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 ITALIA - ITALIA - Documentario sui campi di detenzione in Libia: guardie vendono immigrati come schiavi
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7 novembre 2009 9:06
 
Quarantotto ore in un container, stipati anche in 120, per raggiungere un centro "di accoglienza" nel quale non sono rari i casi di violenza sessuale, da parte delle guardie su chi è detenuto, e dal quale il modo piú rapido per uscire è quello di essere venduto ai trafficanti. E' quello che aspetta gli immigrati che vengono respinti nelle acque internazionali verso la Libia, secondo la denuncia di Andrea Segre, uno degli autori del film-denuncia 'Come un uomo sulla terra', un documento che raccoglie le testimonianze dirette di tanti migranti che quel tipo di accoglienza lo hanno vissuto sulla propria pelle. "Con i respingimenti gli sbarchi sono diminuiti - spiega il regista- da 19.000 a 1.900. Detto cosí sembra un successo, ma bisogna capire che quegli oltre 17mila che mancano all'appello non sono scomparsi, ma sono finiti in questo circuito dei centri libici".
Il film, che ha trovato poco spazio nelle sale cinematografiche, ma ha vinto il premio come miglior documentario al Salina DocFest 2009 e anche all'Arcipelago Film Festival di Roma, è stato proiettato, spiega Segre, in molti circoli, sedi Caritas e associazioni. Tanto che è già stato visto, racconta, da oltre 400mila persone. La casa editrice Grandangolo lo ha ristampato ed è tornato nelle librerie corredato di un libro, che presenta una serie di dati e integra il filmato.
Il documentario sembra una risposta per il ministro dell'Interno Roberto Maroni che questa mattina, presentando i risultati dell'azione di governo contro la mafia alla stampa estera, ha spiegato: "Io sono stato a visitare i centri della Libia. Sono centri, quelli che ho visto io, in cui ci sono condizioni non dissimili da quelle di tanti centri di altri paesi europei". "Non è cosí", spiega Segre. "Abbiamo raccolto almeno 50 testimonianze di persone che sono state dentro questi centri di detenzione, dieci delle quali figurano nel film. Sono centri sovraffollati, dove 50-60 persone vengono stipate dentro una stanza di 12-13 metri quadri. Ci hanno raccontato vari episodi di violenza sessuale, sia su uomini che su donne, da parte delle guardie. Non c'è alcun tipo di percorso legale e spesso non viene fatta neanche l'identificazione della persona. Un ragazzo ci ha raccontato che tutti i giorni all'appello dava un nome diverso, e tutti i giorni veniva segnato sul registro col nuovo nome. Lui è etiope e ogni giorno rispondeva all'appello con il nome del giorno della settimana nella sua lingua, l'amarico. Insomma lunedí diceva di chiamarsi Lunedí, martedí, Martedí, e cosí via. Le guardie non se ne sono mai accorte".
"Ma la cosa piú sconcertante - prosegue Segre - è che spesso le guardie vendono i detenuti a trafficanti di schiavi, che li caricano nel camion e che li portano nel nord del Paese.
Dopodich‚ ne fanno ció che vogliono: dalla prostituzione a varie attività criminali". E questo è uno dei modi piú rapido per uscire perch‚ altrimenti, puó capitare di rimanere chiusi in un centro di questo tipo anche per due-tre anni. Capita, spiega il regista, soprattutto ad eritrei e somali. Molti infatti vengono rimpatriati nei paesi di origine grazie ad accordi diretti tra la Libia e questi paesi. In alcuni casi, come quello dell'Eritrea e della Somalia, questi accordi non ci sono.
Dopo aver pubblicato il film, il gruppo di autori che lo ha realizzato, insieme a Gabriele Del Grande, un giovane giornalista che cura "Fortress Europe", un blog molto curato dedicato alle vicende dei migranti, ha dato vita a una raccolta di firme per chiedere una commissione di inchiesta sui centri in Libia e sulle responsabilità dell'Italia rispetto a questo fenomeno. Sono già 20mila le firme raccolte e martedí 10 il gruppo, annuncia Segre, le consegnerà alla rappresentanza in Italia del Parlamento e della Commissione europea.
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