Questa la conclusione cui è giunta la comunità scientifica dopo mesi di studi, un tema che aveva sollevato interrogativi e preoccupazioni dopo la scoperta, all’inizio della pandemia, che anche gli animali domestici possono risultare positivi al SARS-CoV-2, e tornato alla ribalta oggi con la scoperta del primo contagio da variante inglese in un gatto in Piemonte.
A fare chiarezza è stato uno studio pubblicato a dicembre, nell’ambito del progetto COVIDinPET (Genetic characterization of SARS-CoV2 and serological investigation in humans and pets to define cats and dogs role in the COVID-19 pandemic) che ha coinvolto i ricercatori del dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università di Milano e quelli dell’Università di Bari, nonché il dipartimento Sicurezza alimentare, nutrizione e sanità pubblica veterinaria dell’Istituto Superiore di Sanità, una rete di collaboratori internazionali guidata dall’Università di Liverpool e alcuni laboratori veterinari italiani. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature communications.
Nello studio sono stati arruolati 919 cani e gatti provenienti da aree del territorio nazionale (in particolare dalla Lombardia) in cui nella prima ondata della pandemia la prevalenza della malattia nell’uomo è risultata particolarmente elevata. Sono stati eseguiti tamponi molecolari orofaringei, nasali o rettali per la ricerca di SARS-CoV2, e/o esami sierologici per la ricerca di anticorpi anti-SARS-CoV-2.
In 528 casi erano noti i risultati di test molecolari condotti sui proprietari degli animali. Tutti i 494 tamponi processati sono risultati negativi, inclusi quelli prelevati da cani o gatti con sintomi respiratori o conviventi con proprietari che sono stati Covid-19 positivi.
Al contrario, il 3.3 per cento dei cani e il 5.8 per cento dei gatti, soprattutto adulti e provenienti da aree geografiche in cui maggiore è stata la prevalenza di infezione nell’uomo, è risultato positivo al test sierologico e, per quanto riguarda i cani, la percentuale di positivi sale al 12.8 per cento se si considerano gli animali appartenenti a proprietari con Covid-19.
Questi dati indicano che alcuni degli animali inclusi in questo studio sono entrati in contatto con il virus e hanno di conseguenza prodotto anticorpi ma la negatività dei loro tamponi, anche in animali di proprietari malati, suggerisce che il tempo di permanenza del virus nei loro tessuti, pur sufficiente ad indurre una risposta anticorpale, sia molto breve e non associato allo sviluppo di malattia negli animali.
Anche se non è possibile escludere che, effettuando il prelievo nei primi giorni di malattia del proprietario, anche gli animali domestici possano risultare positivi a test molecolari, i risultati di questo studio suggeriscono che il ruolo epidemiologico degli animali da compagnia nell’infezione umana da SARS-CoV-2 sia molto limitato. Al contrario sembra possano essere i proprietari positivi a trasmettere transitoriamente il virus ai propri cani e gatti, con i quali andrebbero quindi evitati contatti stretti nel periodo di positività del proprietario.
(Agi)
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