testata ADUC
Accanimento terapeutico
Scarica e stampa il PDF
Articolo di Piero Morino*
23 maggio 2006 0:00
 
"Abbiamo fatto quello che si poteva": una frase che dice tutto senza dire nulla. Perche' quello che, ormai da tempo, non mi e' piu' chiaro, e': chi stabilisce quello che si puo', che si deve o non si deve fare? Chi traccia il confine tra quello che e' lecito fare e quello che e' eccessivo? O, ancora, tra quello che e' troppo poco e quello che dovrebbe essere il livello minimo accettabile di prestazione, di competenza, di - per usare la parola piu' abusata in questa nostra epoca di formiche operose - professionalita' e, osiamo dirlo, di coinvolgimento? L'esperienza? La letteratura medica? Le linee guida elaborate nei congressi? Il buon senso? L'etica medica?
L'accanimento terapeutico e' un concetto abbastanza chiaro e fondamentale nei testi d'etica medica e forse anche di filosofia. Nell'esperienza clinica quotidiana diviene invece estremamente piu' nebuloso. Dibattersi fra una possibilita' di guarigione su un milione - la nostra ignoranza e limitatezza ancora puo' stupirsi dei miracoli - e la dignita' di una morte pietosa e' come finire tra le sabbie mobili: e spesso cio' che ci trascina verso il fondo delle stesse non e' una razionale decisione scientifico-assistenziale, ma e' la voglia di fare versus la tentazione della pigrizia, la noia o la passione, la buona o la cattiva digestione.

Questo brano e' tratto dal romanzo "COSA SOGNANO I PESCI ROSSI" di Marco Venturino, un medico anestesista e quindi un clinico costretto tutti i giorni a confrontarsi con l'adeguatezza delle terapie e delle manovre piu' o meno invasive che devono essere intraprese, o no, su persone malate, spesso in condizioni cliniche molto instabili e gravi.
Il punto di vista di chi deve prendere in tempi brevi queste decisioni, dalle quali e' difficile tornare indietro e che influenzano inevitabilmente non solo il tempo della sopravvivenza, ma anche la qualita' della vita e, spesso, della morte, deve essere sempre cauto, ponderato, messo in discussione e condiviso, non solo, com'e' ovvio, con la persona malata, ma, se possibile, con la famiglia e tutta l'equipe terapeutica.
Ecco quindi che il concetto di accanimento terapeutico, gia' cosi' complesso nel dibattito etico - filosofico, tanto che inizia ad essere messo in discussione il termine stesso ed ormai appare piu' appropriato parlare di "terapie futili", deve essere calato nella realta' delle scelte quotidiane del medico che deve essere preparato ad affrontare il processo decisionale e le responsabilita' che ne derivano.
E' a mio parere fondamentale parlare di processo decisionale, piuttosto che di decisione, proprio tenendo presente la complessita' del contesto in cui vanno individuate le varie alternative terapeutiche da proporre a quel singolo malato, se competente, in quel momento della sua storia di salute e malattia e delle sue aspettative.
D'altra parte i principi etici fondamentali d'Autonomia, Beneficialita' e Giustizia rimangono lo strumento imprescindibile nell'analisi del contesto tecnologico, economico, familiare, sociale, culturale e ambientale in cui la persona malata ed il medico si trovano ad interagire: se consideriamo il rapido ed apparentemente inarrestabile sviluppo della tecnologia biomedica, vediamo come dei mezzi che poco tempo fa erano eccezionali e pertanto destinati a pochi e selezionati casi, quasi sperimentali, siano oggi quotidianamente applicati: ricordo, nei miei primi anni di specialista in Anestesia e Rianimazione, come doveva essere ben ponderata la decisione se collegare o no un paziente al ventilatore meccanico e come fosse necessario cercare di anticipare piu' possibile l'estubazione, per evitare che il barotrauma provocato dalla ventilazione controllata a pressione positiva, con la tecnologia di quegli anni, provocasse danni irreparabili ed irreversibili ai polmoni; Certamente oggi questo problema e' assolutamente ininfluente nella decisione se iniziare o no, una ventilazione assistita.
Eppure oggi, nei vari paesi del mondo, ma anche in ambito nazionale, non esiste un'omogenea distribuzione delle risorse economiche, e quindi tecnologiche, tale da garantire uguale possibilita' di cura per le medesime situazioni patologiche; ancora di piu' dovremo riflettere su come il diverso livello culturale se non la vera e propria capacita' personale dei singoli operatori di una stessa struttura, possano condizionare il successo dell'intervento terapeutico.
Dobbiamo dunque rinunciare alla certezza medica che, attraverso linee guida o protocolli, riesce sempre ad individuare la terapia giusta per la malattia: dal momento in cui e' cosi' palese l'influenza del contesto sulle decisioni possibili da prendere, cade l'illusione dell'assoluta oggettivita' scientifica delle scelte del medico.
Un primo passo potrebbe essere quello del superamento del concetto, ancora prevalente, della terapia sempre giusta per una determinata malattia che il medico deve mettere in atto a qualunque costo, per il bene del paziente, per cui e' eticamente corretto aumentare la cosiddetta compliace del paziente cercando di convincerlo in ogni caso ad aderire al piano terapeutico, sottacendone i rischi, magari esaltando i possibili risultati positivi e minimizzando gli eventuali effetti collaterali; in questo contesto, non sempre il malato e' ben informato sulla diagnosi, quasi sempre e' all'oscuro della prognosi e comunque e' piu' comodo non affrontare questi argomenti direttamente con lui, ma cercare la mediazione dei famigliari; se il paziente dovesse chiedere di essere informato, espressamente e con insistenza (ma esistono veramente, nella pratica sanitaria attuale, le condizioni e gli spazi perche' questo possa avvenire ?) spesso si cerchera' di presentare una verita' edulcorata e tranquillizzante perche', in una condizione in cui la sua conoscenza e' incompleta, il medico e' piu' libero di agire per il suo bene.
Spesso il massimo dello sforzo comunicativo e' dedicato a cercare di coinvolgere il malato nell'iter terapeutico, motivandolo a sentirsi coinvolto e partecipe nella lotta contro la malattia; se e' facilmente intuibile quanti effetti positivi possano esserci in questo coinvolgimento, forse non andrebbero sottovalutati gli effetti negativi che questo modo di agire puo' avere in caso di fallimento della terapia: nella mia attivita' di medico palliativista, che dunque si occupa proprio di quelle persone per le quali le terapie non sono riuscite a sconfiggere la malattia e che dunque si avvicinano, piu' o meno consapevolmente, alla fase finale della loro vita, e' assai frequente, specialmente nei piu' giovani e con maggiori responsabilita', anche genitoriali, riscontrare un lacerante senso di colpa. Molte volte, prendendo atto che le proprie condizioni psico-fisiche si stavano deteriorando e quindi era sempre piu' difficile continuare a svolgere il proprio ruolo sociale e/o familiare, questi malati mi hanno domandato dove loro avevano sbagliato: i medici mi avevano detto che ce la potevo fare, che molto dipendeva dal mio impegno e dalle mie motivazioni, che non dovevo mai arrendermi ma continuare sempre a lottare e a sperare; io ce l'ho messa tutta, ho sopportato tutte le terapie che mi hanno proposto, sono andato avanti anche quando stavo cosi' male che credevo di non farcela, ma allora dove ho sbagliato? Cosa ora posso ancora fare per ricominciare a sperare di guarire? Me lo avete promesso, dovete continuare a provare, sono disposto anche a tentare terapie sperimentali...
Questo e' uno dei casi in cui l'accanimento terapeutico e' richiesto dal paziente stesso ma quest'evenienza, non infrequente, che spesso vede coinvolte anche le famiglie, ha varie motivazioni: da una parte l'informazione scientifica divulgativa dei media e' tesa all'esaltazione di nuovi traguardi della medicina, anche non convenzionale, presentando risultati eclatanti, quasi miracolistici, di pratiche in realta' sperimentali, di dubbia efficacia, se non gia' abbandonate perche' inefficaci, o addirittura dannose, dall'altra la difficolta' da parte dei sanitari curanti di comunicare, dopo aver dato speranza, che questa speranza e' risultata vana e che e' il momento di abbandonare le terapie attive sulla malattia. In questo caso spesso si ricorre, ad esempio, a false chemioterapie, per non togliere la speranza, con il risultato pero' di coltivare illusioni, di rimandare di poco il momento della comunicazione della sospensione della terapia, sperando magari di demandare questa responsabilita' a qualcun altro e, in fine, creando insicurezza e sfiducia nei malati e nelle famiglie.
Nel 1992 e' stato pubblicato su un'importante rivista scientifica, un articolo intitolato "l'etica dell'ignoranza" in cui si rilevava come le basi scientifiche della medicina siano ancora deboli e come sarebbe meglio per tutti che questo fatto fosse piu' ampiamente riconosciuto: questo tanto piu' e' vero nel rapporto fra il medico ed il malato che non ha speranza di poter guarire. Il rischio altrimenti e' quello di iniziare un percorso che porta ad una relazione medico-paziente nella quale il medico vuol credere di sapere piu' di quanto sappia, perche' questo lo gratifica e perche' la conoscenza e' potere ed al paziente conviene l'idea che il medico lo potra' curare e salvare dalla morte.
Si crea dunque, magari con la complicita' della famiglia, un paravento di parole, dietro le quali si possono nascondere alternativamente il malato o il medico o addirittura ambedue insieme, nel tentativo di non affrontare la realta' di cio' che sta accadendo.
Se dunque dobbiamo guardare oltre il confronto fra malattia e terapia, diventa fondamentale ridare valore al rapporto medico-paziente, in un concetto moderno ed attualissimo in cui siano coinvolti, con pari dignita' ma nel rispetto dei rispettivi ruoli e competenze, tutti gli attori del processo assistenziale.
Il rapporto medico-paziente si e' dunque trasformato ed appare evidente e condivisa da tutti, la positivita' del passaggio dalla subalternita' dell'ubbidienza alla cosiddetta alleanza terapeutica. Oggi pero' e' necessario, a mio parere, superare anche questo concetto per confrontarsi con quello che in un recente articolo del BMJ e' definito della concordance, cioe' sulla necessita' di adoperarsi per cercare di raggiungere la concordanza di vedute nel gruppo curanti-malato-famiglia, sulle cure da intraprendere, valutandone l'efficacia, gli obiettivi, i limiti, i possibili effetti collaterali e le eventuali alternative terapeutiche.
Certo, perche' questo possa avvenire, e' necessario che molti passi siano ancora fatti per migliorare la situazione attuale riguardo alle criticita' della relazione terapeutica: informazione, verita', comunicazione, ascolto, tempi e spazi appropriati. Questi concetti fondamentali, che in questa sede possono essere solo enunciati ma che richiederebbero ciascuno una trattazione propria, non potranno essere positivamente affrontati solo con la buona volonta' o la attitudine dei singoli operatori coinvolti, ma attraverso un lungo processo culturale che deve coinvolgere in primo luogo la formazione dei medici e degli infermieri ma anche di tutta la societa'.
Mi sembra necessario evidenziare anche le difficolta' che gli operatori sanitari, soprattutto se motivati e sensibilizzati, incontrano, per trovare gli spazi ed i tempi adeguati allo sviluppo della relazione terapeutica, nell'odierna organizzazione sanitaria, fondata sull'efficienza e sui DRG: se non si arrivera' a considerare il tempo dell'informazione e della comunicazione come tempo di cura, questa carenza non potra' essere superata solo sulla personale attitudine dei singoli operatori.
Dunque, come citato nella "DICHIARAZIONE DI INTENTI " del Gruppo di Pontignano del 13-14/5/04, occorre superare l'utilizzo controverso del termine "accanimento terapeutico", introducendo l'espressione "trattamenti futili" anche per indicare quelle cure che, sebbene appropriate sotto il profilo clinico in altri contesti, non dovrebbero essere proposte al paziente nella fase terminale della vita.
In conclusione, nel proporre un trattamento terapeutico, soprattutto nell'ipotesi che questo non abbia la ragionevole certezza della guarigione del malato, e' imprescindibile una relazione che si svolga in ambiente di verita', con un'informazione corretta ed una comunicazione sempre aperta, per dare a quella persona, nel suo contesto sociale e familiare, tutti gli elementi necessari, perche', valorizzandone l'autonomia, possa concordare con il curante la terapia per lui piu' appropriata in quel momento della sua vita non solo di malattia; la comunicazione sempre aperta diventa indispensabile per poter rivalutare in ogni momento le decisioni prese, non solo alla luce dei risultati ottenuti, ma anche dell'adesione del paziente alla terapia intrapresa, garantendo in ogni caso la continuita' assistenziale. Non possiamo giustificare cio' che troppo spesso accade nell'attuale medicina ipertecnologica, per cui si passa in un attimo dall'accanimento all'abbandono: troppo spesso anche il medico identifica la sua frustrazione per il fallimento di una terapia causale con il non c'e' piu' nulla da fare, come se non fosse possibile dare qualita' e valore al tempo che a quel malato resta da vivere.

------
*Il dott. Piero Morino e' responsabile dell'Unita Funzionale Multiprofessionale Aziendale Cure Palliative e della Rete Territoriale Aziendale delle cure palliative dell'ASL 10 di Firenze ed e' Socio Fondatore della Fondazione Italiana di Leniterapia (FILE).
Pubblicato in:
 
 
ARTICOLI IN EVIDENZA
 
ADUC - Associazione Utenti e Consumatori APS