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Migliaia di morti, prigioni piene. Un anno di potere di Rodrigo Duterte nelle Filippine
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Articolo di Redazione
30 giugno 2017 12:21
 
  Migliaia di morti, prigioni piene all’inverosimile, un leader dell’opposizione dietro le sbarre, capi di Stato insultati... Un anno dopo l’ingresso al potere di Rodrigo Duterte a Manila, venerdi’ 30 giugno, Human Rights Watch ha denunciato la “calamita’” della sua presidenza. Ma l’attivita’ del capo di Stato e’ sostenuta dal 78% dei cittadini, secondo un recente sondaggio.
“L’ascesa del Sindaco”
Figlio di un governatore della provincia del sud del Paese, Rodrigo Duterte e’ stato, per ventidue anni, Sindaco di Davao. Ha imposto misure come il divieto di fumare nelle strade; ma sono soprattutto i suoi metodi contro la criminalita’ e la droga che l’hanno reso famoso. Egli ha sostanzialmente invitato i poliziotti a non esitare ad abbattere i sospetti.
E’ in quello stesso momento che ha cominciato a farsi sentire e vedere uno squadrone della morte, ancora oggi attivo. Almeno 1.400 persone sono anche state vittime di esecuzioni extragiudiziali quando lui era al potere. Duterte aveva promesso di replicare questo modello a livello nazionale se fosse stato eletto alle presidenziali del 2016 e di “gettare tanti corpi nella baia di Manila che i pesci sarebbero diventati obesi”.
Sangue contro la droga
“The punisher”, come ha titolato “Time Magazine” in merito su di lui, non aveva bleffato. Nel primo semestre della sua presidenza, sono stati contati circa mille morti al mese. I due terzi sono stati abbattuti da ignoti assassini in motocicletta che operavano di notte e lasciavano sulle loro vittime dei messaggi come "io sono uno spacciatore”, un metodo di operare ben conosciuto dallo squadrone della morte di Davao. L’altro e ultimo terzo e’ stato decimato dalle forze di polizia in seguito alle loro azioni nell’ambito di una campagna chiamata “Double Barrel” (doppia canna).
Un ordine di servizio interno alla polizia nazionale, consultato dal quotidiano Le Monde, ordina di “focalizzarsi sulla neutralizzazione delle persone legate alla droga a livello di strada”. Le prigioni sono da allora piene di piccoli sospetti o di semplici tossicodipendenti che hanno preferito presentarsi nei centri di detenzione piuttosto che rischiare di essere abbattuti nel loro quartiere. Altri vivono andando da una chiesa all’altra, un’esistenza di fuggitivi per tentare di salvarsi la pelle.
L’arcipelago alla deriva
A febbraio, il bilancio e’ arrivato a 7.000 vittime, ma la polizia nazionale gioca sul fatto che mancano dati ufficiali e non fornisce un proprio bilancio. Rodrigo Duterte e il suo entourage ripetono in continuazione che questi morti non sono altro che il frutto di regolamenti di conti tra bande rivali.
“Il presidente Duterte e il suo governo hanno mostrato un’assenza fondamentale di volonta’ nel rispettare i diritti e di far ricorso alla giustizia li’ dove i diritti sono stati violati” denuncia Phelim Kine, sotto-direttore per l’Asia di Human Rights Watch. E aggiunge: “un’indagine delle Nazioni Unite e’ assolutamente necessaria per cercare di far cessare il massacro e rendere conto sulla responsabilita’ di Duterte in questa catastrofe per i diritti dell’uomo”.
Una nuova politica estera
Di fronte alla moltiplicazione delle esecuzioni extra-giudiziali, le critiche occidentali non sono tardate. Ma il presidente le ha respinte trattando all’epoca il presidente Barack Obama come “figlio di puttana” e, ancora di piu’, con un “fuck you” nei confronti dell’Unione Europea.
Duterte ha precisato la sua intenzione di rompere l’allineamento storico delle Filippine dietro l’alleato americano per, invece, avvicinarsi alla Cina. Lui considera Pechino piu’ necessaria per le sue realizzazioni concrete, essenzialmente la costruzione di linee ferroviarie che sogna di offrire al suo popolo.
Le relazioni di Duterte con gli Usa non sono comunque venute meno dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Il nuovo presidente americano si e’ felicitato all fine di aprile per telefono di “you’re doing a great job” (state facendo un grande lavoro).
Duterte in manovra
Molti filippini sono convinti che l’élite politica sia molto corrotta per interessarsi alla sicurezza delle Filippine nell’ambito delle parti piu’ basse della scala sociale, tant’e’ che Duterte ha loro promesso risultati concreti. “Ha l’interesse del popolo in testa. I suoi metodi possono non essere ortodossi ma, finalmente, lui risolve dei problemi”, sottolinea il suo amico Vicente Lao, patron di un gruppo edile e presidente della Camera di commercio di Mindanao, spiegando cosi’ la sua popolarita’.
A proposito, Duterte ha ritorto la sua guerra contro la droga contro i suoi oppositori. Una delle voci piu’ critiche, la senatrice ed ex-ministra della Giustizia, Leila de Lima, e’ stata arrestata a febbraio. “Siamo un Paese in sviluppo, le nostre istituzioni non era preparate contro un simile assalto, esse sono deboli ogni giorno di piu’”, dice il senatore dell’opposizione Antonio Trillanes.
Tra i provvedimenti appoggiati da Duterte, il trasferimento della bara di Ferdinand Marcos, che ha imposto quattordici anni di legge marziale al Paese (1972-1986), al cimitero degli eroi della Nazione. O, ancora, un progetto di legge per la reintroduzione della pena di morte, testo gia’ approvato dalla Camera bassa dopo diverse sedute, e che deve essere ancora approvato dal Senato.
Alla prova degli jaidisti
Dopo il 23 maggio, Rodrigo Duterte ha dovuto far fronte ad una crisi che mette alla prova la sua credibilita’. Quel giorno, una coalizione di capi di guerra, a cui si sono aggiunti degli jaidisti internazionali, ha sequestrato in qualche ora una citta’ di 200.000 abitanti, Marawi, nel sud musulmano del Paese.
Il governo ha riconosciuto a posteriori che le forse di sicurezza erano a conoscenza di una rafforzamento jaidista nella citta’ in cui c’era stato l’attacco. Il capo i Stato pero', malgrado tutto, si era recato a Mosca, ma dovette rientrare urgentemente per instaurare la legge marziale nel sud del Paese.
Il suo ministro della Difesa, Delfin Lorenzana, aveva allora assicurato che ci avrebbe messo al massimo quarantotto ore per riprendere il controllo di Marawi. Ma l’esercito era in difficolta’ dopo cinque giorni a rinconquistare ponti e strade sotto il fuoco dei cecchini nemici. I jaidisti avevano dei civili in ostaggio, essenzialmente un sacerdote e i suoi fedeli rapiti nel corso di una funzione religiosa, una situazione che complicava notevolmente le operazioni.
Ma Duterte, mercoledi’ 28 giugno, ha detto ai soldati di non esitare a sparare, anche se ci sono dei civili. “E’ dovere dei civili scappare o cercare rifugio”, si e’ giustificato. Lo stesso giorno, Duterte ha paragonato il suo primo anno al potere alle montagne russe: “Quando ci siete sopra, e’ il grande ottovolante. E ve ne rendete conto solo alla fine del giro”.

(articolo di Harold Thibault, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 30/06/2017)

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