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Stupefacenti, commento a decreto Lorenzin (d.l. 36/2014)
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Articolo di Carlo Alberto Zaina
19 maggio 2014 14:24
 
I commi 24 ter e 24 quater dell’art. 1 del DL 20 marzo 2014 n. 36 (in G.U. n. 67 del 21 marzo 2014) incidono sulla struttura del combinato disposto dagli artt. 73 e 75 del DPR 309/90, in quanto mirano (in special modo la nuova edizione dell’art. 75) a definire e tratteggiare i confini entro i quali vada ravvisata l’operatività del concetto di uso esclusivamente personale, nonché le modalità attraverso le quali tale scriminante possa effettivamente produrre effetti in relazioni a casi di detenzione che può essere generica oppure qualificata (importazione od esportazione, acquisto o, comunque, ricezione).
Anche l’intervento ulteriormente modificativo che si rivolge all’art. 73 comma 5° merita attenzione, anche se, pare di poter affermare, si tratta di un’occasione perduta.
 
1. PRIME CONSIDERAZIONI DI NATURA METODOLOGICA E NOVITA’ SEMANTICHE.
1.1 LA RIABILITAZIONE DELLA NOZIONE DI USO ESCLUSIVAMENTE PERSONALE E LA SUA NUOVA FORMULAZIONE DI TESTO.
 
Un primo elemento caratterizzante il DL 36/14 è dato dal definitivo collocamento del concetto di “uso esclusivamente personale” (che viene espressamente recuperato, dopo l’abrogazione del comma 1 bis dell’art. 73, da parte della sentenza 32 della Corte Costituzionale) nel corpo dell’art. 75.
Si è dato corso, quindi, ad una duplice scelta normativa, che suscita perplessità.
Da un lato, viene ribadita la formula “uso esclusivamente personale”, la quale contiene anche l’avverbio “esclusivamente”, che già ha formato oggetto di critiche per la usa assoluta superfluità.
Dall’altro, viene dato luogo allo spostamento del concetto scriminante, dalla sua sede naturale – la norma incriminatrice per eccellenza, l’art. 73 (dove era collocato al comma 1 bis) – al testo dell’art. 75, che, invece, disciplina il sistema della sanzioni amministrative.
In relazione all’istituto in esame si deve, inoltre, osservare che il DL 36/14, all’art. 1 comma 24 quater, reintroduce e riproduce una serie di paradigmi (già presenti nella dizione del comma 1 bis dell’art. 73) che il giudice può discrezionalmente utilizzare per pervenire alla decisione concernente la destinazione dell’uso personale dello stupefacente1.
Rimane il fatto che, allo stato, manca ancora una precisa definizione dei cd. “limiti massimi” di sostanza stupefacente (la QUANTITA’ MASSIMA DETENIBILE), introdotti a suo tempo con il DM 11 aprile 2006.
Per colmare detto lacuna (che riverbera pesanti effetti anche in relazione al concetto di ingente quantità, così come modellato nel 2012 dalle SSU) il legislatore ha dovuto prevedere l'emanazione, da parte del Ministro della salute di concerto con il Ministro della giustizia, dei relativi decreti che, come detto, erano già previsti dall'art. 73 co. 1-bis lett. a), abrogato con la sentenza n. 32/2014.
Or bene, al di là della sostanziale riabilitazione di canoni ermeneutici, la cui codificazione era, peraltro, naturale conseguenza della esperienza quotidiana forense, deve essere rilevato il nuovo e radicale mutamento di impostazione che connota la normativa.
Si opera, infatti, una vera rivoluzione di lessico e di indirizzo.
Il legislatore muove, infatti, (abbandonandola), da una pregressa concezione, in base alla quale l’“uso esclusivamente personale” poteva essere ravvisato, solo in via residuale, dopo la formulazione di un giudizio negativo, cioè di esclusione – in capo all’agente – delle attività penalmente punibili2, e perviene, così, all’enunciazione di un principio che, pur identico nel fine e nella sostanza, all’opposto, ribalta, però, i termini di valutazione e giudizio.
Ciò avviene, tramite l’esclusione preliminare di ogni tipo di riferimento sanzionatorio e l’adozione di una struttura lessicale che indica espressamente i paradigmi interpretativi che il giudice possa usare – nell’ambito dell’esercizio della propria discrezionalità -.
I canoni valutativi vengono, così, proposti quale metro strumentale e positivo di decisione in ordine alla eventuale sussistenza dell’esimente.
E’ questa, dunque, l’unica innovazione che possa rimanere immune da critiche, perché essa introduce una definizione in luogo di una non-definizione qual’era l’uso esclusivamente personale nella L. 49/2006.
 
 
1.2 LA COLLOCAZIONE DELLA NOZIONE DI USO ESCLUSIVAMENTE PERSONALE NEL TESTO DELL’ART. 75; PERPLESSITA’. LE CONDOTTE SCRIMINATE.
 
Il legislatore, pur ribadendo – senza particolare convinzione (e forse obtorto collo) – la sola depenalizzazione del consumo personale di sostanze stupefacenti, opta, poi, per una scelta che eleva il comma 1 dell’art. 75 a paradigma centrale ed a volano interpretativo del giudizio di applicabilità della scriminante dell’uso personale rispetto ai casi specifici.
Questa nuova impostazione strutturale e sistematica non pare, però, convincente.
Risulta, infatti, assai singolare che l’eventuale riconoscimento della liceità penale di una serie di condotte tassativamente individuate (ed altrimenti sanzionate), condizione che dipende dalla loro effettiva correlazione al fine del consumo personale e giudizio che investe la struttura precettiva della norma incriminatrice (l’art. 73), debba, invece, venire desunto per relationem et aliunde.
La unità strutturale del sistema governato dal DPR 309/90, il quale individua la condotte ritenute penalmente illecite e, in pari tempo, esclude, tassativamente, da tale novero alcune altre (detenzione, importazione, esportazione, acquisto e ricezione) viene, così, illogicamente ripartita su più norme tra loro autonome, venendosi a provocare una vera frammentazione.
La ricordata traslazione del concetto di “uso esclusivamente personale” dall’art. 73 all’art. 75, appare un segno evidente di rafforzamento della logica che ispira la previsione del sistema delle sanzioni amministrative.
Certamente più razionale e più utile, sul piano esegetico, sarebbe stata la scelta di costruire una unica norma, (con la rimeditazione della trama dell’art. 73), scegliendo di ricomprendere in tale ambito – allo stesso tempo - sia il riferimento sanzionatorio, che quello esimente e riservando all’art. 75 un ruolo di testo collegato naturalmente consequenziale, la cui applicazione apparisse di natura residuale e sussidiaria rispetto al giudizio che il giudice formuli riguardo alla effettiva sussistenza, nel caso concreto, dell’uso personale.
L’indirizzo ideologicamente proibizionista, che sostiene il complesso normativo del DL 36/14 è ravvisabile anche in virtù dell’uso dell’avverbio “illecitamente” abbinato alle successive condotte indicate, il quale non lascia dubbio alcuno in ordine alla circostanza che, pur rimanendo estranee al contesto penalistico, le varie ipotesi comportamentali, regolate dall’art. 75, sono sempre oggetto di un giudizio di disvalore, che le qualifica come illecito amministrativo (assoggettandole alle relative sanzioni ed escludendo qualsiasi timida idea di depenalizzazione).
Si deve , inoltre, rilevare che la norma introdotta con il comma 1 bis dell’art. 75 non muta il numero e le tipologie di condotte che vengono scriminate dalla destinazione all’ uso esclusivamente personale, rispetto al regime precedentemente vigente.
Nessuna sorpresa, dunque, sul mancato inserimento in tale contesto della coltivazione, giacchè esso sarebbe stato un atto di troppo grande rottura ed evoluzione, rispetto alla imperante e ridotta visione proibizionista, quello di considerare l’opportunità di cogliere l’assist fornito dalla giurisprudenza più illuminata (Cfr. Cass. Sezione Sesta n. 12612/13 18 marzo 2013) che ha posto l’accento sul tema dell’offensività globale e concreta in relazione alla condotta coltivativa.
Dunque, la questione coltivazione rimane impregiudicata e sarà ancora oggetto dei vibrati contrasti che l’hanno connotata negli ultimi anni.
Semmai, si deve osservare che la riproposizione della locuzione “riceve a qualsiasi titolo”, quale norma di chiusura e sintesi rispetto alle altre precedenti e più specifiche condotte, ripresenta i dubbi di genericità, peraltro, già evidenziati all’atto della promulgazione della L. 49/2006.
Si può solo ritenere che con l’espressione in oggetto, il legislatore ha inteso elaborare una disposizione che copra situazioni nelle quali la dazione materiale della sostanza avvenga con modalità e causali differenti da quelle tipiche dell’acquisto.
Vale a dire che la perifrasi è concepita per abbracciare tutte quelle ipotesi di passaggio dello stupefacente da un soggetto ad un altro, che si perfezionino gratuitamente o per liberalità.

 
2. IL REATO PREVISTO DAL COMMA 5° DELL’ART. 73 CONTINUA IL MUTAMENTO.
 
Il DL 36/2014 ci offre, inoltre, l’ennesima performance modificativa del comma 5° dell’art. 73 del DPR 309/90, norma sottoposta nell’ultimo arco d’anno ad una stressante serie di interventi di restiling, che, talora, come nel caso di quello in esame, paiono del tutto stravaganti ed incomprensibili per l’assenza di un profilo di strategia logico-giuridica.
L’esito partorito appare, infatti, un vero pateracchio compromissorio di basso livello logico-giuridico.
Immediatamente, infatti, si può affermare che non è affatto vera la categorica affermazione che la rimodulazione della pena nel massimo edittale, fissando il relativo limite a quattro anni, impedirà che l’indagato venga arrestato.
Si continua, quindi, nonostante le assicurazioni, a perpetuare nocivi effetti in tema di libertà personale l’art. 381 comma 1 cpp (che regola l’arresto facoltativo in flagranza e legittima il processo per direttissima); certo, non potrà essere applicata dal giudice la misura della custodia in carcere, ma questa appare una conseguenza del tutto minima e residuale, alla luce della esperienza quotidiana forense.
Un piccolo vantaggio deriva dal fatto che il condannato potrà godere del diritto alla sospensione dell'ordine di esecuzione ai sensi dell’art. 656 co. 5 c.p.p., venendo meno la circostanza ostativa della costanza di stato di custodia cautelare di cui al co. 9 lett. b) del medesimo art. 6563.
E’ ben vero, inoltre, che il limite massimo di pena di quattro anni, permetterà l’accesso dell’imputato/indagato alla possibilità di richiedere l’applicazione della messa alla prova di cui al nuovo art. 168 bis c.p. (introdotto con L. 67 del 28 aprile 2014), ma questa è, comunque, un’opzione che – almeno per quanto attiene coloro che fossero stati denunziati per fatti commessi sino al 23 dicembre 2013 (data di entrata in vigore della L. 146/2013) in relazione alla cannabis - era già possibile.
E’, comunque, del tutto inconcepibile – sul piano razionale - che il legislatore, il quale si accredita (e si vanta) come portatore di un disegno che mira a sanzionare tutti i comportamenti riguardanti le droghe (non dimentichiamo che le condotte non propriamente reato del comma 1 bis dell’art. 75, sono pur sempre contemplate come illeciti sanzionati amministrativamente) proceda, poi, ingiustificatamente alla diminuzione del trattamento sanzionatorio comune a tutti i fatti di lieve entità (abbassandoli ai livelli di pena che la il dpr 309/90, nella versione originaria JERVOLINO-VASSALLI prevedeva solo per le droghe leggere) pur di non ammettere una ovvia, quanto razionale, distinzione sanzionatoria fra sostanze psicoattive di differente pericolosità.
Il paradosso è, dunque, solare.
Invece di incentivare il contrasto alla diffusione delle droghe pesanti (di per sé, all’evidenza, assai pericolose e letali), il legislatore (o, comunque, una precisa fascia parlamentare) ossessionato esclusivamente ed irragionevolmente dal tema cannabis, giunge inspiegabilmente, addirittura, a diminuire le pene riguardanti le violazioni del comma 5°, con una sorprendente, quanto contraddittoria – rispetto ai proclami - scelta al ribasso.
La rimodulazione della pena nei termini appena indicati, non è, però, l’unica schizofrenia ideologico-politica, che sia ravvisabile nel testo del DL 36/2014.
Emerge e sconcerta, infatti, la immotivata pervicacia che la quale il governo (a taluno che lo sostiene) ha insistito affinchè venisse ribadito il concetto dell’unicità del trattamento sanzionatorio, qualunque fosse la tipologia della sostanza.
L’argomento principe utilizzato – a vaga giustificazione - è quello che la sentenza n. 32 della Corte Costituzionale ha abrogato il DL 272/2005 e la conversione nella L. 49/2006, solo per motivi di natura formale, non essendo stato formulato un vero e proprio giudizio di costituzionalità della norme in esso contenute.
L’osservazione è all’apparenza – ma solo all’apparenza – parzialmente veridica.
In realtà, chiunque si approcci alla decisione del giudice delle leggi in buona fede, legge nella decisione della Consulta – che abbraccia per implicito anche il merito della legge – una pesante censura senza appello sul disinvolto modo di legiferare dei padri del DL 272/2005, che risulta caratterizzato dalla mistificata evocazione della infondata sussistenza di motivi di urgenza ed indifferibilità, che ha legittimato la scelta di dare corso ad un decretazione di urgenza (violazione dell’art. 77 Cost.).
Dunque la sentenza della Corte Costituzionale costituisce un vero tsunami che mette a nudo la assenza di correttezza della procedura legislativa, che ha ecceduto la delega normativa, il difetto dei presupposti evocati e, al contempo, la necessità che materie come quella in oggetto siano caratterizzate da un dibattito parlamentare ampio e profondo.
Ciò posto, si deve rilevare che la riformulazione del comma 5° dell’art. 73 (pur nella conferma di tale opinabile assimilazione sanzionatoria già fatta propria dal DL. 23 dicembre 2013 n. 136 conv. in L. 21 febbraio 2014 n. 14) trasuda molteplici profili di incostituzionalità.
Al di là delle considerazioni generali, si ripresentano i dubbi di compatibilità con l’art. 77 comma 2° Cost. per il ricorso alla decretazione di urgenza in una materia come quella dell’ipotesi di lieve entità, modificata dall’art. 1 comma 24 ter DL 36/2014, atteso che non si comprende quali siano le effettive ragioni di impellenza ed indifferibilità che abbiano consigliato l’adozione l’inserimento di tale disposizione in un contesto variegato e di maggiore ampiezza .
Non si dimentichi che l’intervento modificativo, prescindendo dal palese sospetto di incostituzionalità di merito, appare insipiente, se non – addirittura – inutile perchè si limita a ridurre i minimi e di massimi edittali di una pena.
Né si può seriamente sostenere che la diminuzione del massimo edittale da 5 a 4 anni, pur determinando la non più assoggettabilità alla applicazione di misura cautelari, ma comunque, la permanenza della possibilità di arresto della fattispecie, costituisse una modifica da attuarsi con un urgenza assoluta e solo con il mezzo del decreto legge4.
Ulteriore profilo di contrasto della norma – sotto il profilo dalla logica e della ragionevolezza- involge l’art. 3 Cost. .
  1. L’ipotesi lieve governa una situazione di fatto, la quale differisce dall’ipotesi ordinaria solamente in funzione di un giudizio soggettivo di minima offensività della condotta, che si esprime attraverso parametri tipicizzati.
  2. L’incipit “Salvo che il fatto costituisca più grave reato” [che è stato introdotto quale elemento qualificante la natura di reato autonomo in luogo di circostanza aggravante, (cfr. Cass. Sez. Terza sent. 16029 17 aprile 2014 e Sesta sent. 14288 26 marzo 2014)] appare sintomatico indice della strettissima ed intima sintonia ed analogia sia fattuale che giuridica che intercorre fra le fattispecie contemplate ai commi 1, 4 e 5 dell’art. 73.
  3. Di particolare rilievo, se non risolutiva, nel senso della fondatezza della tesi di incostituzionalità che si prospetta, appare, poi, la formulazione del precetto “Chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo…”, posto che tale perifrasi dimostra che non vi è alcuna differenza materiale in ordine alle condotte ritenute penalmente rilevanti dal comma 5, rispetto a quelle previste dai commi 1 e 4.
Se, dunque, non è ravvisabile alcuna significativa differenza tra il reato concernente le condotte di lieve entità e quello contenuto nel testo riguardante l’ipotesi ordinaria di base dell’art. 73, non pare affatto accettabile, nè condivisibile la scelta di adottare un parametro sanzionatorio ad hoc per l’ipotesi di lieve entità.
Ad avviso di chi scrive, risulta illogico e contrario a principi di giustizia sostanziale che l’impostazione fondamentale, che individua – in relazione al reato base - una duplicazione di sanzioni, stabilendo una pena ad hoc per le sostanze inserite in specifiche tabelle riguardo al caso concreto, subisca una deroga in dipendenza di un giudizio successivo, che involge il livello puramente soggettivo di gravità del fatto stesso.
Ci troviamo di innanzi ad una norma (l’art. 73) che, esaminata nella sua complessività, si manifesta, quindi, come tutt’altro che coerente sul piano della metodica sanzionatoria.
Il discrimine riguardante l’offensività di sostanze tra loro differenti (che si traduce in concreto in trattamento sanzionatori diversi) deve costituire un principio di natura permanente e costante, che non può patire eccezioni di sorta, soprattutto se le eccezioni discendono da elementi accidentali del reato, i quali non inficiano la struttura sostanziale della fattispecie.
Il comma 5° è un reato minor, ma è pur sempre (sia materialmente, che formalmente) il medesimo reato descritto nei comma 1 e 4 dell’art. 73, perché medesime sono le condotte materiali.
Altro argomento che, reputo, merita essere considerato a sostegno della critica che si avanza, si desume dal ripristino di una pluralità di tabelle, all’interno della quale collocare – separatamente – le singole sostanze.
La circostanza che la cannabis sia stata inserita nella tabella II, conferma, infatti, la differenza e di tale sostanza da quelle inserite nella tabella I (per definizione droghe pesanti).
La distinzione, così, operata, non risponde (né può rispondere) ad un mero canone di carattere formale, bensì esso è elemento di base e costitutivo delle previsioni sanzionatorie contenute nell’art. 73 co. 1 e co. 4, posto che ciascuna di tali disposizioni opera un preciso ed in equivoco riferimento tabellare , l’una alla tabella I, l’altra alla tabella II.
Il doppio binario venutosi, così, a creare per la scelta legislativa in commento, non appare, quindi, affatto fondato e giustificato.
 

3. IL RECUPERO DEL COMMA 5 BIS
5.
 
Un effetto deleterio, indiretto, della decisione della Corte Costituzionale era consistito nella abrogazione dell’art. 73 comma 5 bis , norma che introduceva misure alternative al carcere, in relazione a condanne che fossero state pronunziate, in relazione a vicende rientranti nel contesto della lieve entità, che avessero visto come imputate persone tossicodipendenti o assuntrici di sostanze psicoattive.
Nella più generale ed ampia visione ed impostazione che mira ad introdurre nel nostro sistema penale forme alternative al carcere sia di natura preventiva (ad esempio la messa alla prova di cui all’art. 168 bis e segg. c.p., prevista dalla L. 67 del 28 aprile 2014 , che si palesa come metodo di definizione del giudizio in sostituzione delle altre ipotesi di celebrazione dello stesso), che successive al vero e proprio giudizio penale (ad esempio il comma 9 bis dell’art. 186 o il comma 8 bis dell’art. 187 CdS), il recupero di questo istituto – che rientra indubbiamente nella categoria dei rimedi successivi determinando la conversione di una pena inflitta – appare una scelta condivisibile.
Per vero, si deve rilevare che la previsione del comma 5 bis, non aveva avuto una capillare applicazione in questi anni, ottenendo un apprezzamento indubbiamente inferiore alle attese createsi.
Il nuovo tentativo di prevedere, in ipotesi di impossibilità di riconoscere all’imputato la sospensione condizionale della pena che gli venga inflitta, una soluzione che precluda l’accesso al carcere, pare meritevole, comunque, di sostegno.
Circoscrivere tale opzione ai soli fatti di lieve entità, pare – ad avviso dello scrivente – un’opzione corretta, in quanto marca in modo preciso il valore del reato di cui al comma 5°, che spesso, è assunto come discutibile formula definitoria di carattere compromissorio di situazioni borderline, vale a dire episodi posti sullo spartiacque tra liceità ed illiceità.
 
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1 ("1-bis. Ai fini dell’accertamento della destinazione ad uso esclusivamente personale della sostanza stupefacente o psicotropa o del medicinale di cui al comma 1, si tiene conto delle seguenti circostanze:
a) che la quantità di sostanza stupefacente o psicotropa non sia superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro della giustizia, sentita la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per le politiche antidroga, nonché della modalità di presentazione delle sostanze stupefacenti o psicotrope, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato ovvero ad altre circostanze dell’azione, da cui risulti che le sostanze sono destinate ad un uso esclusivamente personale;
b) che i medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella dei medicinali, sezioni A, B, C e D, non eccedano il quantitativo prescritto”).
2 (Art. 73 comma 1-bis. “..Con le medesime pene di cui al comma 1 è punito chiunque, senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:
a) sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento nazionale per le politiche antidroga-, ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell'azione, appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale;
b) medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A, che eccedono il quantitativo prescritto. In questa ultima ipotesi, le pene suddette sono diminuite da un terzo alla metà”)
3Cfr. VIGANO’ Convertito in legge il d.l. n. 36/2014 in materia di disciplina degli stupefacenti, con nuove modifiche (tra l'altro) al quinto comma dell'art. 73 in www.dirittopenalecontemporaneo.it
4 Chiunque operi nell’ambito forense sa perfettamente che la qualificazione di un fatto come sussumibile nell’ipotesi del comma 5° dell’art. 73 è un’operazione che, nella stragrande maggioranza dei casi avviene solamente a seguito di un giudizio (di convalida dell’arresto, oppure dibattimentale od ancora preliminare) e bene raramente esso avviene da parte dei verbalizzanti in sede di arresto dell’indagato. Le ff.oo. usualmente contestano la violazione dell’art. 73 co. 1 o 4, lasciando al magistrato le ulteriori determinazioni, ma, intanto, l’indagato viene arrestato, checché ne dicano alcuni parlamentari.
5 5-bis. Nell’ipotesi di cui al comma 5, limitatamente ai reati di cui al presente articolo commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, su richiesta dell’imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste. Con la sentenza il giudice incarica l’ufficio locale di esecuzione penale esterna di verificare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. L’ufficio riferisce periodicamente al giudice. In deroga a quanto disposto dal citato articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata. Esso può essere disposto anche nelle strutture private autorizzate ai sensi dell’articolo 116, previo consenso delle stesse. In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, in deroga a quanto previsto dal citato articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000, su richiesta del pubblico ministero o d’ufficio, il giudice che procede, o quello dell’esecuzione, con le formalità di cui all’articolo 666 del codice di procedura penale, tenuto conto dell’entità dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena con conseguente ripristino di quella sostituita. Avverso tale provvedimento di revoca è ammesso ricorso per cassazione, che non ha effetto sospensivo. Il lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena per non più di due volte".
 

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