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Quando morire e' facile e difficile vivere
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Articolo di Mario De Carolis *
12 gennaio 2007 0:00
 
Vicissitudini gravi, strettamente personali, mi spingono a fare una considerazione sulla morte e su come, a mio modesto parere, la societa' civile, politica, giuridica e religiosa si pone di fronte ad essa quando qualcuno invoca una decisione inequivocabile.

Quel "qualcuno", che oggi ha fatto esplodere le enormi contraddizioni esistenti tra i vari settori "dirigenti la nostra societa'", si chiama Piergiorgio Welby.

Da una parte troviamo la Costituzione che sancisce un diritto ma che non ne trova, e qui cadiamo nell'assurdo, i giusti interpreti; da un'altra, invece, c'e' il macchinoso apparato giuridico che rilancia la palla alla politica perche' colmi quel vuoto legislativo di cui Welby ha, quanto meno, costretto a discutere.

Dalla propria angolazione, infine, c'e' l'aspetto religioso che sembra affidarsi piu' alla sofferenza estrema come soluzione naturale al "problema vita" (e che quindi va da se') che non alla volonta' di trovare, per lo meno, il senso e la direzione della parola perdono.

Si puo' perdonare un omicida in confessione, e mantenerne l'anonimato in virtu' di un auspicabile ravvedimento; si puo' accettare in chiesa gente socialmente pericolosa, ma non si puo' tollerare l'atteggiamento di chi confessa pubblicamente la propria disperata volonta'.

Io non sono fra quelli che cercano un incastro a coda di rondine tra le parole vita e morte perche' quel confine, che non puo' ne' invadere e ne' lasciarsi invadere, e' comunque costituito da una linea retta.

Ed in quanto tale, demarca quelle condizioni, non solo psicologiche, del vivere e del non vivere che hanno sollevato un quesito rimasto, ancora una volta, senza risposta.

Su quella linea, con il coraggio della Ragione, si e' posto un altro "qualcuno". E' il dott. Mario Riccio che su di essa inserisce un cuneo ampio e profondo sul quale si abbatte il martello di coloro che sembra abbiano titolo ad avere una coscienza, a sentenziare ed a spingere in quella direzione che apra le porte a condanne e punizioni e non a comprensibili ragioni.

Questa gente, cosi' altamente impegnata a disquisire e sentenziare sul dolore e sul calvario degli altri, andrebbe trasferita sullo scenario di morte costituito dalla reiterazione di quell'errore che stando ai dati e', purtroppo, un fatto di allucinante realta' quotidiana che fa fatica ad assurgere, tutta intera, a cronaca.

E' qui che la vicenda personale ha compresso e liberato la molla della considerazione per portarsi su un problema che era lontano da me perche' mi sentivo incapace, come del resto mi ci sento ora, a suggerire una soluzione.

Mia moglie e' morta di Malasanita' e da quel giorno, per come la vicenda si e' consumata, il crudo appellativo di assassinio non abbandona piu' la mia mente che fa fatica a comprendere il termine eufemistico di omicidio colposo.

Che fa fatica, cioe', tanto se volessimo tradurre, a digerire la beffa come soluzione ad una, dieci, mille tragedie che sembrano non esistere.

E poiche' la Legge difficilmente sancira' se un cittadino e' vittima, diretta o indiretta, della Malasanita', tutta quella gente, allora, andrebbe chiamata a disquisire su quelle morti provocate nella generale acquiescenza ed a spiegare la differenza tra una morte alla luce del giorno ed un numero elevato di morti accettate, di fatto, nella ipocrisia.

E' piu' facile aprire un rapido scenario di condanna su chi "stacca la spina", come si dice in gergo. Magari attraverso una immediata autopsia che serva a stabilire se e' stato sbagliato il dosaggio sedante aprendo, cosi', scenari sinistri nei confronti di chi abitualmente addormenta il paziente per togliergli dolore e ridarlo alla vita.

O magari attraverso una tempestivita' degli Ordini di Categoria tanto solerti in alcuni casi (in genere di portata nazionale), ma affatto sensibili laddove vengono sollecitati a dare risposte a cittadini comuni.

Chi scrive sta cozzando da oltre un anno contro una barriera di incomunicabilita' innalzata con l'arroganza del silenzio.

Infatti non importera' mai, ne' politicamente e ne' sotto il profilo religioso o deontologico, stabilire se una peritonite, tanto per fare un esempio, sia provocata e che su di essa, spalancata ad un quadro settico irrimediabile, si possa tacere pur di non ammettere l'errore.

Non importa stabilire se in quell'omicidio colposo, nella cui fotocopia potresti facilmente imbatterti, si debbano ricercare quei presupposti di sacrosanta difesa collettiva che facciano diventare il "reiterato incidente" un "volontario omicidio riparatore".

Chi stacca la "spina della vita", qui da noi, sembra avere un altro trattamento. E direi di tutto riguardo.

Infatti sembra che sia piu' grave, da noi, disattivare quell'apparecchiatura che, dando alla tua vita una linfa tecnologica, ti mantiene presente solo in maniera artificiale che non reiterare un errore mortale.

E' difficile, al contrario, per non dire impossibile, far diventare pubblicamente scomodo un cadavere che il Sistema consegna, beffardo, ad una scappatoia codificata come "Malpractice".

E lasciando in giro per lunghissimo tempo, e se arriva la prescrizione liberatrice addirittura per sempre, colui che, a danno della vita, puo' reiterare senza timore.

Sembra che quando non ci metta le mani il Padreterno, si possa morire solo secondo gli altri. E che sempre secondo gli altri, sembra, si debba essere costretti a vivere.

Se il principio etico, filosofico, morale, religioso della vita e' uno, qualcosa non torna.

* Presidente dell'Associazione Il Ponte Levatoio
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