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Caccia alle streghe. In Turchia sono all’opera i delatori
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Articolo di Redazione
15 marzo 2018 12:19
 
La scorsa settimana [circa 20 febbraio] un viaggiatore, che si trovava su un autobus ad Istanbul, stava controllando notizie sul suo smartphone. Un tipo, che gli era seduto accanto, vide il nome del gruppo “Devrim-Der” (associazione rivoluzionaria) nonché una fotografia del capo del PKK Öcalan e, mentre era ancora sul bus, chiamò la polizia. Ancora più interessante è il caso del quarantenne Ali, che fa l’autista di camion: lui ha denunziato la propria moglie, perché una sera davanti alla televisione la donna aveva insultato Erdogan. Affinché lo si credesse, registrò le sue parole e andò dal procuratore. Alla stampa dichiarò: “E se fosse mio padre quello che offende il nostro presidente, io non lo perdonerei”.
La paura della perdita del potere trabocca nella base, la marea della delazione rende nemici vicini e partner e attizza l’odio nella società. Il presidente della repubblica aveva esortato alla delazione. In una assemblea di sindaci, alla fine del 2016, Erdogan aveva detto: “Bisogna che sappiate chi sta in quale casa, e che lo segnaliate alle forze di sicurezza. Se un sindaco non sa questo, non adempie correttamente il proprio dovere”.
Immediatamente il ministero dell’interno approntò una linea diretta per la delazione, il “sistema informativo per i sindaci”. Così era creata una rete di sindaci delatori. Le denunce approfondite presso il servizio segreto salirono di un quinto. Dalle circa 2.000 delazioni di prima se ne registrarono oltre 10.000. La polizia, alla quale nei tre mesi dopo il tentativo di golpe erano arrivate oltre 40.000 denunce, dovette comunque ammettere che la maggior parte di esse erano infondate.
Poco dopo l’incitamento di Erdogan, un cancelliere di tribunale denunciò una donna come terrorista, quando essa rifiutò l’offerta di matrimonio che le aveva fatto. Una denuncia degna di nota ci fu anche presso il “Cumhuriyet” [quotidiano “La Repubblica], di cui sono stato capo redattore per un certo periodo. Il guardiano sentì l’operatore di mensa Senol Buran dire questo:”Da me Erdogan il tè non l’avrà, nel caso visiti il giornale”, e lo denunciò seduta stante. Il giorno dopo Buran fu arrestato nella propria abitazione per “offese al presidente”.
Un anno fa il ministero della giustizia calcolò in 3.658 il numero dei processi per offese a Erdogan. Da allora il numero potrebbe essere ulteriormente salito. Quasi ad ogni critica Erdogan risponde con una denuncia per offese, e i giudici, da lui totalmente controllati, sommergono di pene i critici del regime.

(Articolo di Can Dündar, pubblicato su “Die Zeit” n. 10/218 del 3 marzo 2018)
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