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Italia di ieri e di oggi. "La dolce vita" ed il "Grand Hotel"
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Articolo di Giuseppe Parisi
1 giugno 2007 0:00
 
Qualche anno fa mi trovavo in una meravigliosa spiaggia dorata, con tante palme, in Thailandia. Arroventato sotto due soli sorseggiando una birra di produzione locale. Come ogni Paese che vive di turismo, anche in Thailandia volteggiavano sulla spiaggia venditori di tutto, oltre alle praticanti del tradizionale massaggio Thai.
Ad un certo punto, dietro di me, sentivo qualcuno con un "pesante" accento romanesco. Si affannava invano nel cercare di farsi comprendere e di comprendere la graziosissima ragazza che avrebbe dovuto praticargli il tradizionale massaggio Thai. La scena era al limite del buffo. Lo aiutai e mi accorsi che la ragazza era molto piu' carina di quanto pensassi.
Quando il giorno dopo lo rividi, nello stesso punto del giorno prima, fu lui che mi chiese da dove venivo. Fu cosi' che diventammo amici.
Seppi cosi' che quell'amico, dall'aspetto robusto con la testa pelata, non aveva avuto un passato da gerarca fascista, ma, dal 1959 al 1976 era stato il caporedattore della rivista "Grand Hotel".
Una rivista che non avevo letto mai, anche se una mia zia, sorella di una mia nonna, non se la faceva mai mancare. A me sembrava piu' un album fotografico che altro, e lo dissi all'ex caporedattore, tanto che fece una scoppiettante risata.

Ma quella rivista doveva essere proprio cosi', per legare l'immagine ai desideri della gente di allora. Fatto sta che, dagli anni 1960 al 1972, era la seconda rivista in tiratura e vendite, dopo "Famiglia Cristiana". Merito della Dc (Democrazia Cristiana) -gli chiesi. Lui rispose di si', ma io mi riferivo a "Famiglia Cristiana", mentre il caporedattore aveva compreso "Grand Hotel". Ma quell'equivoco fu propizio. Incalzai chiedendo: in quale aiuto la Dc? Creo' il "sogno italiano", quello di ricchezza, mondanita', lusso, notti bianche, champagne ed ostriche e caviale.
Avevo compreso cosa volesse dire.

Erano gli anni del dopoguerra, ci eravamo lasciati alle spalle grandi privazioni, e nella mente e nel cuore della gente albergava una sottile speranza, quella di una vita diversa e migliore.
I sentimenti comuni del dopoguerra non erano molto lontani dai quelli della Roma di due secoli prima. In quel lontano 1848, con la Repubblica romana della "Giovane Italia" mazziniana soffocata dai francesi, ansiosi di rimettere il potere temporale nelle mani del Papa Re, che nel frattempo era fuggito a Gaeta (Leone IX). Erano momenti di grande novita', di desiderio del nuovo, di rimuovere il vecchio, di aprirsi a nuove frontiere.
Sappiamo che l'acceso "liberismo" mazziniano non ebbe seguito, e Roma ripiombo' nella grottesca oscurita' medievale papale. Ma quella nuova realta' non si perdette, tanto che duro' pochi decenni. Alla fine del 1800 lo scontro tra il Re e il Papa, sui termini del potere temporale, era storia gia' fatta.
Roma era ormai cambiata, viveva una mondanita' strabiliante, assente dai tempi del classicismo dell'antica Roma e dei suoi splendori. Nascevano a misura d'occhio i caffe', i ritrovi, i teatri, i circoli letterali, le gallerie d'arte, tante altre esposizioni e quant'altro poteva offrire occasione di ritrovo interpersonale.
Ampio slancio seppe orchestrare anche la famiglia Reale. Offertasi intelligentemente a regia di quella mondanita' nascente, soprattutto con la Regina Margherita, alla quale dedicarono un teatro (il salone Margherita) e il nome di una Pizza, la Margherita per l'appunto.
E sappiamo come le passioni di Gabriele D'annunzio, trasferitosi a Roma, contrastavano tremendamente con la rozzezza dell'agro circostante la capitale, che Giuseppe Gioacchino Belli ha tanto brillantemente narrata.

La Roma del "Grand Hotel" era, anche se con i medesimi contrasti, proveniente da una situazione diversa, quella della guerra mondiale. Ma la mondanita' ed il benessere ricercato erano decisamente similari.
Un uomo di Rimini, di professione vignettista, si era trasferito a Roma arrivandoci in treno a 19 anni. Si chiamava Federico, Federico Fellini. A Roma viveva quel cambiamento e lo avvertiva sulla pelle. La sua fortuna fu quando nacque, in via Tuscolana, Cinecitta'.
Cinecitta' cambio' la vita di Fellini, e non solo di Roma e di tutta Italia, ma di buona parte del mondo.
Fellini giro' tutto il film "La dolce vita" negli studi di Cinecitta', in via Tuscolana . Aveva intravisto bene. Era maestro nel "montaggio" di quelle emozioni, la transizione che quella societa' stava vivendo. Cinecitta' fece la Storia dell'Italia e la immortalo' nelle colline di cartone e nelle montagne di latta.
Gli americani avevano conosciuto le bellezze di Roma grazie a Cinecitta'. I film dell'epoca del classicismo romano erano i piu' gettonati, anche se a volte sfioravano il ridicolo, come ad esempio Nerone Imperatore di Roma, che sedeva al Colosseo nella tribuna Imperiale mentre osservava la lotta tra due gladiatori. Il film andava bene per gli americani, ma non per noi, che sappiamo bene che al tempo di Nerone il Colosseo non esisteva nemmeno, e sul quel terreno c'era un lago che confinava con la sua Domus Aurea.

Nascevano molti interessi pseudo-culturali, e la lettura delle iniziative editoriali andavano a ruba: i fotoromanzi della Lancio (in via Cassia), ma ancor di piu' questo famoso "magazine" tanto ricco di fotografie e di "gossip", di bellezze e di mondanita', di sogni per tante ragazze e per le loro mamme.
Era il "Grand Hotel".

La societa' cambiava, nuovi modelli di vita
.
Mancando a Roma fonti di sviluppo, Cinecitta' e le iniziative editoriali rappresentavano, insieme all'edilizia selvaggia e speculativa, una notevole fonte di ricchezza.
Nascevano nuovi quartieri, ad esempio i Parioli, che sovrastava la seconda altura romana dopo quella di Castro Pretorio, la zona piu' elevata della citta'. E i Parioli furono palcoscenico di un fatto di cronaca che resto' sui giornali e sulle riviste di "gossip" per mesi e mesi e mesi . Ovviamente anche su "Grand Hotel".

Il fatto era accaduto al marchese Camillo Casati Stampa di Soncino e ad Anna Fallarono, divenuta marchesa per aver contratto matrimonio con il marchese Camillo. L'allarme alla questura arrivò verso le 22 di domenica 30 agosto 1970. Il capo della mobile, per prima entrato nell'attico di un prestigioso palazzo in via Puccini, ai Parioli, vide una brutta scena. Tre corpi senza vita, quello di Anna seduta con le gambe incrociate sulla poltrona, con lo sguardo ancora incredulo, un giovane di 25 anni (Massimo Minorenti), e il marchese con la testa sfondata da un colpo di fucile.
La storia prese giorno dopo giorno, settimane dopo settimane, contorni sempre piu' delineati e curiosi, fino a divenire morbosi.

In ogni caso, il delitto di via Puccini ci interessa anche per la fine che ebbe, perche' l'esistenza dei protagonisti rievoca non solo Roma e i suoi costumi, ma buona parte dell'Italia negli anni che seguirono le angustie della guerra, quando cominciava a diffondersi il benessere portato dal boom economico e l'agiatezza sembrava d'improvviso una meta alla portata di chiunque avesse sufficiente abilita' o fortuna o spregiudicatezza per raggiungerla; o, talvolta, anche solo la bellezza.

Difatti buona parte dei protagonisti di questa vicenda furono belli e spregiudicati. Anna, la bellezza l'aveva usata sufficientemente bene. Figlia di famiglia non agiata, della provincia di Benevento, da ragazza si era trasferita a Roma in cerca di un futuro migliore. Era di una bellezza ricercata, una "maggiorata" come andavano di moda in quel periodo, forse un modo di esorcizzare le forme scarnite dalla fame della guerra mondiale. Il Marchese ed Anna si erano conosciuti e Camillo era rimasto folgorato dalla bellezza di questa giovane. Ma il loro era un rapporto strano, figlio di quella agiatezza che Roma, andava vivendo, e che i "media" immortalavano nella loro maniera. In sostanza, il marchese era un voyeur e desiderava che la sua Anna si accoppiasse con sconosciuti per "farsi felici" a vicenda. Questa storia, ando' avanti per tanti anni, con Anna che si accoppiava con chi il marchese aveva scelto per lei. Entrambi erano felici cosi'. Ma un giorno accadde che Anna si innamoro di questo Massimo Minorenti, e questo porto' alla furia omicida del marchese.
I riscontri criminali e psicologici non avevano nulla di nuovo. La creativita' dei voyeur comporta una analisi abbastanza semplice, si sa bene che il loro "gioco" rischia di divenire omicida se contrario alla loro volonta'.
Era proprio accaduto questo, Anna si era innamorata, ed il marito, non potendo essere geloso, era divenuto omicida. Sembra che Anna, alla fine, avesse voluto perfino separarsi.
I possedimenti immobiliari del marchese erano immensi, tra i quali anche una sontuosa villa in Brianza, ad Arcore. La villa di Arcore era impreziosita da una collezione di quadri del Quattrocento e del Cinquecento, e da una biblioteca di 10 mila volumi.
Il marchese Camillo aveva avuto una figlia, Annamaria, da una ballerina napoletana che aveva sposato. All'epoca dei fatti, Annamaria aveva 19 anni, e in quel tempo si diveniva maggiorenni a ventuno. Solo questo fu basilare per cambiare l'intera vita di questa ingenua ragazza.
Il marchese, per sposare la bella Anna, si fece annullare il matrimonio dalla Sacra Rota. Il divorzio non esisteva, e chi poteva permetterselo pagava profumatissime indennita' alla Sacra Rota per ottenere il "divorzio di Classe".

Dopo la morte del marchese, il notaio incaricato lesse il testamento che lasciava erede universale la medesima Anna, e quindi la figlia avuta con la ballerina napoletana, Annamaria. I famigliari di Anna tentarono invano di sostenere che se Anna fosse morta anche solo un istante dopo il marchese, erano loro gli eredi di quella straordinaria ricchezza. Ma le perizie medico legali rilevarono che il marchese era morto per ultimo, per cui l'unica erede rimaneva la figlia del primo letto, Annamaria, nata a Roma nel 1951.
In questa delicata vicenda la famiglia di Anna e' assistita da un avvocato, Cesare Previti, nato a Reggio Calabria nel 1934, simpatizzante neofascista come suo padre Umberto, commercialista, buon amico della sorella di Anna. L'avvocato Previti, benche' rappresenti gli interessi dei Fallarono, la famiglia della defunta Anna, contatta la giovane Annamaria offrendole la propria assistenza. Sconvolta dalla tragedia, la ragazza ingenuamente accetta.
In seguito Previti diventa difensore e tutore della ragazza in caso di controversia con il Tutore legittimo nominato dal Tribunale di Milano.
Sconvolta dai fatti, Annamaria lascia Roma e va a vivere a Brasilia, nel Brasile, dove si sposera'. Una volta divenuta maggiorenne, e' investita da numerose incombenze dell'Erario di Stato e imposte di successione. Pertanto Annamaria incarica Previti di vendere la villa di Arcore, ad esclusione della pinacoteca, della biblioteca e dei terreni circostanti.
Nel 1974 Previti le telefona a Brasilia, ha concluso l'affare, ha venduto la villa per la sontuosa somma di mezzo miliardo di Lire. Ed ha venduto la villa al completo. Villa piu' quadri (tele del Quattrocento e del Cinquecento) oltre a un magnifico ritratto di Anna Fallarino (opera di Pietro Annigoni [1], giudicato dai critici opera notevole), biblioteca (10 mila volumi antichi), arredi, un parco immenso, per 500 milioni di Lire.
Annamaria, dal Brasile, non si rende nemmeno conto che con quella somma, in quel tempo, si poteva al massimo acquistare un appartamento in una zona centrale di Milano.
L'acquirente, due giorni dopo l'acquisto, si insedia nella sua villa di Arcore. Non paga subito le somme, ma le dilaziona in lunghissime rate, coincidenti con le scadenze fiscali di Annamaria Casati, nonche' con le numerose pendenze verso l'Erario del suo defunto padre Camillo.
Annamaria, continuera' a pagare anche le tasse di proprieta' fino al 1980, quando il 2 ottobre, finalmente, verra' stipulato l'atto di vendita in questi termini: "Casa di abitazione con circostanti fabbricati rurali e terreni a varia destinazione". Questa casa rurale, pagata a rate, cinquecento milioni di Lire, sara' ritenuta dalla Cariplo, garanzia sufficiente per l'erogazione di un prestito di sette miliardi di Lire.
L'inquilino di villa di Arcore fu il costruttore edile Silvio Berlusconi.
Bellezza o spregiudicatezza?

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