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Ci vuole rispetto per chi soffre di demenza
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Articolo di Redazione
6 luglio 2012 19:21
 
Alcune case di cura svizzere si sono dotate di ausili digitali per assistere i malati dementi. L'argomento è stato trattato dalla Neue Zuercher Zeitung (NZZ) con un'intervista a un gerontopsichiatra. Ne riportiamo le parti salienti.

D.NZZ: Christoph Held, in una casa di cura di Berna i dementi possono fare viaggi virtuali in treno, e il Centro di Gerontologia dell'Università di Zurigo promuove un video in cui un giornalista televisivo si presenta come visitatore e invita i pazienti a cantare con lui. Lo adotterà lei quel filmato?
R.Christoph Held: Giammai. Anzi, mi batterò perché altre strutture non lo facciano. Dal punto di vista neurologico, etico e giuridico l'uso di questi mezzi è sbagliato e deleterio.
D. Eppure i pazienti rispondono bene al video: Cantano con l'animatore e per una buona mezz'ora si distraggono -e con ciò si raggiunge lo scopo, che è quello di sollevare il personale.
R. E' naturale che i pazienti cantino insieme visto che quell'uomo gentile sullo schermo per loro è in carne ed ossa. Il punto dirimente è però che la demenza non è uno stato neuropsicologico stabile, che deve per forza durare tutto il tempo dello spettacolo. Le attività cognitive, le ottime e le sbagliate, si alternano in continuazione. I malati dementi vivono, a intervalli irregolari, una sorta di strappo nell'immagine che, nel gergo scientifico, si chiama dissociazione, ossia l'interrompersi di una funzione integrativa del cervello.
D. Come ce la possiamo figurare?
R. Se passo dal solotto alla cucina per farmi una tazza di tè, e improvvisamente non so più perché mi trovi in cucina, questa interruzione è il dissociarsi di un secondo; per un attimo ho dimenticato chi sono e dove sono. Nella demenza progressiva gli stati dissociativi sono sempre più lunghi. Ma -ed è essenziale- all'improvviso la cesura non c'è più; in un momento di lucidità il demente realizza che qualcosa non torna. E potrebbe accadere che un'ora dopo la visione del film egli abbia un moto di rabbia oppure si senta umiliato perché si è accorto d'essere stato manipolato. Dunque si può dire che simili trucchi cementino ancora di più gli stati dissociativi.
D. Lei rimprovera ai fautori dei mezzi digitali non solo valutazioni errate sotto l'aspetto neurologico, ma mette anche in campo scrupoli morali.
R. Se il normale corso della vita quotidiana improvvisamente non funziona più, nascono le paure, ed è questo che fa dire spesso ai dementi: "Per favore, rimani con me; non mi lasciare solo". Una forte presenza umana è la migliore terapia. Ma essi devono poter avere fiducia nella persona di riferimento. Se scoprono l'inganno, avviene uno strappo -si sentono delusi e si ritraggono.
D. Le bugie possono anche essere consolatorie. Non è meglio lasciare che il demente creda che sua moglie vive ancora?
R. A volte può essere sensato non dire tutto. Ed è meglio non contraddire il paziente quando sostiene che sua moglie verrà presto da lui; ma sarebbe sbagliato rassicurarlo che verrà alle 14. E un visitatore farebbe bene a dire apertamente che va via, anziché far credere che s'allontana solo per un caffè.
D. Ma sono soltanto piccole bugie utili a non far inquietare il malato!
R. Naturalmente, non voglio drammatizzarle. Però mi preme dimostrare la generale leggerezza di un tale comportamento: si crede che, con i trucchi, l'assistenza quotidiana funzioni meglio, soprattutto dal lato economico -ed è per questo che s'ingannano i pazienti anche senza motivo. A me disturbano le furbacchiate "terapeutiche". Tra queste c'è l'idea di alcuni istituti di mettere dei cartelli sotto cui i pazienti "aspettano" il tram. Che siano fermate del tram, viaggi in treno o video per cantare -sono tutti mezzi per far star buoni i pazienti, esattamente come i farmaci. Mi urta l'immagine umana che c'è dietro; dimostra una mancanza di rispetto.
D. Cosa pensa dell'idea praticata in Olanda dei cosiddetti villaggi per dementi, dove, in un ambiente circoscritto, hanno i propri negozi, il teatro, i ristoranti?
R. E' un modello che offusca il crescente bisogno d'assistenza, perciò l'idea, di cui si parla fin dagli anni settanta, non si è imposta. Ma le mie riserve sono anche di altro tipo: i malati di demenza hanno bisogno di stare tra persone integre dal lato cognitivo. Perciò essi si orientano spesso sugli infermieri, ed è essenziale per il clima che si respira nelle case di cura. Se invece stanno solo tra di loro, si trasmettono reciprocamente confusione.
D. Allora serve un'interfaccia con il mondo "normale"?
R. Assolutamente sì.
D. Che cosa è importante sapere?
R. Le persone pur in uno stadio avanzato di demenza possiedono ancora un notevole patrimonio d'esperienza e di sapere, però riescono sempre meno a ricollegarlo a se stessi; e alla perdita di consapevolezza di sé s'associano grandi paure. Per provare ad arginarle, ci vogliono vicinanza e attenzione.

(intervista di Dorothee Voegeli per Neue Zuercher Zeitung del 29-06-2012. Traduzione e adattamento di Rosa a Marca)
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