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Il lato positivo e quello negativo… dei tassi d’interesse negativi
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Editoriale di Alessandro Pedone
1 ottobre 2019 16:20
 
Mentre viviamo delle trasformazioni storiche, in genere, non abbiamo la lucidità mentale per comprenderle appieno. Il cambiamento avviene mentre siamo occupati a fare altro. 
In questi ultimi mesi, mi sto formando sempre di più la convinzione che stiamo vivendo una radicale trasformazione del concetto di moneta e quindi anche del mondo della finanza.

Il lato positivo
La reazione delle banche centrali alla crisi del 2008, inizialmente vissuta come eccezionale, progressivamente diventata strutturale, sta rendendo evidenti a tutti alcuni concetti che prima erano appannaggio solo di ristretti circoli culturali. 
I tassi d’interesse negativi e l’immissione nei mercati finanziari di decine e decine di miliardi di euro “creati dal nulla” stanno generando le condizioni per un cambiamento veramente radicale del sistema che forse vivremo fra qualche decennio, ma che a me pare inevitabile. 
La prima condizione necessaria affinché avvenga un cambiamento radicale del sistema finanziario è la consapevolezza che un diverso sistema sia concretamente possibile. 
Prima del 2008, il solo fatto che la banca centrale valutasse concretamente delle soluzioni tecniche per dare denaro direttamente nelle tasche dei cittadini era impensabile. Oggi è realtà.
Le politiche monetarie non convenzionali, che ormai sono presenti da oltre un decennio, hanno avuto il primo effetto di cambiare la visione delle élite, prima ancora del popolo. Prima del 2008 la visione di gran lunga dominante era sostanzialmente quella che il libero mercato avrebbe sempre e comunque fatto meglio di qualunque regolamentazione: il pubblico si dovrebbe occupare di regolamentare il minor numero di cose possibili. A questa visione si accompagnava il dogma della necessità per lo Stato di spendere il meno possibile: la spesa pubblica, in questa visione, sarebbe per sua natura inefficiente.

Gradualmente, questa visione sta perdendo sempre di più forza. A partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, ai tempi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, un certo modo estremo di vedere il liberismo economico si è fatto sempre più largo fino al disastro del 2008. In quell’occasione si è seriamente rischiato di far scomparire l’intero sistema finanziario mondiale, se non fosse intervenuto il pubblico. 
E’ stato necessario circa un decennio affinché questo evento traumatico iniziasse ad essere assorbito nel contesto culturale dominante. Oggi non è più vero che il dogma iper-liberista è culturalmente indiscusso, come lo era all’inizio del secolo. 
Sono sempre di più - e sempre più autorevoli -  le voci che si levano all’interno del mondo delle istituzioni finanziarie, le quali mettono in discussione, più o meno radicalmente, il pensiero in base al quale tutto deve essere delegato al libero mercato senza “lacci a lacciuoli”. 
A sostegno di questa tesi vorrei citare forse l’economista in attività più citato al mondo: Olivier Blanchard. E’ stato capo economista del Fondo Monetario Internazionale, considerato il “tempio” del capitalismo mondiale. 
Per molti anni, Blanchard è stato senza dubbio un riferimento per quel tipo di pensiero che dagli anni ‘80 è culturalmente egemone. Da qualche anno Blanchard ha, da prima, attenuato le sue tesi e recentemente sta caldeggiando tesi chiaramente più favorevoli ad un bilanciamento pubblico dell’azione dei mercati. Le élites hanno confidato troppo nel capitalismo”, ha dichiarato recentemente in un’intervista. Ancora più recentemente: “Non vorrei un taglio del budget a spese della crescita. Che senso ha frenare il Pil dell’1% per ridurre il debito di mezzo punto?”
Sono parole che non sarebbero mai state pronunciate prima del 2008 da un economista così autorevole come lui. 
Blanchard è ovviamente solo l’esempio più clamoroso di economista un tempo totalmente allineato al pensiero iper-liberista ed oggi più su posizioni favorevoli ad interventi pubblici. 

Pensare che questo cambiamento possa far ritornare al mondo precedente a quello degli anni ‘80 sarebbe una visione ingenua della storia. Dagli anni ‘80 ad oggi c’è stata di mezzo una rivoluzione tecnologica che ha reso - di fatto - obsoleti una serie di meccanismi finanziari. 
Se vogliamo guardare alle cose così come sono - e non come vorremmo che fossero - non possiamo non renderci conto che, oggi come oggi, la quasi totalità di ciò che fa il sistema finanziario potrebbe essere fatto in modo molto più efficiente da infrastrutture informatiche appositamente progettate. 
Per trasferire denaro, dal punto di vista tecnologico, non abbiamo più bisogno di banche e per avere denaro in prestito o sotto forma di partecipazione agli utili, potremmo non avere più bisogno dei mercati finanziari sviluppando apposite infrastrutture informatiche. Le banche centrali potrebbero benissimo sostituire l’intero sistema finanziario con apposite piattaforme informatiche le cui regole potrebbero essere progettate ed adeguate per facilitare gli scopi della collettività (in primo luogo la piena occupazione). 
Tecnicamente - già adesso - questo sarebbe possibile. 
Al momento sembra una follia anche solo pensarlo, ma fra qualche decennio - personalmente mi appare scontato - ci domanderemo se tutto questo “Circo Barnum” che continuiamo a tenere in piedi non ci stia costando un po’ troppo, rispetto a piattaforme informatiche che possano disintermediare completamente l’azione delle istituzioni finanziarie private.   
Se, come è possibile, le banche centrali inizieranno a mettere i soldi direttamente in tasca ai cittadini ed imprese e se realizzeranno delle loro monete elettroniche (come stanno progettando) il passo verso la disintermediazione totale del sistema bancario sarà fatto e sarà solo questione di tempo. 
Questo, a mio avviso, è uno dei lati positivi dei tassi d’interesse negativi.

Il lato negativo
Le trasformazioni del sistema finanziario che potrebbero essere innescate da questi tassi d’interesse negativi, protratti per molti anni, stanno generando una serie di comportamenti problematici come l’assunzione di rischi nella maggior parte dei casi in modo del tutto inconsapevoli. 
Il problema strutturale più grande è quello della sostenibilità dei sistemi previdenziali ed assicurativi. La sostenibilità di questi strumenti, ad oggi, si fonda sulla circostanza che le riserve matematiche generano dei rendimenti positivi. Nel momento in cui questo è messo seriamente in discussione, nel lungo termine questi comparti dovranno essere ristrutturati. 
Ovviamente le banche centrali potranno inventarsi delle tecnicalità per trasferire soldi a questi comparti, ma al momento è una questione da affrontare completamente da zero ed è ben probabile che la prossima grande crisi nasca dall’incertezza su come affronteremo questo problema. 

Il problema più immediato, che ci sentiamo di evidenziare anche a tutela di chi ci legge, è quello del proliferare di forme d’investimento sempre più rischiose. Tale proliferare è favorito dal fatto che l’alternativa che un tempo era considerata sicura è diventata una “sicura perdita”.
Questo ha generato una fame quasi atavica di rendimento sui mercati.
Questa tabella mostra i rendimenti delle obbligazioni governative delle principali nazioni. 

 

Nel mondo parliamo di oltre 13 mila miliardi di dollari di obbligazioni a rendimento negativo! Circa il 70% di tutte le obbligazioni disponibili dell’area Euro sono a rendimento negativo!
Vorrei che vi fermaste un attimo a pensare a questo dato. 
Investendo in obbligazioni nell’area euro e tenendole a scadenza, oggi abbiamo la certezza di perdere dei soldi, almeno nel 70% delle obbligazioni disponibili. Nell’altro 30% dei casi si sostengono rischi che non vengono ripagati dal rendimento. 
Questo significa che una parte importante dei portafogli finanziari oggi è sostanzialmente non investibile.

Ovviamente questo ha resto e sta rendendo sempre di più gli strumenti finanziari rischiosi sempre meno redditizi. Questo vale per le azioni, anche se questo è difficile da percepire per il risparmiatore non esperto che in genere non è in grado di valutare il reale valore di un’azione, ma vale anche -e forse in maggior misura- per le obbligazioni così dette “ad alto rendimento” o “obbligazioni spazzatura”. Il differenziale di rendimento fra queste obbligazioni e quelle governative si è abbassato notevolmente. Pur di non prendere rendimenti negativi, gli investitori, comprensibilmente, si accontentano di rendimenti positivi minimi per tipologie di rischio che non sanno stimare. Ma il differenziale di rendimento storico fra le obbligazioni più rischiose ed i titoli governativi ha una giustificazione legata al fatto che quando l’economia va male, una parte non trascurabile di quelle obbligazioni non viene ripagata. 

Vorrei che fosse molto chiaro a chi compra queste obbligazioni oggi, che sta scommettendo o sulla sua capacità di uscire dall’investimento prima degli altri (e - credetemi - sui mercati finanziari non è mai una buona strategia pensare di essere più furbi degli altri) oppure si sta scommettendo sull’ipotesi che ormai le banche centrali si inventeranno sempre qualcosa di nuovo per non far crollare i mercati, controllare i cicli economici, insomma evitare le notizie veramente brutte. 

Dal momento che sui mercati tradizionali non ci sono alternative un minimo soddisfacenti, anche le società di gestione si stanno inventando sempre di più strumenti d’investimento alternativi. E’ di pochi giorni fa, ad esempio, la notizia che Azimut sta lanciando i fondi di Private Equity per investitori retail. Questo genere di fondi hanno un profilo di rischio totalmente diverso rispetto all’investimento azionario tradizionale. E' molto elevato il rischio che la società di gestione non riesca ad allocare in modo efficiente le grandi masse che si pone l’obiettivo di raccogliere. 

Questo è solo l’ultimo esempio dei prodotti finanziari sempre più rischiosi che vengono proposti ad un pubblico di risparmiatori. Questi ultimi, in maggioranza, hanno perso la memoria delle grandi crisi finanziarie e si stanno formando l’idea che le banche centrali in qualche modo metteranno una pezza a qualunque situazione. 

Il vero problema è che effettivamente non ci sono sui mercati finanziari opzioni concretamente percorribili, almeno per quella grande parte del portafoglio che dovrebbe servire a garantire la sicurezza. 
Troppo spesso, le scelte degli investitori sono dettate dal disagio che si prova nel “tenere i soldi fermi” da tanto tempo, magari dopo aver verificato che altri investimenti più rischiosi in passato sono andati bene. 

Questo è il contesto perfetto per vedere un “bagno di sangue” collettivo nei mercati finanziari, nell’ipotesi in cui il ciclo economico dovesse entrare in recessione e le banche centrali decidessero che dal “cilindro” non uscirà più nessun “coniglio”...
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