testata ADUC
Analisi della sentenza della Cassazione sul caso Englaro
Scarica e stampa il PDF
Articolo di Maria Di Chio
8 novembre 2007 0:00
 
Ringraziamo l'associazione LiberaUscita per averci inviato questo articolo.

La sentenza della Cassazione inizia ricostruendo la storia delle sentenze su Eluana.
Ecco l’iter.

A) Il Tribunale di Lecco con decreto 2 /2/2006 ha dichiarato inammissibile il ricorso di Beppino Englaro, con il quale chiedeva per sua figlia Eluana l’emanazione di un ordine di interruzione dell’alimentazione forzata mediante sondino nasogastrico, per i seguenti motivi:
1) né il tutore né il curatore speciale possono chiedere l’interruzione dell’alimentazione, perché tale domanda rientra nei diritti personalissimi, per i quali il nostro ordinamento giuridico non ammette la rappresentanza;
2) anche se il tutore e il curatore potessero farlo, la domanda dovrebbe essere rigettata, perché contrasta con i principi espressi dalla Costituzione (art. 2: doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; art. 32: la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività). In base agli art. 13 e 32 della Costituzione ogni persona capace di intendere e volere può rifiutare qualsiasi trattamento terapeutico e nutrizionale fortemente invasivo, anche se necessario alla sua sopravvivenza. Ma se la persona non è capace, il conflitto tra diritto di libertà e di autodeterminazione e diritto alla vita è solo ipotetico e deve risolversi a favore di quest’ultimo. Infatti, non potendo la persona esprimere alcuna volontà, non vi è alcun profilo di autodeterminazione o di libertà da tutelare.

B) Contro tale decreto Beppino Englaro ha proposto reclamo alla Corte d’appello di Milano, chiedendo l’interruzione dell’alimentazione forzata, in quanto “ trattamento invasivo della sfera personale, perpetrato contro la dignità umana”.

C) La Corte d’appello con decreto 16/12/2006 ha dichiarato ammissibile il ricorso e lo ha rigettato nel merito per i seguenti motivi:
1) Ammissibile, perchè nel potere di “cura della persona”, conferito al rappresentante legale dell’incapace, deve essere compreso il diritto-dovere di esprimere il consenso informato alla terapia medica. Data la totale incapacità di Eluana e le gravi conseguenze dell’interruzione, il tutore o il curatore deve rivolgersi al giudice per ottenere l’interruzione.
2) Rigettato, perchè le dichiarazioni di Eluana riportate dai testimoni non possono avere il valore di una personale, consapevole ed attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione di causa. La Corte non ha condiviso la tesi del tutore che di fronte ad un trattamento medico, in questo caso l’alimentazione forzata, solo l’accertamento di una precisa volontà, espressa da Eluana, quando era cosciente, favorevole alla prosecuzione della vita ad ogni costo, potrebbe indurre a valutare come non degradante e non contrario alla dignità umana il trattamento, che oggi le viene imposto.
Inoltre l’interruzione dell’alimentazione equivarrebbe ad un’eutanasia indiretta omissiva. Secondo i giudici, non si possono accettare distinzioni tra vite degne e non degne di essere vissute, dovendosi far riferimento unicamente al bene vita costituzionalmente garantito, indipendentemente dalla qualità della vita stessa e dalle percezioni soggettive che di questa qualità si possono avere. Inoltre, poiché Eluana è sottoposta solo ad un trattamento di nutrizione che, indipendentemente dalle modalità invasive con cui viene eseguito, è sicuramente indispensabile e che, se sospeso, condurrebbe la stessa a morte, il giudice deve tener conto delle irreversibili conseguenze della sospensione, cioè la morte dell’incapace, e deve necessariamente operare un bilanciamento tra diritti parimenti garantiti dalla Costituzione, quali quello alla autodeterminazione e dignità della persona e quello alla vita. Questo bilanciamento “non può che risolversi a favore del diritto alla vita, se si osserva la collocazione sistematica (art.2) dello stesso, privilegiata rispetto agli altri (art. 13 e 32), all’interno della Costituzione.” Tanto più che, alla luce di disposizioni normative interne e convenzionali, la vita è un bene supremo, non essendo configurabile l’esistenza di un “diritto a morire” (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 29/4/2002 nel caso Pretty c. Regno Unito).
Commento: la tesi del tutore, per cui un trattamento medico che prolunga la vita può essere valutato non degradante e non contrario alla dignità umana, solo se l’incapace, quando era cosciente, ha espresso una precisa volontà per il proseguimento della vita ad ogni costo, è molto pericolosa, perché ammette che un trattamento mirante al prolungamento della vita possa essere oggettivamente considerato degradante, per cui, in mancanza di espressione della volontà del paziente, debba essere interrotto. Invece è chiaro che tale decisione deve essere del tutto soggettiva e personalissima, così come deve esserlo la valutazione del termine “ad ogni costo”. Bene ha fatto quindi la Corte a rifiutarla.

D) Beppino Englaro presenta ricorso alla Corte di Cassazione, chiedendo di affermare come principio di diritto il divieto di accanimento terapeutico, e cioè che nessuno debba subire trattamenti invasivi, anche se finalizzati al prolungamento artificiale della vita, senza che ne sia concretamente ed effettivamente verificata l’utilità e il beneficio.
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello ha frainteso e travisato il significato della indisponibilità ed irrinunciabilità del diritto alla vita. Tale indisponibilità e irrinunciabilità sono garantite per evitare che altri si arroghino arbitrariamente il diritto di interrompere la vita altrui, ma è sbagliato intendere l’indisponibilità della vita come un interesse altrui, pubblico o collettivo, sopraordinato e distinto da quello della persona che vive.
Del resto l’art.13 della Costituzione postula l’esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo E la giurisprudenza della Corte di Cassazione sul consenso informato ha chiarito che l’intervento del medico è di per sé legittimo solo se basato sul consenso libero ed informato del paziente. Perciò il diritto alla vita, proprio perché irrinunciabile ed indisponibile spetta solo al suo titolare e non può essere trasferito ad altri, che lo costringano a vivere. Quindi per Eluana non è questione di diritto alla vita, ma solo della legittimità delle decisioni di un uomo, solitamente il medico, di intervenire sul corpo di una persona per prolungarne la vita.
Per l’incapace ci deve essere l’esigenza di rango costituzionale che il trattamento invasivo della persona sia erogato sotto il diretto controllo dell’autorità giudiziaria, perché rientra nell’ambito dell’art.13 della Costituzione.
La Corte d’appello ha svolto sotto quest’aspetto un ragionamento contraddittorio: ha dichiarato ammissibile il ricorso del tutore, quindi ha riconosciuto che il trattamento invasivo di Eluana sia sottoposto al controllo dell’autorità giudiziaria, ma ha rifiutato di ammettere un limite all’intervento medico, quando il trattamento medico incida sul diritto alla vita.
Questa contraddizione nasce da un’impostazione errata, perché l’autolegittimazione del medico ad intervenire, anche per trattamenti necessari alla sopravvivenza, deve arrestarsi quando quei trattamenti si configurino come accanimento terapeutico. Quando il trattamento è sproporzionato, inutile, futile e non serve alla salute, esso esula dal concetto di cura e il medico non può praticarlo. Il ricorrente contrasta la tesi secondo cui, perché la conservazione della vita è un bene in sé, qualsiasi trattamento volto a tale scopo non potrebbe configurarsi come accanimento. Ma per Eluana il protrarsi della vita, non lo spegnersi, è artificiale, in quanto mero prodotto dell’azione che un uomo compie nella sfera individuale di un’altra persona.
Il medico deve astenersi da quei trattamenti che, pur suscettibili di prolungare il vivere, non rechino beneficio e utilità per il paziente, e consistano solo nel “sottrarlo all’esito naturale e fatale dello stato in cui si trova e nel forzarlo a mantenere talune funzioni vitali”. L’individualità umana, in cui si ripone “la dignità” degli art. 2-13-32 della Costituzione, andrebbe perduta se un’altra persona potesse illimitatamente ingerirsi nella sfera personale dell’incapace per manipolarla fino al punto di imporre il mantenimento di funzioni vitali altrimenti perdute.
L’accurata verifica dell’utilità o del beneficio del trattamento per chi lo subisce, andrebbe fatto proprio e soprattutto, quando il trattamento stesso miri a prolungare la vita, spostando le frontiere fra la vita e la morte.
Certo non si deve distinguere fra vite degne e non degne di essere vissute, ma non è la vita in sé suscettibile di essere indegna, lo è solo il protrarre artificialmente la vita, oltre quello che altrimenti avverrebbe, grazie all’intervento di altri.
Lo SVP è uno stato unico e differente da qualunque altro, non accostabile in alcun modo a stati di handicap o di minorità, ovvero a stati di eclissi della coscienza e volontà in potenza reversibili, come il coma. Nello stato di SVP , a differenza di altri, può darsi effettivamente il problema del riscontro di un qualunque beneficio o una qualunque utilità tangibile dei trattamenti o delle cure, solo finalizzate a posporre la morte sotto l’angolo visuale biologico.
Commento: ho sottolineato le parti più discutibili del ricorso, che si basa su due argomentazioni, l’accanimento terapeutico e il Consenso informato (c.i.), necessario perché un trattamento medico sia legittimo, come se esse si rafforzassero a vicenda. In realtà esse rientrano in due sfere diverse di ragionamento e di logica e accostarle in questo modo crea confusione. L’accanimento terapeutico, una volta riconosciuto da tutti gli interessati, poiché non lecito, dovrebbe immediatamente cessare e quindi dovrebbe essere interrotto ogni trattamento medico sproporzionato e futile. Il c.i. invece, poiché è il fondamento che legittima l’attività di cura del medico, è indispensabile per ogni trattamento, sia esso futile o no o necessario per la sopravvivenza, e non può venire meno se il rifiuto del trattamento pone in pericolo la sopravvivenza o ha sicuramente come conseguenza la morte del paziente. Infatti, e qui il ricorso ha ragione, l’indisponibilità della vita e quindi il diritto alla vita hanno lo scopo di difendere ognuno dall’aggressione altrui, per cui nessuno può togliere la vita ad un altro, in quanto esiste il dovere fondamentale di non uccidere, ma non implicano che il soggetto non possa esercitare la sua libertà e autodeterminazione, scegliendo di suicidarsi. Ora si tratta di decidere come l’incapace possa esprimere il suo c.i., e qui la sentenza della Corte d’appello, diversamente dal decreto del Tribunale di Lecco, riconosce al tutore il diritto-dovere del c.i. per l’incapace, di cui ha “la cura della persona”.
Quanto alla tesi dell’accanimento terapeutico, su cui il ricorso insiste, esso postula quello che ho sottolineato, cioè che la condizione di SVP sia diversa da una qualsiasi altra condizione di invalidità, sia un vivere solo biologico, quindi degradante e contrario alla dignità umana, poiché la vita della persona coincide con l’attività della mente e la capacità di relazionarsi con il mondo esterno e gli altri. Si tratta di una concezione della vita basata sulla qualità della vita, che divide nettamente vita biologica da quella che viene chiamata biografica, o, se vogliamo, personale. La prima non è degna di essere vissuta, la seconda invece è degna e va salvaguardata. L’affermazione che il trattamento cui è sottoposta Eluana non le reca alcun beneficio e utilità, ma la sottrae solo all’esito naturale e fatale dello stato in cui si trova, è inesatta e viziata dal presupposto taciuto, cioè che la vita in SVP non sia vita degna di essere vissuta, che essa sia solo un prolungamento artificiale della vita, contrario alla dignità umana. Invece la persona in SVP non è un malato terminale, non è neppure un malato in senso stretto, ma un invalido gravissimo, il più grave nella scala delle invalidità. Infatti, se si interrompono l’alimentazione e idratazione artificiale, di cui ha bisogno perché non può muovere le mani e quasi sempre non può controllare la deglutizione, ma che assimila perfettamente perché le funzioni di assimilazione del cibo sono integre, morirà, non per il decorso di una sua ipotetica malattia, ma per denutrizione e disidratzione. Così è morta T. Schiavo dopo 14 giorni e con somministrazione di morfina, sebbene si dica che le persone in SVP non possono sentire fame, sete e dolore. L’alimentazione e idratazione forzate non hanno lo scopo di prolungare la vita, ma di evitare la morte per denutrizione e disidratazione, che è cosa disumana. Quando il ricorso parla di imporre il mantenimento di funzioni vitali altrimenti perdute, dice, in buona o mala fede, una cosa inesatta. Le funzioni vitali, necessarie appunto per vivere, sono conservate nel paziente in SVP, ciò che ha perso, (ma esiste un margine d’incertezza), è la coscienza di sé e del mondo esterno, coscienza, che probabilmente (ma non è certo) non recupererà più, soprattutto quando giace in tale condizione da molti anni.


Dopo aver ripercorso in questo modo l’iter giudiziario, la sentenza della Cassazione inizia affermando che in ordine logico è preliminare la questione delle dichiarazioni di Eluana, se corrispondano, in generale, ai suoi convincimenti sul significato della dignità della persona. La Corte collega questi convincimenti al tema del consenso informato. Infatti il consenso informato costituisce di norma legittimazione e fondamento del trattamento sanitario. Il principio del c.i. ha un sicuro fondamento nelle norme della Costituzione, art.2 e art. 13, che proclama l’inviolabilità della libertà personale. Rifiutare la terapia o interromperla è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione. Deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite se comporta il sacrificio del bene della vita. Il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Il diritto del singolo alla salute implica, come tutti i diritti di libertà, la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di non curarsi…di lasciarsi morire.
L’obbligo giuridico del medico di praticare e continuare la terapia cessa quando tale obbligo venga meno, e l’obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa quando il consenso viene meno, al suo posto s’impone il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure.
Il diritto di rifiutare trattamenti sanitari non si basa su un diritto generale ed astratto ad accelerare la morte, ma sul diritto all’integrità del corpo e a non subire interventi invasivi indesiderati.
Nel caso dell’incapace, superata l’urgenza dell’intervento medico derivante dallo stato di necessità, deve imporsi l’istanza personalistica alla base del principio del c.i. ed il principio di parità di trattamento fra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità. Si deve perciò ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione delle decisioni mediche: tra medico che deve informare e paziente, che attraverso il legale rappresentante possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati. La Corte ritiene che il tutore debba “prendersi cura” anche della salute dell’incapace e quindi dare il consenso ai trattamenti.
Ma l’intervento del rappresentante legale è sottoposto a limiti, connaturati nel fatto che la salute è un diritto personalissimo e che (Corte di Cassazione, ord. 20/4/2005, n. 8291) la libertà di rifiutare le cure “presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive.” Perciò il tutore è sottoposto a 2 vincoli: 1) deve agire nell’esclusivo interesse dell’incapace (best interest);
2) nella ricerca del best interest deve decidere con l’incapace.
Non v’è dubbio che la scelta del tutore deve essere a garanzia dell’incapace, quindi rivolta oggettivamente a preservarne e tutelarne la vita. Ma il tutore non può nemmeno trascurare l’idea di dignità della persona manifestata dall’incapace dinanzi ai problemi della vita e della morte.
Questa attenzione alle peculiari circostanze del caso concreto e soprattutto ai convincimenti espressi dal diretto interessato quando era capace, è costante, sia pure nella diversità dei percorsi argomentativi, nelle decisioni adottate in altri ordinamenti nella controversia per la sospensione delle cure per malati in SVP, in situazioni di mancanza di testamento di vita.
Qui la sentenza cita il caso Quinlan negli USA (1976), quando fu adottato il principio del substituted judgement test, per cui la Corte permise ai genitori di Karen la sospensione della ventilazione forzata alla figlia in SVP. (La sentenza non si sofferma, però, a dire che, poiché Karen, staccato il ventilatore, respirò in modo autonomo, i genitori non chiesero l’interruzione dell’alimentazione forzata, perché, secondo loro, era umanamente dovuta, e così Karen visse ancora molti anni, fino alla morte naturale. Il caso, con tutte le discussioni che lo accompagnarono, portò poi al riconoscimento legale delle direttive anticipate).
Caso Cruzan (1990): è quello che più assomiglia alla situazione di Eluana. Alla fine fu permessa l’interruzione dell’alimentazione e N. Cruzan morì.
Caso Bland (1993): di questo caso la Corte dice che l’House of Lords ha utilizzato la diversa tecnica del best interest, per arrivare alla conclusione secondo cui, in assenza di trattamenti autenticamente curativi e data l’impossibilità di recupero della coscienza, è contrario al miglior interesse del paziente protrarre l’alimentazione e idratazione artificiali, ritenuti trattamenti invasivi ingiustificati della sua sfera corporea. (La Corte non si dilunga, giustamente, sulla radicale differenza di questa sentenza rispetto a quelle di N. Cruzan o T. Schiavo, basate sull’espressione di volontà delle due pazienti, ricostruite tramite testimonianze, giudicate valide e sufficienti dai giudici. La sentenza su T. Bland non si basa sulla volontà del ragazzo, di cui non c’era nessuna testimonianza, ma sul fatto che l’interruzione del trattamento era nel miglior interesse del paziente. Ora è evidente che un paziente in SVP non ha più, data la natura della sua invalidità, un qualche interesse, di qualsiasi genere, può avere solo il diritto di continuare a vivere, alla pari di qualunque altra persona, indipendentemente dalla sua invalidità. Se si nega che vivere in quello stato sia nel miglior interesse dell’incapace e di conseguenza gli si nega il diritto alla vita, è solo perché si giudica quello stato inaccettabile e degradante. Si giudica, cioè, sulla base della qualità della vita, e solo alle vite qualitativamente degne si riconosce il diritto alla vita. Proprio per questo P. Singer esalta questa sentenza come il primo passo verso un capovolgimento di valori, per cui la sacralità, e quindi l’intangibilità, della vita umana, non viene più riconosciuta a qualsiasi essere umano, ma solo a quelli che rientrano nella definizione di “persona”).
La Corte non si dilunga in queste precisazioni, ma mostra di conoscere bene le implicazioni della sentenza Bland, infatti subito dopo (pag. 49, 7.5) afferma questo:
“Chi versa in SVP è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizione di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente.” Poi continua a sottolineare che il malato in SVP, la cui dignità di essere umano non è affatto diminuita, non deve essere abbandonato, ma ha diritto di pretendere cure e sostegno solidali fino alla morte, a prescindere da quanto la vita sia precaria e da quanta speranza vi sia di recuperare le funzioni cognitive.
Ma la Corte riconosce anche che vi sia chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritenga assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitivamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno. Proprio sulla base dei diritti costituzionali all’autodeterminazione e alla libertà, lo Stato non può che rispettare questi convincimenti e questa libertà di scelta. All’individuo che, prima di cadere nella condizione di SVP, abbia manifestato in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento, l’inaccettabilità per sé dell’idea di un corpo destinato grazie a terapie mediche a sopravvivere alla mente, l’ordinamento dà la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso il rappresentante legale. (Da notare l’importanza di questi elementi per ricostruire la volontà dell’incapace, infatti la Corte li ripeterà spesso nel corso della sentenza (pag.51, 52, 53, 55,57,58), consapevole della novità che essi introducono nel nostro ordinamento, che non riesce ancora a legalizzare le direttive anticipate, in cui le proprie scelte, ispirate ai propri valori e al proprio concetto di dignità, sono messe per iscritto e firmate.)
La Corte prende poi in considerazione l’idratazione e alimentazione artificiali con sondino nasogastrico e, allineandosi al parere della maggioranza della comunità scientifica internazionale, li dichiara trattamenti sanitari, così come sono stati riconosciuti dalla giurisprudenza nei casi Cruzan e Bland (e possiamo aggiungere Schiavo). Successivamente, però, aggiunge che “al giudice non può essere chiesto di ordinare il distacco del sondino nasogasrtico: una pretesa di tal fatta non è configurabile di fronte ad un trattamento sanitario, come quello di specie, che, in sé, non costituisce oggettivamente una forma di accanimento terapeutico e che rappresenta piuttosto un presidio proporzionato rivolto al mantenimento del soffio vitale, salvo che nell’imminenza della morte, l’organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze fornite o che sopraggiunga uno stato di intolleranza, clinicamente rilevabile, collegato alla particolare forma di alimentazione.” (E così la Corte rifiuta la tesi di Beppino Englaro che la figlia sia sottoposta ad accanimento terapeutico mediante l’idratazione e alimentazione artificiali).
Piuttosto l’intervento del giudice esprime una forma di controllo della legittimità della scelta nell’interesse dell’incapace e, basandosi sulla ragionevolezza derivata dalle circostanze del caso concreto, si manifesta autorizzando o meno la scelta del tutore.
Quindi la decisione del giudice, dato il coinvolgimento nella vicenda del diritto alla vita come bene supremo, può essere un’autorizzazione solo:
1) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno;
2) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato d’incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona.
Allorché l’una o l’altra condizione manchi, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato, dalla percezione che altri possano avere della qualità della vita stessa, nonché della mera logica utilitaristica dei costi e dei benefici.
In conclusione la Corte rileva che i giudici di appello hanno omesso di accertare se la richiesta di interruzione del trattamento, presentata dal padre in veste di tutore, riflettesse gli orientamenti di vita della figlia. Tale accertamento dovrà essere effettuato dal giudice del rinvio. Perciò la causa viene rinviata ad una diversa sezione della Corte d’appello di Milano, che dovrà decidere adeguandosi alle predette indicazioni della Cassazione.

Commento conclusivo
A questo punto possiamo fare qualche altra osservazione conclusiva, oltre a quelle già inserite nel corso della sintesi della sentenza.E’ evidente che tale sentenza conferma ulteriormente la legittimità del comportamento del dr. Riccio nei riguardi di Piergiorgio Welby. Affermando con forza e con gli adeguati riferimenti giuridici che il c.i. è il fondamento, che legittima l’intervento del medico sul paziente, e che l’obbligo della cura da parte del medico viene meno se manca o se viene revocato il c.i., si toglie ogni dubbio su ciò che il medico deve fare di fronte ad un paziente che rifiuta la terapia. Questo principio è valido anche per l’incapace, che, attraverso il suo rappresentante legale, può far valere la sua volontà, anche se non ha lasciato per iscritto disposizioni sui trattamenti che intende rifiutare, in determinate condizioni estreme.
La sentenza accetta la definizione dell’alimentazione e idratazione artificiali quali trattamenti sanitari, che si possono interrompere se il paziente li rifiuta o se risultano, a parere concorde dei medici, futili.
Nello stesso tempo nega che l’alimentazione e idratazione artificiale possano essere considerati espressione di accanimento terapeutico nei riguardi di una persona in condizione di SVP, anche se tale condizione dura da molto tempo e appare quasi certamente irreversibile. Ribadisce che la persona in SVP è persona a tutti gli effetti, che la sua vita non può essere considerata indegna di vivere e che la società ha il dovere di salvaguardarla e di prestarle tutte le cure necessarie fino alla morte naturale.
Con questa presa di posizione la Corte mostra di non condividere le seguenti linee guida, che nel settembre 1992 la Appleton International Conference, integrata da specialisti provenienti da 9 paesi, inclusi gli USA e la Gran Bretagna, ha stilato per raccomandare di lasciar morire i pazienti in SVP:
“Il paziente con diagnosi affidabile (da notare: affidabile!) di SVP non nutre interessi egoistici. Di conseguenza, a meno che non compaia la richiesta espressa in direttiva anticipata, non vi è un motivo attinente agli interessi del paziente affinché si prosegua con il trattamento che lo mantiene in vita, incluse l’alimentazione e l’idratazione artificiali. E’ crudele alimentare un ottimismo irrealistico ed è ingiusto permettere il consumo prolungato delle risorse sociali a sostegno di questi pazienti oltre un necessario periodo di educazione e adattamento per la famiglia. (all’idea della morte, ovviamente).
Desidero ringraziare la Corte per non avere accettato posizioni di questo genere.
A questo punto penso sia bene chiarire meglio la condizione di SVP, della quale spesso si parla, in buona o mala fede, in modo approssimativo ed emotivo. La diagnosi di SVP presenta molte difficoltà, non esiste infatti nessun esame strumentale, neppure tra le ultimissime tecniche di imaging funzionale (Pet, Spect), che possa consentire di diagnosticare con certezza questa condizione. Solo un’attenta osservazione clinica, che necessita di un approccio in più valutazioni, con presenza di persone familiari, in un ambiente tranquillo, può aiutare a capire se la persona si trova in SVP. L’osservazione deve essere prolungata e continua, condotta da più persone, che si occupano del soggetto e gli danno sensazioni di sicurezza e protezione. I test, fatti da consulenti esterni, in genere neurologi, attenti soprattutto al quadro neurologico, essendo limitati nel tempo e saltuari, difficilmente possono cogliere un fuggevole segno di coscienza, che magari non si ripresenta più per un lungo periodo. Colpisce il fatto che chi si prende cura con affetto di queste persone e non vuole che siano lasciate morire, insiste nel riportare lievi segni di comprensione da parte dei propri cari. Naturalmente l’autorevole parere medico bolla queste testimonianze come illusorie, dettate dal desiderio di instaurare un rapporto affettivo con chi, invece, secondo loro, non può provare sentimenti ed emozioni. Ho vissuto accanto ad un malato in SV, condizione causata da un tumore al cervello in fase ormai terminale. Non abbiamo negato al nostro caro, per affrettarne la morte, l’idratazione artificiale, ma non lo abbiamo nutrito, poiché non poteva più assimilare il cibo, e questo d’accordo con i medici volontari cattolici, che lo assistevano in casa. Ma nessuno di noi, che lo assistevamo, avrebbe saputo dire se era cosciente, se capiva, almeno a tratti, se soffriva, oltre all’evidente sofferenza fisica, anche psicologicamente. Sapevamo solo che non comunicava più in nessun modo. Ma il soggetto in SV, non affetto da una patologia mortale, non è assimilabile ad un malato terminale: Infatti, se adeguatamente assistito, può vivere molto a lungo. Si può farlo morire solo sospendendo l’alimentazione e idratazione. La prognosi è legata a 3 fattori: l’età, la causa della condizione di SV e la durata della condizione. Tanto più giovane è la persona, tanto migliore è la prognosi, indipendentemente dalla causa che ha determinato la condizione. Gli stati vegetativi secondari a trauma cranico hanno una prognosi più favorevole rispetto a quelli causati da anossia cerebrale. Tanto più a lungo perdura la condizione, tanto peggiore è la prognosi, e il recupero della coscienza oltre un anno è un evento altamente improbabile. Tuttavia non ci sono casistiche significative, fondate su studi accurati e accompagnate da un serio follow-up. Quindi, se la prognosi funzionale di questi pazienti è senz’altro severa, tuttavia “a tutt’oggi non è possibile definire con certezza uno SV come irreversibile, almeno nel senso di una mancata ripresa della coscienza. Ciò è particolarmente vero nel caso di lesioni cerebrali post-traumatiche. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, è possibile predire un rischio di disabilità severa. Se questo dato debba poi essere utilizzato per commisurare l’intensità dell’approccio terapeutico, rimane da stabilire, soprattutto in funzione della definizione di disabilità accettabile.” (Latronico et al. 2000).
Per queste ragioni ultimamente si tende a non usare più i termini di persistente o permanente, in quanti non scientificamente accettabili, e a parlare solo di SV.
Il dr. Guizzetti da 10 anni dirige un reparto, che accoglie 20 soggetti in SV, presso Il Centro don Orione di Bergamo. In questi anni ha visto 12 ospiti migliorare notevolmente, con ripresa delle relazioni ambientali stabile, dell’eloquio, dell’alimentazione per via orale, con guarigione dei decubiti. Tale risultato è stato ottenuto con un trattamento assistenziale continuo e accurato, con un trattamento riabilitativo estensivo, non intensivo, volto al perseguimento del maggior benessere possibile dell’individuo, a prescindere dal grado di recupero delle autonomie che si possa ottenere. Bisogna soprattutto comunicare con questi pazienti come se potessero sentire e capire, si devono accudire in modo tranquillo, mandando messaggi tranquillizzanti, spiegando loro quello che si sta facendo. Anche se “per definizione” chi si trova in questa condizione, dovrebbe aver perso ogni capacità di relazione ambientale, in realtà ciò non si può dimostrare in modo certo. L’unica cosa che si può sicuramente affermare, è che hanno perso la capacità di relazionarsi secondo le normali modalità di comunicazione linguali e gestuali. R., svegliatosi dopo 17 mesi, ha raccontato come fosse per lui angosciante il momento del bagno, che pure veniva eseguito con ogni cautela e attenzione.
Quest’anno in un articolo, apparso in Gran Bretagna, un ricercatore scientifico ha dichiarato di aver catturato con una risonanza magnetica funzionale, una apparecchiatura nuova e sofisticata, uno stato mentale inatteso in una paziente in SV da 5 mesi: su stimolazione ad immaginare una partita a tennis, si attivavano le aree del cervello corrispondenti. A distanza di un anno la donna non presentava i miglioramenti previsti, dato l’esito dell’esame, ma su stimolazione era appena in grado di girare gli occhi un attimo. Gli interrogativi posti da questo studio sono molti: la risonanza magnetica funzionale può forse anticipare contenuti di coscienza, prima che si veda una manifestazione esterna della coscienza? Può forse confermare che, anche quando apparentemente la coscienza è persa, in realtà ci sono attivazioni del cervello, che dimostrano un minimo di contenuto? Oppure rivela che il soggetto, apparentemente in SV, è in realtà affetto dalla sindrome”Locked-in”, cioè la coscienza è intatta, ma il paziente è completamente paralizzato e in genere può muovere solo gli occhi.
Problemi non da poco. Se queste tecniche di imaging funzionale continueranno ad evidenziare che certe aree della corteccia cerebrale dei soggetti in SV mostrano ancora una funzionalità, come potrà applicarsi la sentenza della Corte di Cassazione?
La sentenza, infatti, pone come condizione all’autorizzazione di sospendere l’alimentazione di Eluana che la condizione di SV sia irreversibile e che non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di qualche , sia pure flebile, recupero della coscienza….I giudici, evidentemente, hanno voluto motivare rigorosamente le condizioni dell’interruzione, ma con questo le hanno anche rese scientificamente difficili, sebbene sia convinta che si troveranno autorevoli giudizi di autorevoli medici che certificheranno essere tale la condizione di Eluana. Il sen. Marino, come sempre prudente e conciliante, ha parlato di “ragionevole certezza”. Ma la “ragionevole certezza” corrisponde alla richiesta dei giudici?
Quanto alla seconda condizione, ritengo che per Eluana le testimonianze siano veritiere, che veramente non avrebbe mai voluto vivere come l’amico, che aveva visto continuare a vivere senza più coscienza. Ma, se si trovasse in SV, un ragazzo/a giovane, amante dei viaggi, dello sport, curioso del mondo, con un’intensa vita di relazione, che non avesse mai espresso opinioni sulla condizione di SV, il suo stile di vita, la sua personalità potrebbero valere come espressione dei suoi convincimenti personali sulla vita e sulla morte e della sua concezione di dignità della persona?
La condizione espressa dai giudici, con molta serietà e accuratezza, nei riguardi di Eluana, penso si presterà facilmente ad essere interpretata in modo più largo e grossolano e quindi ad offrire la possibilità di intervenire su soggetti in SV, per interromperne l’alimentazione artificiale.
Infine ultime osservazioni: la sentenza nel suo principio di diritto è strettamente legata al caso concreto di Eluana (v. ad es. quel “moltissimi anni”, ovviamente specifico per Eluana, ma per altri? Cinque o sei anni potranno essere considerati “moltissimi anni”?) Inoltre essa non sfugge ad una contraddizione interna, che l’avvicina alla sentenza della corte d’appello di Milano. Se il c.i. è l’unico fondamento della legittimità dell’atto medico e se risulterà chiaro che l’interruzione dell’alimentazione e idratazione artificiali corrisponde alla volontà di Eluana e al suo concetto di dignità della persona, perché mai l’interruzione dovrebbe essere condizionata dalla certezza di irreversibilità della condizione di SV, che al massimo potrà essere certificata con “ragionevole certezza”? Forse Eluana avrebbe voluto vivere in condizione di minimo stato di coscienza o di gravissima disabilità, priva di autonomia mentale e fisica? Molto probabilmente no, ma non l’ha detto. Quindi, se vogliamo garantirci dal sopravvivere in tali condizioni, non terminali, dovremo inserire molte e dettagliate specificazioni nelle nostre direttive anticipate.
In realtà la sentenza mostra che i giudici hanno avvertito il conflitto fra diritto alla vita e diritto all’autodeterminazione terapeutica e hanno cercato di venirne fuori, accettando il sacrificio del bene vita solo nel caso che Eluana si trovi esattamente e totalmente nella condizione di cui ha parlato. Probabilmente i giudici ritengono che gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale siano in grado di garantire l’assoluta irreversibilità della condizione di Eluana. E probabilmente sarà così, nonostante i dubbi e le riserve avanzate da una minoranza di medici e nonostante la medicina non sia certo una “scienza”, nel senso stretto di questa parola.
In conclusione la sentenza della Cassazione, che probabilmente risolverà il doloroso caso di Eluana, mostra tuttavia quanto sia difficile conciliare il personalismo e il principio di solidarietà sociale, che sono alla base della nostra Costituzione, con la cultura che domina le Corti europee e statunitensi, tendenti ad enfatizzare la totale autodeterminazione del singolo e ad estendere il campo dei diritti fondamentali a sempre nuovi diritti individuali.


* Maria Di Chio e' vicepresidente dell'associazione LiberaUscita
Pubblicato in:
 
 
ARTICOLI IN EVIDENZA
 
ADUC - Associazione Utenti e Consumatori APS