciso che una certa percentuale del portafoglio, ad esempio il 10%, vada investita in una specifica categoria di investimenti finanziari, ad esempio le azioni americane. 
Fatta questa scelta, ci si pone il problema di rappresentare questa categoria di investimento con un numero sufficientemente ampio di aziende in modo da evitare che tutto quel 10% di portafoglio possa avere rendimenti molto peggiori rispetto al complesso delle azioni americane nel quale avevo deciso di investire a livello di processo di asset allocation. 

Diversificare: come?
Fatta questa precisazione, veniamo adesso al come diversificare.
Ci sono due strade le quali, a loro volta, si diramano in altre alternative. 
La prima strada è quella di investire in prodotti finanziari ai quali deleghiamo il compito di diversificare. L’investitore sottoscrive (o acquista sul mercato) il prodotto finanziario e, in cambio di una commissione, il gestore del prodotto investe in un elevato numero di titoli per realizzare gli scopi che il prodotto si prefigge. 
La seconda strada consiste nello scegliere direttamente un elevato numero di titoli; in questo modo non si subisce il costo del gestore, ma si subisce il costo di dover scegliere direttamente i singoli titoli, cosa che non è alla portata della quasi totalità degli investitori non professionisti. 
Concentrandosi sulla prima strada, entra in gioco il concetto di “benchmark” e quindi di “indice di mercato”. Un benchmark, infatti non è altro che un indice rappresentativo di uno specifico mercato finanziario che serve come strumento di confronto per valutare l’andamento di un prodotto finanziario. Ad esempio può esistere un indice delle obbligazioni mondiali o un indice delle azioni mondiali. Oppure indici molto più specifici come l’indice delle azioni europee che investono nel settore “tecnologia”. 
Un indice è composto da un insieme di aziende con associato il peso percentuale per ciascuna azienda. 
La grande maggioranza dei prodotti finanziari (tipicamente i fondi comuni d’investimento) dichiarano un indice di riferimento e investono in una selezione dei titoli che compongono quell’indice con percentuali ovviamente diverse. 
Fanno quella che viene chiamata “gestione attiva”, cioè non si limitano a diversificare comprando tutti i titoli che fanno parte di quell’indice, ma scelgono quelli che ritengono possano avere un miglior rendimento. 
Negli ultimi anni, si sono affermati sempre di più gli ETF (Exchanged Traded Fund), cioè i fondi di investimento negoziati nelle stesse borse in cui si negoziano le singole azioni, i quali (salvo tipologie particolari che qui trascuriamo) investono in tutti i titoli che compongono un indice e nelle esatte proporzioni previste. In questo modo si avrà un rendimento praticamente identico a quello dell’indice. Al contrario il fondo comune a gestione attiva potrà fare meglio dell’indice, ma anche peggio o molto peggio. Le statistiche dicono in modo inequivocabile che, mediamente, la gestione attiva ha ottenuto risultati significativamente peggiori degli indici e questo accade prevalentemente perché i costi dei fondi a gestione attiva sono multipli dei costi degli ETF (minimo il doppio, ma spesso tre, quattro fino a 10 volte superiori).
La scelta di diversificare direttamente in singoli titoli (azionari o obbligazionari) implica la scelta del criterio di selezione degli strumenti. Ad oggi i due criteri maggiormente utilizzati sono l’analisi fondamentale e l’analisi tecnica-quantitativa. Tralasciamo il caso dei singoli investitori non professionali i quali scelgono più o meno a casaccio sulla base di qualche articolo, suggerimento di presunti esperti, amici, ecc. 
Entrambe le filosofie di selezione condividono un obiettivo: avere un miglior rapporto rischio/rendimento rispetto all’indice di riferimento confrontato in genere in un arco temporale relativamente breve (in genere un anno). 
L’analisi fondamentale parte dal concetto che il valore di un’azienda si possa desumere essenzialmente dai bilanci delle stessa e che il prezzo tenda ad oscillare intorno a tale valore. Determinando il valore si tenderà a comprare le aziende che hanno i prezzi inferiori al valore ed vendere quelli che hanno i prezzi superiori.  

Sembra un approccio estremamente sensato e logico, purtroppo in molti casi è molto teorico. E’ molto buono in specifici contesti e fatto in modo molto professionale, ma sicuramente non è adatto a singoli investitori. 
Men che meno è adatto a singoli investitori l’approccio dell’analisi tecnica o quantitativa. Tale approccio si fonda sul presupposto che l’unica cosa che realmente conta sia il prezzo del titolo il quale ingloberebbe tutte le informazioni disponibili. Secondo questi approcci dalle variazioni dei prezzi (espresse in forma grafica o analizzata con approcci più di tipo matematico-statistici) si potrebbe desumere l’andamento futuro di breve/medio termine del titolo. Non si può dire che non vi sia una piccola parte di verità in questo. Il momentum è uno dei fenomeni più studiati e confermati dalla letteratura accademica. Il fatto, però, è che quando si traducono in reale operatività queste tesi teoriche, ci si scontra con una serie di “frizioni” che fanno parte del mondo reale. Una prima frizione sono (ancora!) i costi di transizione diretti ed indiretti (i così detti,spread bid/ask, cioè la differenza fra i prezzi di acquisto e di vendita), ma ben più importante è la sostenibilità psicologica di operatività di questo tipo. E’ praticamente impossibile che un investitore non professionale riesca a controllare l’emotività legata a questo approccio. Come vedremo nel terzo articolo della serie, ci può essere una “terza via” fra i due approcci più sostenibile psicologicamente e più fondata teoricamente. 
Per il momento ci fermiamo qui. Il prossimo articolo approfondirà le problematiche legate agli indici.
 
 
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