testata ADUC
Svizzera. Intervista ad un accompagnatore al suicidio
Scarica e stampa il PDF
Articolo di Ursula Auginski
30 novembre 2007 0:00
 
Breve presentazione. L'ex pastore protestante Walter Fesenbeckh di Monaco di Baviera, 69 anni, ha studiato teologia evangelica a Monaco e a Erlangen, e nel 1970 si e' trasferito in Svizzera per godere della maggiore tolleranza che la Chiesa riformata di Zurigo gli assicurava. Dal 1993 e' membro dell'organizzazione zurighese per l'assistenza al suicidio Exit. Da quando e' andato in pensione, tre anni fa, ha esercitato l'accompagnamento al suicidio ventun volte. Si tratta dell'aiuto a morire attivo ma indiretto, nel senso che la persona che vuole togliersi la vita compie da se' l'estremo gesto. L'eutanasia attiva, ad esempio il medico che sopprime il paziente su sua volonta', e' proibita sia in Svizzera sia in Germania.

Signor Fesenbeckh, come si muore da voi?
In tutta serenita', per lo piu' nella cerchia famigliare o circondati da amici. Chi si rivolge a Exit, di solito muore a casa propria. L'aspirante suicida chiama a se' le persone care, magari addobba la camera con fiori e candele per concentrarsi al massimo sull'evento. Non abbiamo la preoccupazione di dover ripiegare su un parcheggio, come e' capitato a Dignitas.
I tedeschi muoiono da qualche parte cosi' su due piedi, magari appunto in un parcheggio in Svizzera -il piu' recente scandalo nella storia del suicidio assistito.
Conosco il caso. Ai due aspiranti suicidi venuti dalla Germania era ormai indifferente il luogo della morte. Piuttosto che andare in un'anonima camera d'albergo hanno preferito rimanere in macchina. In quel momento l'auto equivaleva per loro a uno spazio intimo, familiare. Piuttosto che tornare in Germania in un ospedale, sarebbero stati disposti a morire in una stazione. L'importante era chiudere la partita. Il peso della sofferenza di queste persone e' troppo grande perche' i politici o chiunque altro gli possa spiegare che cos'e' una morte dignitosa. Per un malato terminale, la morte con dignita' significa che sia lui a decidere di porre fine ai suoi giorni. E non farla dipendere da un apparecchio che il primario puo' fermare oppure no, a suo giudizio.

Perche' ci si fa aiutare a morire?
C'e' bisogno di noi perche' sono sempre di piu' le persone che non vogliono morire in solitudine, ne' buttarsi in acqua o sotto un treno o comunque fare una fine tragica. Anche perche' tengono conto di chi poi li trovera' suicidati. Mi sorprendo sempre di quelle stimabili persone, socialmente impegnate, magari volontari nei centri di cure palliative, che se ne escono con ragionamenti di questo tipo: "Chi proprio vuole togliersi la vita, lo faccia e non coinvolga altri". Noi invece ci facciamo coinvolgere volentieri perche' siamo consapevoli che queste persone hanno bisogno del nostri aiuto.

Perche' lei si definisce accompagnatore al "suicidio"?
Il concetto di "suicidio", in tedesco "darsi la morte", e' piu' concreto, neutro. Putroppo in Germania si parla ancora troppo di "uccidere se stessi", ma quest'espressione rimanda ad assassinio, a un atto per motivi brutti. Non uso volentieri nemmeno il termine "libera morte", che suona troppo filosofico: non rispecchia il mio approccio. Noi diamo un aiuto a suicidarsi, e' piu' appropriato.

Come ci si sente dopo che uno e' morto?
L'attimo del morire e' sempre un momento commovente. Assistere come la vita di una persona se ne fugge via, insieme alla sua personalita', e resta solo un volto che riflette la dolce morte, mentre tutto il resto e' inanimato. Ricordo che la prima volta mi dette da pensare per tutta la notte. Io, in quanto Pastore, ho assisto alla morte di persone, ma mai in questo modo. Non sono sentimenti negativi, bensi' la sensazione di quanto sia bello scivolare via dalla vita, cosi' semplicemente.

Quali sono i suoi personali motivi che l'hanno portata a fare l'assistente al suicidio?
I motivi si trovano nella mia biografia. Ho vissuto la penosissima morte di mia madre, morta a Monaco di un tumore dietro l'occhio, inoperabile, accompagnato da dolori indicibili. La cosa mi fece un'impressione enorme e mi dissi: "Cosi' non voglio morire, e qualunque persona che non voglia morire in quel modo, puo' contare su di me".

Come si concilia il suo status di Pastore con l'accompagnamento al suicidio?
Nella Chiesa riformata di Zurigo una volta, nel sinodo, ci fu un dibattito veemente riguardo al quesito se un Pastore ancora in esercizio delle sue funzioni potesse fare anche l'assistente al suicidio. La conclusione fu che non e' possibile. Con la motivazione che sarebbe una grave violazione all'intangibilita' della vita, che e' un dono di Dio, indisponibile. Io ero abbastanza arrabbiato, perche' in quel modo si relega in un angolo la persona sofferente. Ora sono un Pastore in pensione e contemporaneamente un accompagnatore al suicidio, due cose che per me non confliggono. L'accompagnamento al suicidio e' per me la diretta prosecuzione dell'attivita' spirituale che esercitavo da Pastore.

Che ne e' del comandamento "Non uccidere"? Non vale anche per la sua assistenza al suicidio?
I miei motivi teologici sono chiari. Prima viene la compassione con la persona sofferente, che vuole la morte, e mi spiega in modo credibile perche' la vuole, e in questo modo realizza il suo diritto all'autodeterminazione, verso cui io ho teologicamente il massimo rispetto. L'autodeterminazione e' per me un regalo del Creatore. Siamo i primi soggetti liberi del creato, con il diritto di prendere in mano responsabilmente la nostra vita, e quindi anche la nostra morte. Ci sono persone che in certi momenti soffrono dolori insopportabili, e per me sarebbe tremendo se dovessi pronunciare davanti a loro quella terribile frase che si sente sempre dire nella cura pastorale: "Il tuo dolore e' voluto da Dio, lo devi semplicemente sopportare, come Cristo ha portato la sua croce, cosi' tu devi percorrere questa strada fino in fondo". Io non mi posso immaginare, e l'idea che ho di Dio non vi corrisponde affatto, che Dio voglia che gli uomini vivano sofferenze orribili. Assistere al suicidio non e' peccato, bensi' un atto di solidarieta' verso una persona sofferente. Tra coloro che decidono di togliersi la vita incontro spesso persone profondamente religiose, che riescono a far coincidere il suicidio con la loro fede.

C'e' differenza tra Chiesa cattolica e Chiesa evangelica riguardo al suicidio assistito?
In ambito cattolico l'aiuto al suicidio viene rifiutato; e' stato deciso a Roma e vale per tutto il mondo cattolico. L'aiuto al suicido fa parte di quella "cultura della morte" che il Papa respinge. Nella Chiesa protestante svizzera non e' stata ancora presa nessuna decisione al riguardo. Ma l'aver stabilito l'incompatibilita' tra la funzione di Pastore e l'attivita' d' assistente al suicidio la dice lunga su come stanno le cose.
Le Chiese sanno cosa serve a una persona che vuole morire?
La realta' sociale si rispecchia meglio nei risultati dei sondaggi, dai quali emerge come una parte crescente della societa', in Svizzera, ma anche in Germania, sia favorevole all'aiuto al suicidio. Secondo il mio punto di vista, le Chiese si sono interrogate troppo poco sul fatto che le persone, in una societa' liberalizzata, desiderino avere la possibilita' d'utilizzare questa possibilita'. Le Chiese la rifiutano sulla base di precetti dogmatici.

Come e' diventato assistente al suicidio?
All'inizio volevo solo vedere che cosa accadeva nella mia anima di fronte a questo tipo di situazione. Fui mandato ad accompagnare un'assistente al suicidio alcune volte, e non provavo spavento per quello che stava accadendo. Dopo, ho seguito i corsi di formazione professionale per diventare assistente. Un altro passaggio e' stato quando, in un istituto di psicologia, hanno analizzato approfonditamente se avessi delle fondamenta spirituali, oppure se fossero in gioco motivi nascosti e abbietti, come ad esempio una fascinazione di fronte alla morte o un senso di potenza.

Gli assistenti al suicidio sono uomini d'affari?
Exit non mira al profitto. Siamo un'associazione, ci finanziamo con i contributi dei soci, e i soldi che entrano in cassa li adoperiamo per l'amministrazione, le strutture, l'assistenza al suicidio. I nostri soci pagano 35 franchi all'anno, che sono 25 euro. Possono anche diventare soci a vita con un unico versamento di 400 euro, 600 franchi, e in quel modo hanno diritto anche alla consulenza, per esempio in materia di direttive anticipate di trattamento.Quando arriva il momento dell'assistenza al suicidio non viene piu' richiesto altro denaro. Ogni tanto qualcuno fa una donazione, che va all'Organizzazione e mai agli accompagnatori, i quali non possono accettare nulla personalmente. Tutti i soldi che entrano sono controllati da una societa' fiduciaria; ne viene dato conto in occasione dell'assemblea dell'associazione.

Ma non si muore in modo piu' civile in un centro di medicina palliativa o in strutture analoghe?
Certo, gli Hospice sono senz'altro un'alternativa. Secondo noi non sono in contrapposizione all'aiuto al suicidio. Solo in alcuni casi ci consideriamo un'uscita di sicurezza per persone che non sopportano la medicina palliativa o non vogliono antidolorifici in quelle quantita'. D'altro canto, se ci si guarda intorno, in Svizzera come in Germania, bisogna ammettere che negli ospedali sono troppo pochi i reparti di medicina palliativa e che le conoscenze in questo campo sono poco diffuse tra i medici. Tuttavia s'avverte, nella politica, la volonta' di ampliare questa branca.

L'uccisione diretta di una persona che vuole morire, ossia l'omicidio su richiesta o eutanasia attiva e un tabu', anche se per la legge non e' punibile in determinate circostanze. Pero' i medici violerebbero comunque la deontologia professionale.
Da un punto di vista giuridico la questione e' chiara. Ai medici non e' permesso, ne' in Germania ne' in Svizzera, di uccidere un malato terminale mediante un potente farmaco che agisce immediatamente; in Olanda e in Belgio invece si'. Da un punto di vista etico, per me l'eutanasia attiva equivale al suicidio assistito. Dov'e' la differenza? Io do una sostanza alla persona che decide di morire, e questi se l'assume da se' o apre da solo la valvola della flebo. Nell'altro caso e' il medico che apre la flebo con la sostanza mortale, oppure fa un'iniezione. In ambedue i casi la regia e' in mano a colui che vuole morire e decide cio' che deve accadere.

Perche' la morte non puo' essere semplicemente un caso, seguire il destino?
I moribondi oggi si trovano in un ambiente medicalizzato, dove in ogni momento viene fatto o omesso qualcosa per accelerare o ritardare la fine della loro vita. Anche nei centri di cure palliative, negli hospice, negli ospedali, si rinuncia alle medicine, oppure si danno medicine che accelerano il momento della morte, per esempio morfina in dosi massicce. Oppure il paziente decide di non mangiare e non bere. Oppure si decide d'interrompere determinate terapie che mantengono in vita. Insomma, e' un continuo prendere decisioni che incidono sul momento della morte. Magari non in modo cosi' netto come nel suicidio assistito, dove si stabilisce data e ora. Ma l'attesa della morte come avveniva centinaia d'anni fa, quando s'aspettava semplicemente la fine, quella non esiste praticamente piu'.

Tratto dal quotidiano Sueddeuetsche Zeitung del 28-11-2007 (traduzione di Rosa a Marca)
Pubblicato in:
 
 
ARTICOLI IN EVIDENZA
 
ADUC - Associazione Utenti e Consumatori APS