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Cooperanti umanitari: non sono l'obiettivo, ma lo sono
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Articolo di Redazione
21 agosto 2017 10:24
 
 “Lo scorso mese di gennaio a Walikale abbiamo trovato 122 donne della stessa popolazione. Tutte erano state violentate”. Dalla Repubblica Democratica del Congo, Marit de Wit scriveva queste parole solo alcune settimane fa. La sua testimonianza ricordava con dolore la violenza che soffre la popolazione e (spesso) anche i cooperanti degli aiuti umanitari nel Paese africano. Per disgrazia, questo tipo di attacchi si manifestano in diverse parti del Pianeta. In Afghanistan, 3498 civili sono morti nel 2016. Tra loro, 923 erano bambini, ha fatto sapere l’ONU a febbraio scorso. Il capo della missione delle Nazioni Unite in quel Paese, Tadamichi Yamamoto, aveva chiesto a coloro che erano coinvolti nel conflitto che smettessero di combattere nelle zone abitate e che non usassero luoghi come le scuole o i centri sanitari. Lungi dal farlo, lo scorso marzo, dei terroristi dell’ISIS sono entrati nonostante l’opposizione dei medici nell’ospedale piu’ grande di Kabul, con 400 letti, ed hanno sparato in modo indiscriminato contro colo che erano li’. Almeno 38 perone sono state assassinate. In Siria, le vittime innocenti sono storie di tutti i giorni.
Questo tipo di episodi dovrebbero finire, stando al messaggio che ha lanciato l’ONU nel Giorno mondiale dell’assistenza sanitaria, che si celebra il 19 agosto. “La popolazione civile non e’ l’obiettivo”, recita lo slogan di questa edizione nelle reti sociali, che lo hanno tradotto con l’hashtag #NotATarget.
Non sono esentati gli attacchi ai lavoratori umanitari ne’ ai luoghi dove si fanno attivita’ che servono solo a salvare delle vite. Ma entrambi sono obiettivi. Negli ultimi 20 anni, 4132 cooperanti in servizio sono stati attaccati, ricorda l’ONU. Secondo i dati che raccoglie ogni anno Aid Workers Security Report, nel 2016, 288 sono state le vittime di aggressioni gravi: 101 sono stati assassinati, 98 feriti e 89 sequestrati. La maggior parte di questi attacchi sono accaduti in cinque Paesi: Sudan del sud, Afghnistan, Siria, Repubblica Democratica del Congo e Somalia.
Soprattutto in uno di questi punti caldi del Pianeta, in Repubblica Democratica del Congo (RDC), dove lo spagnolo José Barahona dirige le attivita’ di Oxfam. “Diamo sostegno alle persone che sono colpite dal conflitto nel Paese. Nella zona est, ci sono circa 70 gruppi armati attivi ed ogni volta che ci sono scontri, le persone che vi vivono ne sono coinvolte”. E sono molte. “Ad oggi ci sono 3.600.000 sfollati all’interno, due milioni in piu’ rispetto a gennaio del 2016. Ci sono da aggiungere altri 400.000 che sono venuti da Paesi vicini come Sudan del sud e Burundi”, ci dice in una conversazione telefonica dalla RDC. Tutti necessitano di acqua, servizi igienici e cibo. “E le donne richiedono una speciale attenzione”. Queste si trasformano spesso in un campo di battaglia tra gruppi rivali e vengono abitualmente violentate.
Sembra facile ma aiutare e’ un lavoro “abbastanza a rischio in queste latitudini, dice Barahona. “La gente scappa a piedi per 20 o 30 Km dalla zone dei conflitti, per cui per aiutarla dobbiamo andare a cercarla nelle aree della violenza”. Nel frattempo, zone che un giorno son sicure, possono non esserle il giorno seguente. Soprattutto, sono frequenti i sequestri. Nel 2015, Oxfam ha registrato che almeno 148 cooperanti di questa e di altre ONG sono stati catturati da gruppi armati in alcune situazioni, solo nell’est del Paese. “Trattengono i nostri compagni per alcuni giorni per poter chiedere soldi in cambio” spiega lo spagnolo. Siccome le organizzazioni non pagano, assicura, come metodo c’e’ solo la negoziazione. E le comunita’ si convertono in alleate: “Esse stesse si impegnano per la liberazione perche’ hanno necessita’ degli aiuti che portiamo loro”.
La crisi degli sfollati in Kasai, nel sud della Repubblica Democratica del Congo, attrae quasi tutta l’attenzione e gli sforzi dell’ufficio regionale del Programma mondiale di alimentazione (PMA) in Africa del sud, diretto da Lola Castro.”Abbiamo potuto realizzare distribuzione di alimenti in Kasai per alcune migliaia di sfollati, ma ce ne sono almeno 1,4 milioni che non ne possono fruire”. Gli aiuti che diamo ad ognuno sono “come una goccia nell’oceano”. “Abbiamo bisogno di maggiore appoggio internazionale per questi conflitti dimenticati. Speriamo che la situazione si stabilizzi in modo da poter aiutare piu’ sfollati”, dice Castro.
Questi dati coincidono con quelli di Barahona. “Questo Paese soffre una crisi cronica dagli anni 90 ed e’ molto difficile attirare l’attenzione su cio’ che accade ogni anno, che e’ sempre peggio di quanto accaduto l’anno prima”. Ma i cooperanti umanitari non si possono dimenticare di chi vive nell’instabilita’ permanente e ci tengono ad impegnae la propria vita ogni volta sempre di piu’. Cosi’ proseguono, “affrontando l’equilibrio tra il dovere di assistenza e quello di proteggere gli altri cooperanti”, dice il responsabile di Oxfam. “Negli ultimi tempi abbiamo perso molti compagni in dei conflitti. E’ importante che tutte le parti in Kasai o Pool capiscano che i civili sono semplicemente colpiti e terrorizzati dalla situazione e i cooperanti non devono essere un obiettivo e bisogna rispettarli”, dice Castro.
Non sono l’obiettivo, ma sono certamente vittime della “violenza cieca”
In Centroamerica non c’e’ una guerra, ma e’ una delle regioni piu’ violente al mondo. Li’, Miguel Angel Garcia Arias dirige l’ufficio di Azione contro la fame per Guatemala e Nicaragua. “Qui la violenza e’ cieca, colpisce tutti nello stesso modo”. E dice che sia chiaro che la popolazione civile e i cooperanti non sono un obiettivo degli attacchi in una guerra, ma sono semplici vittime perche’ sono li’, in quel momento nel posto sbagliato.
“Ci rendiamo conto di essere particolarmente visibili, ma coloro che fanno le incursioni si concentrano su coloro che credono che abbiano qualcosa di valore”, spiega Garcia. Ma il personale delle ONG si converte in obiettivo di per se', non per il loro lavoro e per la loro appartenenza.
“Per esempio, un veicolo 4x4 e’ interessante per gli insorgenti, chiunque lo guidi”. Azione contro la fame, di fatto, ha sofferto il furto di un mezzo a Citta’ del Guatemala.
Questo tipo di rischi in una zona del mondo in cui gli assassinii sono numerosi, obbliga le organizzazioni ad avere norme di sicurezza, anche se il loro lavoro non ha nulla a che fare coi motivi dei conflitti. E’ il caso di Azione contro la fame, che lavora nel corridoio dove le siccita’, principalmente per il fenomeno di El Nino durante gli ultimi tre anni, colpiscono le comunita’ contadine. Se diluvia e non c’e’ acqua, i fagioli e il mais non crescono, “e non si sa come fare a dar da mangiare alle proprie famiglie”, dice Garcia. Nella sua ricerca delle popolazioni piu’ colpite, i nonni coi nipotini a carico, persone disabili, bambini molto denutriti, corrono il pericolo di morire, le precauzioni di base non possono essere fornite di notte perche’ c’e’ il coprifuoco. Nel contempo devono stare attenti alle incursioni che ci sono in zona ed evitare i percorsi in cui questi vengono perpetrati.
Piu’ che i cooperanti, sono gli attivisti locali che sono nel mirino. Ricorda Garcia gli assassinii dei difensori dell’ambiente in questa regione. “Se si lotta per la protezione di un fiume in Guatemala, c’e’ un rischio enorme di essere soggetti a violenza”. Il responsabile di Azione contro la fame in Centroamerica non si dimentica la grande crisi umanitaria che, a parte il cambiamento climatico, e’ la scena piu’ importante in questa parte del mondo: quella dei migranti verso gli Usa. “Hanno bisogno di assistenza, soprattutto i bambini non accompagnati e le donne, e molte volte non la ricevono e sono vittime di abusi”. Come chiede in questo emblematico giorno dell’ONU, essi non dovrebbero essere un obiettivo, ma lo sono.

(articolo di Alejandra Agudo, pubblicato sul quotidiano El Pais del 19/08/2017)
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