testata ADUC
Neppure i divieti lo aiutano. Erdogan lotta contro amare verità. Invano!
Scarica e stampa il PDF
Articolo di Redazione
12 novembre 2019 13:17
 
 La mattina del 17 dicembre 2013 in Turchia dei procuratori aprirono un procedimento per corruzione contro quattro ministri in carica e i loro figli, nonché alcuni funzionari di alto livello e alcuni impiegati. Le perquisizioni nei loro appartamenti portarono alla luce denaro in contanti custodito dentro delle scatole e macchine per contare i soldi. La figura chiave delle indagini nello scandalo per la corruzione, Reza Zarrab, fu accusato di aver eluso l’embargo degli Stati Uniti al fine di contrabbandare oro e riciclare denaro in Iran, e aver corrotto i ministri. Quando il ministro turco per l’Ambiente e lo Sviluppo urbano dichiarò di avere agito per ordine del presidente del Consiglio dei ministri, l’allora premier Recep Tayyip Erdogan si trovò al centro dell’attenzione.
E che fece Erdogan? Quello che, secondo la sua visione, era la cosa migliore. Destituì i procuratori e poi impose il silenzio stampa. Noi giornalisti ci trovammo in un dilemma tra il divieto e la responsabilità legata alla nostra professione. Alcuni colleghi decisero di trasgredire il divieto e di continuare a scrivere sull’argomento. Così informammo dettagliatamente i lettori e i telespettatori delle indagini.
La conseguenza: Erdogan rimosse un ministro, ne spinse quattro a dare le dimissioni, attese che le acque si calmassero, e poi li “ricompensò” con posti di ambasciatore. Invece noi, che avevamo avuto il coraggio di pubblicare quelle notizie, passammo mesi, addirittura anni, sotto processo, in parte in carcere. L’accusa era non solo di aver violato il silenzio stampa, ma anche, in più, di essere membri di una organizzazione che aveva come scopo la caduta di Erdogan. In ogni udienza dichiarammo che avevamo agito da giornalisti e di esserci impegnati, nel nome dell’opinione pubblica, a rivelare la verità. Invano.
Lo stesso successe quando informammo che camion dei servizi segreti turchi portavano armi in Siria. Di nuovo un governo beccato in flagrante, che cercava di nascondersi dietro il silenzio stampa. E di nuovo noi ignorammo il divieto. E di nuovo denunce, carcere, condanne.
La scorsa settimana [intorno al 22 ottobre] ci sono stati due importanti sviluppi nella faccenda: la Corte costituzionale ha dichiarato all’unanimità che il silenzio stampa del 2013 era incostituzionale. La Costituzione, dunque, non l’avevamo violata noi, che avevamo trasgredito il divieto, ma coloro che lo avevano imposto. Tuttavia la suprema Corte non ha risarcito i giornalisti per gli anni trascorsi sotto processo o in prigione e non ha neppure sanzionato il governo che aveva occultato i suoi crimini.
Per la magistratura turca, che è sotto un severo controllo, un tale passo non era possibile, ora sono gli Stati Uniti a farlo. Nel bel mezzo delle tensioni con Ankara a causa della Siria la Procura di New York ha svolto indagini sulla Halkbank [banca di proprietà statale turca] che fu coinvolta nello scandalo della corruzione per riciclaggio, frode e violazione delle sanzioni statunitensi contro l’Iran. E una proposta di risoluzione avanzata al Congresso americano ha chiesto di eseguire verifiche sul patrimonio della famiglia di Erdogan. Questa notizia il governo turco non l’ha potuta nascondere.
Le verità, si dice, le si possono occultare per un po’ di tempo, sì, ma hanno la cattiva abitudine, prima o poi, di venire alla luce.

(Articolo di Can Dündar su “Die Zeit” n. 45/2019 del 29 ottobre 2019)
Pubblicato in:
 
 
ARTICOLI IN EVIDENZA
 
ADUC - Associazione Utenti e Consumatori APS