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Le botteghe di Firenze. Tra Comune e corporazioni si fa finta di non capire e si distruggono i capisaldi della nostra economia
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Articolo di Vincenzo Donvito
18 marzo 2019 9:52
 
  Arrivato anche in consiglio comunale, oltre che sui media, il confronto tra l’amministrazione cittadina e le corporazioni dei commercianti. Alla base del contendere, se sono cresciute o meno le botteghe e le attività artigiane. Il Comune dice di sì, Confocommercio dice di no, Confesercenti sta sull’altalena.
Tutto questo nel contesto di una città che solo ora sta cominciando a risollevarsi dopo le schiavitù a cui a cui è stata sottomessa da anni ed anni di lavori per la tramvia. Era ovvio che ultimati gli ultimi due pezzi (Careggi e Aeroporto), la situazione sarebbe migliorata con grandi vantaggi per tutti, abitanti e attività economiche e commerciali. Magari sarebbe stato opportuno porsi la domanda della necessità della schiavitù di questi anni rispetto a progetti alternativi e meno invasivi, ma partiamo dall’esistente, pur facendo tesoro del passato.

Il confronto sul numero di botteghe è interessante in quanto sintomatico della politica che si parla addosso. Forse, quando e se, si farà riferimento a dati ufficiali uguali per tutti (Istat), la querelle si stabilizzerà, ma ora ci dobbiamo accontentare. Il tragico di questa querelle è che, sia Comune che corporazioni, non si fanno scrupoli, per i loro progetti, di violare le norme base della nostra economia. Tipico è il Comune che, con ordinanze a go-go (vedi prostituzione e panini in via de Neri), lancia il sasso e impone la fermezza dello stagno, sordo a qualunque sollecitazione di rigore normativo e costituzionale delle sue decisioni, viene poi smentito da sentenze che gli danno torto. Ma poi, per amor di forza e/o campagna elettorale, riparte con la sua litania legata alla magica sigla “Unesco”, nel nome della quale si sente blasonato per porcate amministrative che fanno impallidire l’abc dello specifico diritto.

Ecco quindi, con discorsi e motivazioni che si arrampicano e si distorcono su se stesse, viene violato uno dei principi basi della nostra comunità: la libertà economica. Vuoi per le tipologie, vuoi per gli orari, vuoi per le ubicazioni, mentre le corporazioni perorano giustamente la difesa a denti stretti dell’esistente e degli amici di questi esistenti, il Comune infila un provvedimento dietro l’altro che, come risultato, riesce a cacciare dal territorio le nuove attività di piccole e piccolissime e medie imprese, a tutto vantaggio dei grandi agglomerati economici (quasi sempre transnazionali… arabi e cinesi -non i disgraziati dei negozietti- impazzano). Una passeggiata nel centro ci fa rendere conto che sembra di essere in un un corridoio di un qualunque aeroporto in qualunque parte del mondo, nonché in una delle tante strade di una qualche grande metropoli del mondo. Certo, qui ci sono i panini che non troveremo a Singapore, ma crediamo di avere spiegato il concetto ed evidenziato la pratica.

Alla base di questa distorsione violenta delle norme basi della nostra libertà economica ci sono vari motivi. Vuoi che l’Italia, e Firenze, non è ancora avezza a vivere senza che il Leviatano ci dica quello che è buono o cattivo, vuoi che il potere si esercita e si rinnova meglio quando si ricattano i soggetti investitori col potere di veto (che magari dopo un po’ un giudice dice che è stata fatta una porcata, ma nel frattempo l’investitore si è sfiancato e se n’è andato). Una visione arcaica, distorta, violenta e distruttiva dell’esercizio del potere pubblico. Che, invece, dovrebbe solo essere quello di creare e favorire le condizioni per l’esercizio di questa libertà economica. Certo, che se nel centro della città non ci sono più residenti, ma solo abitanti temporanei/turisti, è logico che uno che affitta un appartamento lo fa solo provvisoriamente (Airbnb, et similia, che vengono non a caso favoriti dall’amministrazione) e che, di conseguenza, gli esercizi commerciali sono quelli alla bisogna di queste presenze. E se gli spazi che abbondano in città (servitù militari tra gli altri) si pensa di destinarli ad attività in armonia con le presenze temporanee, non si farà altro che continuare ad alimentare questa situazione che chiameremo, come immagine, dei “cento paninai e dei cento negozi per abbigliamento che ti ci vuole uno stipendio per comprarlo”.

Infilatasi in questo “cul de sac”, amministrazione cittadina e corporazioni, quindi, non trovano meglio che parlarsi addosso. Ed ipotizzare, su numeri che sembra non abbiano interesse a rendere chiari per tutti (altrimenti il gioco di potere finisce…), tutto ciò che privilegi l’esistente, ammazzi la creatività economica dei piccoli investitori, e favorisca consolidamento e nuovi arrivi di grandi capitali. Che – pur se il denaro si dice che non abbia odore – a noi ci fanno rabbrividire per il fatto che rappresentano profitti per Paesi dove le libertà e i diritti individuali sono inesistenti. Sembra che la lezione del petrolio non sia servita: per decenni ci siamo asserviti a produttori di questo combustibile che coi ricavi consolidavano e consolidano i loro poteri dittatoriali, e che se ne sono ampiamente sbattuti dei vari equilibri ambientali…. ed oggi per le strade si ricorda che non abbiamo un Pianeta B… oggi diamo spazio ai capitali di questi dittatori per l’economia delle nostre città… chissà se i nipoti dei nostri nipoti avranno poi strade in cui urlarci addosso che siamo stati degli imbecilli in materia.
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