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21 ottobre 2020 21:01 - savpg8801
Ciò che viene chiamato pateticamente" spreco alimentare " è, innanzitutto, un calcolo statistico macroscopicamente definito fra le differenze che si rilevano tra la produzione e il consumo. L'industria, l'agricoltura, l'importazione immettono sui mercati 1000. Non c'è spreco se questi mille vengono utilizzati e consumati. Ogni periodo viene preso in considerazione per queste rilevazioni e deduzioni conseguenti. Prima di tutto questi accertamenti sono reali e veritieri? Non basta aver notato che il supermercato X alle 3 pm va a buttare nel cassonetto una cassa di pomodori vecchi di due giorni perchè è arrivato il camion delle consegne e ha portato i nuovi. Non basta vedere che la commessa pulisce le insalate per farle divenire più appetibili e toglie decine di foglie buone, ma appena rigate che butta nello scarto e che un allevatore di conigli va a raccattare.
I calcoli di chi asserisce che un venti-trenta ecc. % viene scartato, dovrebbero essere mirati al prodotto. Mai visto buttare nei cassonetti bottiglie di olio o pane del giorno prima. Viene ricollocato, ma con il conto della serva siccome non è regolarmente venduto, diviene "sprecato".
Poi c'è un'altra osservazione da fare. Tutte le realtà produttive sono arrivate ai loro equilibri di gestione caratteristica e di sostenimento ( guadagno, mantenimento di forza lavoro, rapporti di compravendita materie prime-prodotto finito, ottimizzando la gestione aziendale. Vivono sul mercato e danno lavoro e mantengono indotti. Questo è l'equilibrio che diviene essenziale assicurando una determinata produzione e garanzia di qualità, consegne, prodotto.
In definitiva questo è un punto indiscutibile. Una fabbrica di yoghurt che produce 100, mantiene dieci operai, resta sul mercato, fa guadagnare pubblicisti, proprietari, dettaglianti, trasportatori, manutentori, fornitori di raw material, ecc. ..insomma va avanti discretamente nel grande mondo della concorrenza. Bene, se a causa della riduzione delle vendite, vuoi perchè il dettagliante stabilisce (non vendendoli come magari prima) che non gli conviene più buttare il dieci (anche solamente e perchè li teneva per accontentare le smanie di scelta dei consumatori) per cento dei vasetti scaduti nel cassonetto, o mangiarseli a cena, e non acquista più tante confezioni, il produttore conseguentemente dovrà, giocoforza, vedersi decurtate le vendite e dovrà ridurre le produzioni, quindi mandare a spasso operai, suoi fornitori, pagare meno tasse, e affidarsi ad un analista di bilanci per verificare se, alle nuove condizioni, dovrà fallire o continuare in perdita o se, ancora guadagna appena un po' non ne sarebbe più motivato. E il gioco non si fa con i prezzi, perchè c'è la concorrenza di mercato.
Potete estendere questi concetti a tutto il mondo della produzione, con uno slogan: Se si smette di sprecare, si dovrà sostenere e con le maggiori difficoltà di quanto detto spreco può generare, tutto il mondo produttivo che è alla base dell'economia globale. Operazione perversa e recessiva. La stessa cosa è chiudere o limitare la produzione e l'uso delle plastiche in nome dell'inquinamento. La cura limitativa potrebbe essere più deleteria del male stesso.
Il ragionamento ,può essere esteso a tutto il mondo che vive di economia.
21 ottobre 2020 11:33 - Filanto_051
La questione, a mio parere, ben più complessa, non è riconducibile unicamente alle ns.responsabilità di 'europei ben pasciuti' bensì anche alle ataviche difficoltà di popolazioni che non sono riuscite, negli ultimi decenni del secolo scorso e in quelli dell'attuale, a riscattarsi anche politicamente da malgoverni vari, corruzione, analfabetismo, sovrapopolazione e via discorrendo, in breve: va bene il 'dovere morale' all'aiuto del prossimo affamato e in difficoltà, tuttavia pare che sia più semplice, per queste persone, cercare fortuna emigrando 'con ogni mezzo' piuttosto che tentare di risolvere quei problemi 'a casa loro'
16 ottobre 2020 11:21 - annapaola
"E vergognarsi di appartenere ad una comunità che ANCORA, come nei secoli passati, vive sulla disperazione che il nostro modello di sviluppo e di vita induce in gran parte del mondo".
Concordo con tutta la riflessione di Vincenzo Donvito, e trovo importante che egli inviti a farla propria i semplici contribuenti, elettori, cittadini del nostro Paese che fa parte dei Paesi ricchi del mondo. E' vero, in quanto tali, e anche come consumatori, abbiamo un certo potere nel contribuire, coi nostri comportamenti e azioni sociali e politiche, a fermare questa questa vergogna prima che la situazione esploda (e coinvolga anche noi, naturalmente).
Che cosa possiamo fare?
Un esempio solo: limitarci nell'uso dell'auto privata , se possibile proprio abolirla, perché in tal modo possiamo tagliare il consumo di petrolio e lo sfruttamento relativo e speculativo delle risorse di Paesi del sud del mondo, come la Nigeria, dove l'estrazione del petrolio porta a enormi danni ambientali, all'avvelenamento di ampie aree, da cui la popolazione deve fuggire per salvare la vita, perdendo però casa, campi, quel minimo di benessere che aveva raggiunto.
Ormai da alcuni anni sento il peso morale di quello che dice Donvito.
Ragion per cui non mi sono dispiaciuta più di tanto di non poter più guidare la macchina a causa di un incidente, in cui si è compromessa la perfezione della vista, che serve per avere la patente.
Certo, non ne ho bisogno per lavorare, ma ho tagliato anche dalla mia mente quei "bisogni" indotti - la passeggiata in campagna o al mare ecc. ecc.. La mia vita si è fatta più grigia? Non direi. Mi faccio bastare il treno per raggiungere alcune mete che mi piacciono, e il cavallo di san Francesco per gustare la bellezza di una città o di una contrada sempre raggiungibile coi mezzi pubblici.
In base alla mia esperienza, sono quindi convinta che tutti quanti possiamo scoprire qualche cosa da cambiare nelle nostre abitudini, oppure accettare di buon grado delle limitazioni, in modo da vivere con almeno un po' di solidarietà con i "dannati della terra".
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