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Cosa succede alle banche italiane?
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Articolo di Alessandro Pedone
6 luglio 2016 11:15
 
In queste ore è tornata alla ribalta il problema di Banca MPS in particolare, ma è tutto il comparto bancario che sta soffrendo moltissimo.
E' probabile che la soluzione al Monte dei Paschi di Siena venga trovata nelle prossime settimane (forse si dovrà attendere l'esito degli stress-test che potrà fornire un appiglio formale), ma è probabile che – in un modo o nell'altro – la soluzione verrà trovata. In questo contesto politico credo che nessuno, in Italia e in Europa, voglia far saltare una banca sistemica. Le soluzioni tecniche ci sono, senza azionare il bail-in, e la ragionevolezza porta a concludere che verranno utilizzate. Ma la domanda è: sarà sufficiente? Per rispondere è utile fare un'analisi un po' più approfondita.Il grafico che segue mostra l'andamento di tutte le banche quotate a piazza affari negli ultimi 10 anni.

Osserviamo tre periodi.
1) Da Novembre 2009 a Luglio 2012 il settore ha perso il 76%.
2) Da Luglio 2012 a Luglio 2015 il settore bancario ha messo in atto un recupero del 182%!
Sembra un recupero strabiliante, ma dopo aver perso il 76% del valore significa essere sempre a quotazioni ben lontane dai quelle di Novembre 2009.
3) Da Luglio 2015 ad oggi c'è stato un ulteriore crollo del 63% che al momento non mostra segnali di arresto.
 
Tutto il settore finanziario europeo, nell'ultimo anno, ha perso circa il 40%.
(particolare il caso di Deutsche Bank, la più grande banca tedesca, ed una delle più grandi banche al mondo che ha perso nell'ultimo anno quanto le banche italiane) ma l'Italia ha un problema specifico che – diversamente da altre nazioni – non è stato affrontato per tempo, si chiama: crediti in sofferenza.
Oltre 7 anni di andamento economico negativo (e gestioni con logiche clientelari) hanno creato nelle banche una quantità abnorme di crediti che non possono essere ripagati e che devono essere smaltiti al prezzo di una frazione del valore delle loro garanzie.
In genere questi crediti sono a bilancio già svalutati, ma è chiaro che il più probabile valore di realizzo è ancora inferiore e nessuno li comprerebbe mai ai prezzi di bilancio.
Comprare questo genere di crediti è un'operazione molto rischiosa. E' ovvio che servono molti anni per ritornare dell'investimento a causa della lentezza del sistema giudiziario italiano (e qui alcune norme sono state fatte dal Governo, ma è assai incerta l'efficacia). Inoltre è molto difficile verificare la qualità delle garanzie su un numero così frammentato di crediti.

I numeri
Girano molti numeri un po' a casaccio sia sulla stampa estera che italiana sull'entità del problema. Molto spesso i giornalisti che li pubblicano (ed ancora meno i lettori)  non conoscono la differenza, ad esempio, fra crediti deteriorati o crediti in sofferenza. Fra sofferenze lorde o nette, ecc.
I numeri ufficiali sono quelli della Banca d'Italia: abbiamo circa 360 miliardi di crediti deteriorati lordi su 1.990 miliardi di crediti complessivi nell'intero sistema bancario. Di questi, 220 miliardi sono crediti in sofferenza (cioè in stato di insolvenza, anche se non giudizialmente accertato) ed il resto sono inadempienze probabili, esposizioni scadute e/o sconfinanti deteriorate.
Questi crediti in sofferenza sono svalutati nei bilanci delle banche mediamente per il 45% circa.
La media dei tassi di recupero di queste sofferenze (tra esecuzioni immobiliari, concordati preventivi, fallimenti ed accordi stragiudiziali) si aggira intorno al 40%.
Ciò significa che ci sono circa 33 miliardi di euro di “buco” nei bilanci delle banche tra gli importi che hanno svalutato e quello che potrebbero sperare di recuperare se i tassi di recupero fossero in linea con quelli passati.
Chi compra questi crediti in sofferenza non li vuole pagare più del 20-25% (per le ragioni espresse sopra). Se fossero acquistati tutti al 25% le banche, nel loro complesso, avrebbero un buco pari al doppio: 66 miliardi di euro.
Coprire queste perdite significa fare aumenti di capitale il che significa tendere ad azzerare il valore dei vecchi azionisti. Questa è la ragione per la quale le azioni delle banche italiane vanno così male.

Un "whatever it takes" per il settore bancario
Fino ad oggi il governo si è mosso sempre in grave ritardo e quel poco che ha fatto l'ha fatto male. Tardi e male è stato il modus operandi all'epoca della così detta crisi dei titoli di stato periferici nel 2011. Ad un certo punto, Mario Draghi pronuncio la sua famosa frase: whatever it takes (a qualsiasi costo).
Ebbene, in questo contesto (nel quale il sistema bancario rappresenta la cinghia di trasmissione monetaria con l'economia reale) è indispensabile che si provveda ad una riedizione del whaever it takes applicato alla soluzione del problema delle banche. Mezzucci come il Fondo Atlante per tamponare le urgenze, sono – appunto – tamponi che non risolvono la questione, al massimo comprano un po' di tempo. Anche le capitalizzazioni fatte in passato, non risolvono il problema in maniera definitiva.
 
La soluzione definitiva richiede circa 60-80 miliardi di euro che potrebbero, in larga parte, essere recuperati attraverso lo smaltimento delle sofferenze e l'aumento del valore delle azioni delle banche risanate. Con 30-40 miliardi portiamo le sofferenze ad un livello ragionevole, ma non puliamo completamente i bilanci delle banche. Naturalmente queste cose le sappiamo da anni.
Se non si fanno è perché il problema è politico, ovvero di bilanciamento d'interessi. Due sono le problematiche politiche principali: il fronte esterno ed il fronte interno.
Sul fronte esterno abbiamo il problema delle norme europee sugli aiuti di stato e adesso sul così detto bail-in. Questo è il nodo sul quale si è innestato il pasticciaccio brutto delle 4 banche fatte saltare che potevano benissimo essere salvate. E' chiaro che dietro questo aspetto ci sono fortissimi interessi nazionali contrastanti oltre a interessi politici personali dei vari leader europei. E' molto probabile che questo aspetto possa essere superato a breve, evocando l'eccezionalità del momento legata alla Brexit. Dipenderà molto anche dalla forza politica del nostro governo in Europa.
Il problema interno riguarda il controllo delle banche risanate con i soldi pubblici.
E' un problema che dopo la crisi di Lehman Brothers negli USA hanno affrontato con feroci battaglie politiche (vinte, in sostanza, da banchieri, come probabilmente accadrà – purtroppo – anche in Italia se mai dovessimo arrivare a risolvere definitivamente la questione). Ogni volta che si sono presentati casi del genere (ci sono innumerevoli casi nella storia recente) si pone questo problema.Dal punto di vista del risanamento, il problema delle sofferenze si può gestire in forme tecniche diverse, ma dal punto di vista del controllo della banca, fa molta differenza se si utilizza questa o quella forma.

La soluzione definitiva è nella ripresa economia
Un provvedimento in stile “whatever it takes” per il sistema bancario darebbe un enorme stimolo all'economia, ma non sarebbe risolutivo se non si provvede anche a cambiare politica economica tornando a fare politiche autenticamente keynesiane che stimolino la domanda, in particolare in Italia dove abbiamo chiaramente una crisi economica sostanziale (1) che ormai dura da oltre sette anni e che è chiaramente una crisi di domanda. Gli spazi di manovra, con gli strumenti tradizionali, sono veramente limitati. Qui entriamo in un campo che esula dagli scopi di questo articolo, ma non posso esimermi da citare, almeno, la soluzione dei Certificati di Credito Fiscale (CCF). Una soluzione tecnicamente possibilissima, non convenzionale (come non convenzionale è la politica monetaria perseguita dalla banche centrali in questi anni), ma che richiede una capacità politica che probabilmente manca nel nostro paese. Solo per far capire come la soluzione sia tecnicamente fattibile, citiamo lo studio di Mediobanca che a fine 2015 ha dedicato 12 pagine a questi certificati elaborando anche l'impatto che avrebbero nella crescita del PIL e nella riduzione del rapporto Debito/PIL. I CCF sarebbero in grado di ridurre il Debito/PIL dall'attuale oltre 130% al'111% nel 2019. La crescita del PIL attesa nei primi due anni d'introduzione di questi strumenti è nell'ordine del 3% annuo! L'introduzione dei CCF con il risanamento del sistema bancario aprirebbe una fase completamente nuova dell'economia e della finanza. Sono soluzioni tecnicamente possibili, possibilissime, ma richiedono capacità di visione e forza politica del quale sembriamo gravemente sprovvisti.

No alle soluzioni caso-per-caso
Tornando al sistema bancario, le soluzioni che non faranno altro che comprare tempo saranno le soluzioni “caso per caso”. E' molto probabile, come abbiamo scritto in apertura,  che MPS venga di nuovo salvata dalla mano pubblica. Se ciò accadrà, naturalmente, sarà un male minore, rispetto a lasciarla al suo destino. Sul piano sistemico, invece, significa alimentare la caccia al “prossimo da salvare” per continuare la speculazione. Continuerà il clima d'incertezza sistemica che non potrà che peggiorare l'andamento economico il quale alimenterà la ripresa delle sofferenze bancarie in un circolo vizioso.
Salvare le banche, caso per caso, servirà a comprare tempo, ma aumenterà il costo della soluzione definitiva.
Abbiamo già visto questo modello comportamentale in atto con la crisi della Grecia. Salvare la Grecia all'inizio avrebbe richiesto qualche decina di miliardi di euro. Alla fine ne abbiamo spese, complessivamente, centinaia e non abbiamo risolto nulla.
Lo stesso può accadere con le banche. Fino a quando il problema è circoscritto al vero problema, quello delle sofferenze bancarie, allora si tratta di una questione molto rilevante, ma più che gestibile. Ma il problema può allargarsi e prendere direzioni del tutto imprevedibili e molto più grandi  portandoci dritti dritti in una nuova recessione che potrebbe essere anche peggiore di quella da poco passata. A quel punto si dovranno salvare senza dubbio le banche, ma i costi saranno molto più alti.


Note:
(1) In senso strettamente tecnico la crisi economica è quando il PIL decresce. Non tutti questi sette anni hanno visto il PIL decrescere. Sul piano sostanziale, invece, ciò che conta è il ritorno ai livelli di PIL e occupazioni pre-crisi. Su questo fronte siamo largamente indietro e si può dire che, sostanzialmente, l'Italia non sia mai uscita dalla crisi economica. 
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