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7 marzo 2017 20:37 - michele6949
Esiste certamente una piccolissima fetta di risparmiatori che potrebbero beneficiare di programmi di educazione finanziaria, ma si tratta di percentuali da prefisso telefonico, lo zero virgola qualcosa dei risparmiatori si metterebbe a seguire qualche programma di educazione finanziaria.

Allora la gente come puo pensare di
scegliere i propri investimenti?
Chi e causa del suo mal pianga se stesso!
5 marzo 2017 7:01 - ziogio
Innanzitutto ringrazio "federico6198" per gli ampi chiarimenti molto interessanti che mi sono salvato per potermeli leggere con più calma.

Chiedo invece ad Alessandro Pedone se non sia possibile con quel milione che dovrebbe essere stanziato, se lo sarà, anziché dei corsi scolastici che diventerebbe una cosa lunga un bella AP che può girare anche su cellulari e tablet con un DIZIONARIO FINANZIARIO interattivo ma soprattutto semplice proprio per neofiti che pur leggendo e seguendo giornalmente le notizie, analizzandole e confrontandole con altre fonti non hanno la dovuta dimestichezza specifica della finanza.
25 febbraio 2017 18:09 - federico6198
Si è realizzata una progressiva deregolamentazione dei mercati finanziari :
Il sistema Banca d’Italia: quando i controllori diventano controllati.

Un estratto di questo articolo è stato pubblicato nella rubrica #IlGraffio su AdviseOnlyBlog il 13.1.2016; ringraziamo l’autore Corrado Griffa ed AdviseOnly per la gentile concessione alla riproduzione.
Nell’immaginario collettivo, Banca d’Italia (come altre banche centrali) per decenni è stata una sorta di luogo sacro, dove si studiava e reclamizzava il “sacro Graal”, che però negli ultimi tempi sembra sempre più evaporato ed alla mercé di critiche, spesso doverose: e quando gli dei cadono, lo fanno precipitosamente e con gran rumore. Il sistema dei controlli di Banca d’Italia viene sempre più spesso messo sotto esame: valgano come esempi i casi delle banche commissariate con significativo ritardo rispetto al momento della percezione della crisi (leggi, crediti inesigibili) e la carenza di effettivi controlli sulla raccolta bancaria (leggi, obbligazioni subordinate).
Ma Banca d’Italia è davvero “super partes” nei confronti delle banche italiane?
Vediamo di mettere chiarezza. Certo, la Banca Centrale Europea ha accentrato molte funzioni, prima gestite dalle banche centrali nazionali; ma le banche centrali nazionali continuano ad avere un importante ruolo di vigilanza e controllo sulle banche nazionali, in particolare quelle che non rientrano nella “top list” vigilata dalla BCE. Ricordiamo che le banche operanti in Italia sono 1.755 (banche in forma di società per azioni, BCC, casse di risparmio, banche popolari, casse rurali ed artigiane, casse raiffeisen, mediocredito, filiali di banche estere) e che Bankitalia ha inoltre il controllo sugli intermediari non bancari, sulle società di gestione ed intermediazione mobiliare, su altri soggetti vigilati.
Ma chi sono gli azionisti delle banche centrali nazionali?
Se la domanda ha una semplice risposta per Banca d’Inghilterra, Bundesbank, Banque de France e Banco de Espana, tutte possedute interamente dai rispettivi governi (che nomina, ma non impone vicoli di mandato, ai governatori ed ai consiglieri dell’organo di gestione), per la Banca d’Italia la risposta è molto più frammentata, proprio come i suoi azionisti; infatti, l’assetto proprietario attuale di Bankitalia è il risultato di fusioni, privatizzazioni, trasformazioni delle banche che, una volta pubbliche, nel tempo si sono anche aperte all’azionariato privato; nel caso di Banca d’Italia, l’essere azionista non porta a indirizzare od indicare la rotta della gestione, lasciata interamente alla struttura della Banca.
Una prima sorpresa: le banche italiane principali posseggono complessivamente circa l’88% del capitale della banca centrale.
I principali azionisti (dati aggiornati a settembre 2015) sono IntesaSanPaolo (30,3%), Unicredit (22,1%), Generali (6,3%), CariBologna (6,2%), INPS (3,0%), INAIL (2,7%) Carige (4,0%), Gruppo CRAsti (3,1%, di cui 2,1% Biverbanca), BNL (2,8%), MPS (2,5%), Cariparma (2,0%).
Un assetto alquanto peculiare: i controllati che formalmente controllano il controllore, ma da cui dipendono sostanzialmente; un evidente conflitto di interessi, a tutto vantaggio del mantenimento e della prosecuzione della “nomenclatura di sistema”.
Ai lettori potranno forse sorgere dubbi amletici sull’effettiva modalità e “spontaneità” dei controlli operati da Via Nazionale.
Ma le sorprese sono anche altre.
Il patrimonio della banca centrale è di 36,7 miliardi di euro, inclusi i fondi rischi generali; a normativa attuale, non corre l’obbligo per le banche azioniste di allineare il valore della quota posseduta al valore del patrimonio della banca centrale; alcune banche adottano il criterio del costo storico, altre hanno adeguato il valore della partecipazione negli anni. E spesso la rivalutazione così effettuata ha “aiutato” i bilanci delle banche partecipanti al capitale.
Ai partecipanti al capitale sono distribuiti dividendi per un importo massimo del 6% del capitale stesso: si tratta, quindi, di un importo massimo di 450 milioni di euro, da dividere fra tutti i partecipanti. I restanti utili sono destinati a distribuzione e/o accantonamento: accantonamento alla riserva ordinaria, fino alla misura massima del 20 per cento; accantonamento alla riserva straordinaria e ad eventuali fondi speciali, fino alla misura massima del 20 per cento; distribuzione allo Stato (che non è azionista della Banca d’Italia) per l’ammontare residuo: un “beneficiario di ultima istanza”.
Trattandosi di partecipazione in una banca centrale, non quotata e soggetta a restrizioni nella circolazione delle sue azioni, una trattativa per la cessione di una sua quota deve essere “benedetta” dalla Banca d’Italia stessa (l’oggetto di una trattativa, allo stato peraltro puramente teorica ed accademica, che sceglie l’eventuale acquirente, fissando le regole della trattativa) e soggetta alle sue indicazioni; “contendibilità” e “liquidità” dello strumento sono quindi modeste, diremmo assenti, e soggette a molteplici vincoli.
Una banca centrale che sembra usare pesi diversi, con ritardo rispetto ai tempi richiesti, che si trova a vigilare su banche che sono azioniste della banca centrale stessa; ce n’è a sufficienza per chiedersi, come nell’”Amleto” di Shakespeare, se “c’è del marcio nel manico del sistema”.
Consob :
Consob, il caso della funzionaria
che vigila su stessa
La storia di Paola Deriu, dipendente Consob che è riuscita a vendere le azioni di Veneto Banca prima del tracollo - L’intervento e la replica
di Milena Gabanelli e Giovanna Boursier

Lei è Paola Deriu, promossa da Vegas nel 2013 a responsabile dell’ufficio «Vigilanza operatività mercati a pronti e derivati» della Consob. Prima era condirettore dello stesso ufficio, e prima ancora, funzionaria all’Ufficio insider trading. Il suo ufficio garantisce la correttezza delle negoziazioni, l’integrità dei mercati, vigila sui soggetti che li gestiscono. Una posizione che dovrebbe ricordarle di essere un dirigente dell’Autorità chiamata ad assicurare che i mercati e i risparmiatori sappiano quel che comprano. Nel caso della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca l’informazione che la Consob avrebbe dovuto far arrivare ai mercati era che queste banche, per far fronte alle loro difficoltà dovute a mala gestione e malaffare, gonfiavano il prezzo delle loro azioni, o le collocavano presso i loro clienti in modo non regolare. Ma a partire da quando Consob ha queste informazioni?
Ci focalizziamo su Veneto banca perché è qui che la dirigente Consob ha un personale interesse. Da un’ispezione di Bankitalia del 2013 emergono gravi irregolarità, e infine una maximulta ai vertici della banca nel 2014. La voce circola, molti clienti chiedono di vendere, ma solo pochi ci riescono. Seguono le ispezioni della Bce e la richiesta di dimissioni di tutto il cda, su cui indaga la magistratura: la banca per anni ha movimentato compravendite di azioni, finanziandone l’acquisto anche per milioni di euro, o appioppandole anche ai piccoli risparmiatori che chiedevano fidi e prestiti, «datevi una mossa, avete una media troppo bassa», scrivevano le dirigenze ai dipendenti.
Le stesse dirigenze, contemporaneamente, si attivavano per salvare il salvabile di amici e clienti «influenti» , aiutandoli a vendere il loro pacchetto azionario prima del tracollo. Tra gli amici è noto il caso di Bruno Vespa, che con il direttore della banca Consoli condivideva una masseria in Puglia. Il giornalista a settembre 2014, 3 mesi prima che il titolo cominci a crollare rovinosamente, riesce a farsi rimborsare 8 milioni di euro quando le azioni valgono ancora 39 euro. Un mese dopo riesce a vendere anche Paola Deriu.
L’operazione emerge proprio da un’ispezione Consob del 2015, notificata ai vertici e al vecchio Cda nell’ultima assemblea della banca il 5 maggio scorso, ma tenuta nel massimo riserbo. Gli ispettori esaminano in particolare 10 casi critici nella relazione con la clientela, in cui «gli addetti della banca hanno provveduto a soddisfare l’istanza di liquidazione di alcuni clienti». Tra questi c’è anche la responsabile dell’ufficio vigilanza dell’Autorità. I documenti spiegano quasi tutta la storia: la dirigente Consob l’8 maggio 2014 chiede di vendere il suo pacchetto di 585 azioni acquistate tra fine 2006 e inizio 2007 a 32 euro ciascuna, per un importo di circa 18 mila euro. Il 26 giugno sollecita, ha fretta di vendere e la banca tarda; dal suo account Consob scrive al responsabile Veneto banca area Milano Brianza: «Ribadisco che sono sempre stata rassicurata del fatto che è la banca stessa a porsi in contropartita dei clienti quando chiedono di vendere, e che ciò avviene sempre in tempi rapidi... la vendita è dettata da ragioni di urgenza, e nel caso avvenga dopo il 1° luglio incorrerò in un aggravio di tassazione dovuto alla recente modifica di fiscalità sui capital gain».
Per evitarlo, intanto, il 30 giugno chiede anche la rideterminazione del valore secondo perizia appena effettuata a 39,50 euro (il valore medio era di 32 euro), e tempestivamente paga la tassa del 2%. Tassa che il giorno dopo raddoppia. L’ufficio affari legali e reclami di Veneto banca però risponde 10 giorni dopo confermando che la ricerca di un acquirente è in corso, giustifica il ritardo con la particolare natura dell’operazione, mentre specifica che il valore dell’azione è stato rideterminato entro giugno come richiesto. Così la dirigente Consob è a posto, poiché il dovuto lo ha pagato il giorno prima dell’aumento, inoltre non dovrà pagare tasse sulle plusvalenze (passate dal 20 al 26%) perché il valore dell’azione è stato aggiornato a quello di vendita, e quindi di plusvalenze non ne avrà.
L’effettiva cessione avviene a fine ottobre 2014, e nella nota di Veneto banca c’è scritto: «Tra conoscenti». Di chi? Della Deriu o della banca? Gli acquirenti desiderosi di prendersi l’intero pacchetto per 23.108 euro, mentre le azioni stanno crollando, sono i cugini Francesco e Giuseppe Zinghini, due trentenni che cercano di scrollarsi di dosso una parentela ‘ndranghetista ingombrante, con l’avvio di attività di giardinaggio e pulizie nell’hinterland milanese. Giuseppe Zinghini la racconta così: «Con mio cugino siamo andati alla filiale di Veneto Banca di Corsico, dove abbiamo il conto, a chiedere un prestito di 80 mila euro a nome della società Zeta Servizi, ma la condizione era l’acquisto di quelle azioni a 39,50 euro da una di Roma. Non avevamo scelta, qualche mese dopo abbiamo provato a rivenderle ma non è stato possibile». I dubbi restano perché nella documentazione i dipendenti della banca si comunicano internamente che la cessione è stata revocata e trasformata in «trasferimento fra conoscenti». Sta di fatto che oggi quelle azioni valgono 10 centesimi, e la loro società è in liquidazione.
Ha qualche colpa la signora Deriu in questa operazione? Apparentemente nessuna, se ha rispettato l’obbligo previsto per i dirigenti di un’Autorità di vigilanza di comunicare le loro operazioni di Borsa. Certo sarebbe stato più opportuno se si fosse liberata del suo pacchetto nel 2013, appena ricevuto l’incarico, perché vendere un anno dopo la pesante ispezione di Bankitalia fa venire brutti pensieri. Ancor più brutti se si considera che Consob già a febbraio del 2013 sanziona Veneto Banca per le «diffuse e reiterate condotte irregolari» nella «valutazione di adeguatezza delle operazioni disposte dalle clientela», in particolare su obbligazioni e azioni emesse dalla stessa banca. Il dirigenti della vigilanza quindi sapevano, e avrebbero dovuto approfondire per allertare i risparmiatori. Invece hanno aspettato. Nell’attesa, chi aveva il problema, grazie al privilegio della posizione (a cui la banca ha dimostrato sensibilità), lo ha rifilato al malcapitato di turno. Un peccato veniale rispetto alle responsabilità del presidente Vegas verso quelle decine di migliaia di risparmiatori delle popolari che hanno perso tutto.
24 febbraio 2017 21:40 - giorgio canella
l'educazione finanziaria male non fa e , di sicuro, serve a qualcuno e questo qualcuno sono le attività di formazione ....ma, se vogliamo cominciare dalle scuole, vuol dire che ci vorranno 20 anni per educare gli italiani...nel frattempo che succede ? mi avrebbe convinto di più qualcosa che, fin da subito, avesse previsto di far pagare, fino all'ultimo centesimo , chi imbroglia la gente e li avesse definitivamente allontanati da qualsiasi attività che ha a che fare col denaro, ma non mi pare di avere visto iniziative di questo tipo.....poi, se si riconosce che la mancanza di educazione finanziaria è la prima causa delle fregature prese dai risparmiatori è come dire che , per avere un minimo di certezza che il medico prescriva ciò che davvero serve, è necessario che il paziente sia laureato in medicina ....mi pare una gran presa per i fondelli.
24 febbraio 2017 20:03 - lucillafiaccola1796
questi stanno li solo a rubà e non sanno governà...
l'abbiamo capito, anche i più stupidi. E poi mentono spudoratamente. Vogliono 20 miliardi per il MPS, ma in realtà al MPS servono solo 5 milardi. Gli altri li vogliono ridare al padre della ministra etruria ed alle altre tre fallite con tizia..no e caian..o coi soldi dei Risparmiatori. Ma se paghiamo Noi Contribuenti, per non perdere i risparmi, vogliamo GESTIRE NOI quanto E' DI NOSTRA PROPRIETA'. PER SEMPRE. Non che Noi paghiamo e poi loro svendono ai privati loro a..mici Miao! Stavolta a schifìo finisce!
24 febbraio 2017 16:34 - savpg8801
Non per l'entità dello stanziamento, ma per il fatto che non serve a nulla per una serie di motivi: se si organizzano alcune ore di insegnamento scolastico, chi le porterà a compimento? forse gli insegnanti di scienze o di italiano? Anche quelli di matematica meglio deputati, che potranno dire su questo variegato ed aleatorio mondo che viene definito macroscopicamente" finanziario "? E se li paragoniamo ai corsi di qualche ora per l'educazione di lingua inglese o musicale o altre discipline accessorie dove non escono se non muniti di traduttori Google o altri da smartphone? O sempre sempre con phones in mano a scegliere su Spotify o centinaia di altri net musicali? Se poi spalmeranno questi soldi nelle tasche di qualche ente(ma quale?) che con qualche seduta di una o due orette presso le salette dei centri sociali illustrerà qualcosina per esempio cosa sono i bot o i fondi comuni...sperando che si possa condensare l'esperienza, mai bastante, di operatori in campo da decenni, certo che dirò anch'io... avete ancora una volta scaraventato i nostri soldi dalla finestra come si faceva un tempo lontano in cui si buttavano le figurine "alla coja", tipo Marchese del Grillo con le monete incandescenti al popolo.
Certo, i governanti non sanno far altro che cavarsela stanziando qualche somma del cittadino tassato, per risolvere cose a cui servirebbe ben altro. Ma così chiudono la seduta.
24 febbraio 2017 0:27 - federico6198
Olivia :
Grazie spero di essere stato utile
24 febbraio 2017 0:17 - Olivia
Bellissimo commento Federico 6198, Complimenti!
23 febbraio 2017 11:35 - NN1999
E l'educazione finanziaria di coloro che hanno posto in essere contratti su derivati facendo perdere ancora oggi all'Italia miliardi di euro? Ma con quale diritto questi babbei (autocensura!!!) si permettono di fare queste cose? Sarebbe possibile una class action contro costoro per il ristoro dei danni?
23 febbraio 2017 1:17 - federico6198
1) Che cos'è l'analfabetismo funzionale e perché riguarda la metà degli italiani
Il 47 per cento degli italiani, pur sapendo leggere e scrivere, non riesce a comprendere le informazioni e a interpretare la realtà. Ma chi è un analfabeta funzionale?

Enrico Mentana conia il neologismo webete
Sanno leggere, scrivere e fare i calcoli. Ma non sanno comprendere e interpretare la realtà che li circonda e le informazioni a cui sono esposti. Non riescono a capire un articolo di giornale pur riuscendo a leggerne le parole, non riescono a compilare una domanda di lavoro o a interagire con strumenti e tecnologie digitali e comunicative e rimandano ogni informazione alla propria esperienza diretta. Sono gli analfabeti funzionali.
L'analfabetismo funzionale – diverso da quello strutturale di chi non è in grado di leggere e scrivere – è un fenomeno sempre più diffuso, secondo cui un individuo ha imparato le basi della scolarizzazione, ma non è in grado di leggere i termini di un contratto, di compilare una domanda di lavoro, di interpretare o riassumere un testo. Secondo la definizione del rapporto Piaac-Ocse, un analfabeta funzionale è più incline a credere a tutto quello che legge in maniera acritica, non riuscendo a “comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.
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In Italia il 47 per cento degli individui è analfabeta funzionale. Lo rivela lo Human development report 2009, un indice calcolato tra i paesi dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). L'Italia, avendo un alto numero di analfabeti funzionali, si trova in una posizione alta in classifica.
“Una persona è funzionalmente alfabetizzata se può essere coinvolta in tutte quelle attività nelle quali l’alfabetizzazione è richiesta per il buon funzionamento del suo gruppo e della sua comunità e per permetterle di continuare a usare la lettura, la scrittura e la computazione per lo sviluppo proprio e della sua comunità”. Questa è la definizione di alfabetismo funzionale che dà l'Unesco nel 1978.
Analfabetismo è l'incapacità dell'individuo di decifrare l'ambiente e partecipare alla società in cui vive, incapacità di usare abilità in modo funzionale in attività tipiche della vita quotidiana, come leggere gli orari dell'autobus o usare un computer.
Quanti sono gli analfabeti funzionali in Italia?
Secondo Tullio De Mauro, noto linguista, gli analfabeti funzionali in Italia sarebbero addirittura l'80 per cento, dal momento che “soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”.
Le indagini statistiche a cui si riferisce De Mauro compaiono in due volumi diversi: La competenza alfabetica in Italia. Una ricerca sulla cultura della popolazione (Franco Angeli, 2000) e Letteratismo e abilità per la vita. Indagine nazionale sulla popolazione italiana 16-65 anni (Armando editore, 2006).
Negli anni Cinquanta l’analfabetismo vero e proprio in Italia riguardava il 30 per cento dei cittadini, che non sapevano né leggere né scrivere, ma con l’espansione dell’istruzione scolastica gli analfabeti assoluti sono diminuiti, fino a toccare oggi una percentuale bassissima.
Nel 1861, l'Italia contava una media del 78 per cento di analfabeti con punte massime del 91 per cento in Sardegna e del 90 per cento in Calabria e Sicilia. Due anni prima, nel 1859 fu introdotto per la prima volta l'obbligo di due anni di scuola, poi diventati tre nel 1877 con la legge Coppino e cinque nel 1904 con la legge Orlando. Nel 1923 la riforma Gentile porta l'obbligo scolastico ai 14 anni.
Nell’Italia repubblicana l'obbligo scolastico gratuito di 8 anni (elementari e medie) fu inserito in Costituzione con l’articolo 34. L'ultima importante riforma arriva nel 1963, e riguarda la scuola media unica, che porta al crollo definitivo del tasso di analfabetismo.
Secondo i dati Istat oggi gli analfabeti strutturali, coloro che non sanno leggere e scrivere, sono una minoranza. Secondo il Rapporto delle Nazioni Unite sul Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo 2013 l'Italia si trova al 54esimo posto su 179 paesi analizzati, con un tasso di alfabetizzazione del 99,2 per cento.
Secondo la ricerca Istat l'Italia in cifre del 2016, in Italia il 6,3 per cento dei cittadini maschi ha una licenza elementare, il 36 per cento la licenza media, il 6,8 per cento ha un diploma di 2-3 anni, il 35,6 per cento ha un diploma di 4-5 anni e il 15,3 per cento ha conseguito la laurea.
Per quanto riguarda le donne, l'8,2 per cento licenza elementare, il 30,5 per cento la licenza media, il 6,6 per cento ha un diploma di 2-3 anni, il 34,9 per cento ha un diploma di 4-5 anni e il 19,8 per cento ha conseguito la laurea.
Analfabetismo funzionale e social network
“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”, aveva affermato Umberto Eco, dopo aver ricevuto la laurea honoris causa in Comunicazione e cultura dei media a Torino, a giugno 2015.
Ormai il binomio analfabetismo funzionale-social network è sotto gli occhi di tutti, dal momento che tutti hanno lo stesso spazio per potersi esprimere. Gli analfabeti funzionali sono definiti spesso coloro che non sono in grado di comprendere informazioni, post e articoli condivisi sui social network, creando polveroni e rivelandosi terreno fertile per la proliferazione incontrollata di fake news, condivise migliaia di volte in maniera acritica.
Enrico Mentana a tal proposito, qualche mese fa coniò il neologismo webete, la crasi tra le parole web ed ebete, che ha più o meno le stesse caratteristiche antropologico-sociali dell'analfabeta funzionale che si affaccia nel mondo dei social network.
2) La logica del senso comune
Anche se ogni persona utilizza una propria logica di ragionamento esiste una logica propria del
buon senso che viene utilizzata da tutti: una logica della quotidianità.
Per cuocersi un uovo al tegamino non c’è bisogno di ricorrere alla matematica, le relazioni che
manipoliamo non sono gestite in maniera rigorosa.
La conoscenza condivisa è quella che la maggior parte delle persone ritengono per buona anche se
quello che tutti pensano non è detto che corrisponda alla verità.
La verità non è un concetto democratico.
Il concetto di senso comune non ha un significato univoco e ciò ha indotto a darne valutazioni
molto diverse. Inteso come sinonimo di "buon senso" (ossia come innata disposizione "pratica" a
comportarsi ragionevolmente nelle circostanze ordinarie della vita) esso viene di solito apprezzato
positivamente. Se gli si attribuisce un significato conoscitivo (intendendolo come un bagaglio di
conoscenze, giudizi, convinzioni e principi largamente condivisi anche da chi non ha particolari
competenze) può essere valutato in modi opposti. Infatti è possibile vederlo come atteggiamento
ingenuo, acritico e molto spesso fallace (cui vengono contrapposte le conoscenze precise e
criticamente vagliate del sapere specialistico e in particolare scientifico).
Questo atteggiamento svalutativo è stato assunto dai primi filosofi greci, e poi da molti filosofi della
modernità. Tuttavia sin dall'antichità è stata presente anche una tendenza opposta: il fatto che certe
convinzioni e principi appaiano condivisi dalla stragrande maggioranza degli uomini è visto come
una garanzia della loro validità, che diverse filosofie hanno cercato di giustificare. L'età moderna ha
"tematizzato" il problema del senso comune: sin dal Settecento sono così apparse sistematiche
difese del senso comune, che si sono ripresentate anche in seno alla filosofia contemporanea,
chiarendo per un verso la sua natura e, per altro verso, la insopprimibilità della sua funzione in
quanto presupposto necessario per ogni discorso filosofico e per la stessa scienza.
I saggi raccolti nel volume “valori e limiti del senso comune” di E.Agazzi offrono una panoramica
abbastanza completa su questo insieme di problemi, analizzando dapprima i principali tentativi di
caratterizzare il senso comune e le vicende della sua considerazione nella storia del pensiero
filosofico. Vengono in seguito studiati i rapporti che il senso comune intrattiene con la filosofia da
un punto di vista sistematico, ossia con le principali branche in cui la filosofia stessa si suddivide.
Segue una parte dedicata allo studio dei rapporti fra senso comune e scienza, sia da un punto di
vista generale, sia rispetto ad alcune discipline specializzate.
Come conclusione, si considera il ruolo che la credenza e la certezza (che sono le caratteristiche
salienti del senso comune) ricoprono in qualunque conoscenza umana. In un momento storico come
il nostro, in cui si avverte l'urgenza di poter fare affidamento su una qualche base "comune" per
affrontare i problemi che incalzano "globalmente" l'umanità, questa complessa riflessione sul valore
del senso comune (che non esclude la presa di coscienza anche dei suoi limiti rispetto ai saperi
disciplinari) appare ricca di significato e attualità.
Se l’universo è un gigantesco computer allora per ogni evento dovrebbe esserci una precisa causa.
Quello che ci appare tuttavia è una aleatorietà degli eventi anche se alcuni eventi possono essere
previsti con una certa probabilità. Questo significa che l’osservatore possiede la conoscenza delle
cause che determinano l’evento.
Secondo Popper esistono tre mondi M1 mondo fisico M2 mondo psichico M3 l’interazione tra i
due. Nel suo libro “la logica aperta della mente” Ignazio Licata afferma che l’osservatore è un
generatore di mondi (M1 M2 M3). Una definizione ontologica della realtà può fondarsi sulla
comunicazione (in principio era il verbo e il verbo era presso Dio).
LA LOGICA EMOTIVA :
Tutti avrete sentito parlare dei test che hanno la finalità di misurare il quoziente intellettivo (Qi) di una persona.




Il quoziente intellettivo è un punteggio che esprime le due capacità standard, quella verbale e quella logico-matematica, e che è l’indice dell’intelligenza classica esaltata dal sistema scolastico. Cioè, è quell’intelligenza di cui è semplice constatare la presenza nei risultati del “primo della classe”.




Il fatto che si ottenga un punteggio alto (cioè che tenda a 150 che è il punteggio massimo) può essere dunque motivo di vanto o di soddisfazione personale, anche se non è un punteggio che esprime l’intelligenza complessiva di una persona.




Infatti, non sempre chi è stato il primo della classe è riuscito a realizzare la propria personalità nella società che ha trovato fuori dalle mura scolastiche. Anche se, spesso, si può riscontrare, in chi ha un alto Qi, la tendenza a sviluppare altre capacità che esulano dalle competenze verbali e logico-matematiche (anche se, appunto, non è una regola misurabile).




Così come, chi a scuola era il classico “intelligente ma non studia”, ha spesso visto un’evoluzione esponenziale della sua vita personale e lavorativa.



Ciò è dovuto al fatto che, per definire l’intelligenza di una persona, complessivamente intesa, dobbiamo considerare altre caratteristiche che vanno al di la delle mere capacità verbali e logico-matematiche.




Tali capacità, che si affiancano a quelle standard, possono essere sintetizzare dal concetto di intelligenza emotiva.




L’intelligenza emotiva rappresenta e convoglia tutta una serie di intelligenze non esattamente enumerabili e non precisamente misurabili che afferiscono alla sfera delle capacità interpersonali.




Al di la di un elenco che se ne potrebbe fare (acutezza, intuito, attenzione, destrezza, agilità, socievolezza, precisione, rapidità, sensibilità ecc.) al fine di esaminare i vantaggi di tali capacità, ritengo opportuno analizzare gli ambiti attraverso i quali le intelligenze interpersonali si sviluppano e possono dare valore alla vita in termini di realizzazione di se stessi.




Numerosi psicologi sono giunti, di recente, alla conclusione (in maniera concorde con quanto aveva definito Gardner) che il Qi non è una misura sufficiente a definire le potenzialità di un individuo quando questo si allontana dal mondo accademico.




Infatti, hanno cercato di definire un concetto di intelligenza emotiva che transitasse per la descrizione di ciò che è necessario possedere per avere successo nella vita. In particolare, Salovey definisce cinque ambiti attraverso i quali le abilità personali si possono sviluppare:



1.Conoscenza delle proprie emozioni. Essere consapevoli delle proprie emozioni apre la strada alla conoscenza di se stessi che a sua volta rappresenta la circostanza che ci aiuta a gestire al meglio la nostra vita.


2.Controllo delle emozioni. Le persone che riescono a gestire le proprie emozioni (dopo averne avuto consapevolezza) sono meno esposte agli effetti nocivi degli eventi negativi della vita (come una sconfitta o un rifiuto), in quanto non si fanno travolgere dagli impulsi emotivi che tali circostanze generano.


3.Motivazione di se stessi. Nel momento in cui si è capaci di non farsi travolgere, in senso negativo, dagli impulsi, si riuscirà ad essere speranzosi ed ottimisti ottenendo la giusta motivazione per perseguire, nonostante gli incidenti di percorso, gli obiettivi prefissati.


4.Riconoscimento delle emozioni altrui. La capacità di ascoltare e comprendere le emozioni altrui (empatia) predispone le persone che ne sono dotate ad una missione sociale in quanto possono trasmettere ad altre persone la capacità di essere consapevoli delle proprie emozioni e di riuscire a motivarsi.


5.Gestione delle relazioni. Le abilità sociali afferiscono a tutte quelle capacità che consentono agli individui di influenzare gli altri (comunicazione, leadership, gestione dei conflitti, sviluppo delle relazioni, ecc.).




Ovviamente non tutti hanno le medesime abilità e all’interno di questi ambiti utilizzeranno al meglio quelle che sono le caratteristiche più evidenti della propria personalità emotiva.




Daniel Goleman, uno psicologo statunitense specializzato in psicologia clinica e sviluppo della personalità, ha dato un grosso contributo nel far comprendere che, attraverso questi ambiti, ciascuno di noi, partendo dalla propria base neurale, può innescare un processo di apprendimento per migliorare quelle caratteristiche che in noi non sono particolarmente sviluppate e che invece potrebbero aiutarci per riuscire in un determinato contesto.
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