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La batosta elettorale del sultano. La Turchia è di fronte alla domanda: un autocrate si farà sconfiggere in modo democratico?
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Articolo di Redazione
23 aprile 2019 9:13
 
Un regime repressivo eletto si farà anche togliere il potere dall’elettorato? Vi ricordate che, quando Tayyip Erdogan arrivò al potere in modo democratico, questo fatto fu un esempio per il Vicino Oriente e il mondo islamico. Nei Paesi islamici si era sperimentato che i colpi di stato di eserciti secolari non avevano assolutamente impedito i movimenti islamici, ma li avevano piuttosto rafforzati e radicalizzati.
I pensatori liberali si sono schierati a favore del fatto di spostare la lotta sul campo democratico. Invece di venire spinto nella clandestinità, l’Islam, che si sta sempre più politicizzando, dovrebbe essere incluso nel sistema, dovrebbe, per mezzo della partecipazione al governo e “alla torta”, moderarsi, anzi, democratizzarsi. Anzi, sarebbe possibile anche che, nella responsabilità nel governo, i suoi errori smitizzassero la leggenda del “modello islamico”.
Questo scenario, chiamato in America “Islam moderato”, è stato sperimentato in Turchia. Le forze armate, che avevano troncato a più riprese i partiti islamici, si sono tirate indietro; dopo una crisi economica Erdogan arrivò al timone con promesse liberali e una grande maggioranza elettorale. Col credito del mondo occidentale e dei liberali del Paese, nei primi anni conobbe un progresso. Verso l’esterno si faceva credere un “democratico islamico aperto all’Europa”.
A ogni tornata elettorale si rafforzava, ma, col tempo, il potere lo ha avvelenato. Credette di non aver più bisogno dell’Europa e dei liberali che lo sostenevano, si trasferì nel suo nuovo palazzo, si atteggiò a sultano. Poi minò le colonne portanti della democrazia che lo aveva portato al potere: diritti umani, separazione dei poteri, indipendenza della magistratura, laicità, libertà di stampa, di pensiero e di organizzazione.
Le risorse e i mezzi dello stato li riversò verso se stesso, la propria famiglia e gli imprenditori fedeli, dichiarò nemici quelli che lo criticavano e li mise in carcere, così diventò un despota. La prima esperienza di governo dell’Islam politico è entrata nella storia come un’epoca buia, che ha dato ragione a coloro che avevano messo in guardia sul fatto che fosse impossibile un’alleanza tra politica e religione.
Ora ci troviamo di fronte a una domanda molto più difficile: un governo che cerca di eliminare la democrazia che lo ha portato al potere, è possibile sconfiggerlo in modo democratico? Se ne va, quando gli elettori dicono “Vattene!”? E che cosa accade se il governo, che ha messo totalmente sotto controllo le forze armate, la polizia, la magistratura, i media, il capitale e l’amministrazione non riconosce i risultati elettorali? Come fa un popolo senza una tradizione democratica abbastanza lunga, senza una società civile sviluppata e protezioni normative consolidate, quando viene a mancare anche la protezione delle forze armate?
E’ a questa domanda che la Turchia di oggi cerca la risposta. Perché Erdogan, che nelle elezioni ha subito una seria batosta, si oppone alla decisione del popolo. Vuole fare elezioni finché non riuscirà a trionfare. Il potere per farlo ce l’ha, perché controlla la magistratura e la strada. E tuttavia è la prima volta che è confrontato con una opposizione determinata, rincuorata. Erdogan si trova a un bivio: se sfida la volontà degli elettori, ciò porta la Turchia in un regime totalitario e all’isolamento. Se riconosce il risultato sarà considerato vincibile e aumenta la probabilità di nuove elezioni anticipate. Se alla Turchia riesce di battere la strada per uscire dall’oscurità in modo democratico, ciò può portare una luce per se stessa e per tutta quanta la regione.

(Articolo di Can Dündar su “Die Zeit” n. 17/2019 del 17 aprile 2019)
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