SOMMARIO: 0. Premesse: la sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014. – 0.1. (continua): … il ritorno alla disciplina previgente. – 0.2. (continua): … per le cd “droghe pesanti”. – 0.3. (continua): … per le cd “droghe leggere”. – 1. Altre brevi premesse: il valore del Giudicato. – 1.1. (continua): il Giudicato come inteso dalla Corte di Giustizia UE. – 1.2. (continua): il Giudicato come inteso dalla CEDU. – 1.3. (continua): il Giudicato in materia penale. – 1.3.1. (continua): i limiti del Giudicato in materia penale – 1.3.2. (continua): il bilanciamento tra valori opposti, contrapposte esigenze. - Giudicato vs. Libertà personale. – 1.4. (continua): Il valore del Giudicato salva l’art. 673 c.p.p. da una sentenza additiva della Corte Costituzionale. – 2. Un’opportuna distinzione: l’annullamento costituzionale non si sovrappone all’abrogazione legislativa. – 2.1. (continua): distinzione riconosciuta dalla Corte Costituzionale – 2.2. (continua): Quali differenze tra i due istituti, fenomeno abrogativo (successione di leggi nel tempo) e annullamento costituzionale. – 3. Le questioni irrisolte: quali effetti della dichiarazione di incostituzionalità della disposizione penale sulle sentenze definitive. – 3.1. (continua): La dichiarazione di incostituzionalità di una legge incriminatrice. – 3.2. (continua): La dichiarazione di incostituzionalità di una legge penale non incriminatrice. 3.3. (continua): Era necessario il rinvio alle Sezioni Unite?... alcuni spunti dalle Sez. Un. Ercolano e dalla conseguente sentenza della Corte Costituzionale 210/2013.
0. Premesse: la sentenza della Corte Costituzionale num. 32/2014.
La pronuncia costituzionale del 12 febbraio 2014, n. 32, anticipata da un comunicato stampa
1 diramato lo stesso giorno dal sito della Corte, ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, 1° comma, della L. 21 febbraio 2006, n. 49.
La novità, per quanti frequentano (nelle più varie vesti) le aule di Giustizia, è dirompente. Le succitate disposizioni della c.d. Legge Fini-Giovanardi, dopo aver assistito alla accensione di ben tre bracieri olimpici (Olimpiadi invernali di Torino, di Vancouver, e di Sochi), ed otto anni di vigenza a pieno regime2, sono state definitivamente espulse dall’ordinamento giuridico.
L’art. 136, 1° comma, Cost., corretto nell’interpretazione3 degli effetti dalla lettera dell’art. 1, 1° comma, della L. Cost. del 09 febbraio 1948 n. 1, ammonisce che “
la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”; pubblicazione avvenuta mediante deposito nella cancelleria della Corte in data 25 febbraio 2014 e quindi pubblicata sulla prima serie speciale della gazzetta Ufficiale in data 05 marzo 2014.
0.1. (continua): … il ritorno alla disciplina previgente.
La Corte Costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità dell’intervento riformatore del 2006 perché avvenuto al di fuori dei poteri normativi dell’esecutivo, si preoccupa di porre il sistema nazionale al riparo da vuoti normativi censurabili a livello sovranazionale. Infatti è la Consulta stessa a chiarire che “se non si determinasse la ripresa dell’applicazione delle norme sanzionatorie contenute nel d.P.R. n. 309 del 1990, resterebbero non punite alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.”.
Il decisum della Consulta specifica quindi che per gli effetti della declaratoria di incostituzionalità: “ (…) la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel d.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, torni ad applicarsi, non essendosi validamente verificato l’effetto abrogativo”4.
Le istruzioni così confezionate dall’
obiter della Corte manifestano un’apprensività eccessiva rispetto all’operato del Giudice comune: giurisprudenza e dottrina sono infatti da tempo concordi nel ritenere che l’accertamento della illegittimità costituzionale di una disposizione ne travolge tutti gli effetti compreso anche quello abrogativo della legge più antica che riacquisterà, per ciò solo, vigore
5.
Due le osservazioni che non possono mancare.
Da un lato, si annota che il riferimento all’art. 117, 1° comma, Cost., e di rimando alla decisione quadro 2004/757 GAI, invocato dai Giudici delle Leggi per giustificare la penalizzazione delle condotte di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, era stato individuato come uno dei parametri per valutare la illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate
6. Dall’altro, quindi, si ricorda che la decisione quadro in parola non è mai stata recepita dall’ordinamento italiano, tanto che la legge comunitaria del 2009 (L. 96/2010), all’art. 52, rubricato “
Delega al Governo per l’attuazione di decisioni quadro”, incarica il Governo ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per l’attuazione di alcune decisioni quadro, tra cui (lett. d) la decisione quadro 2004/757/GAI del Consiglio, del 25 ottobre 2004, riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti.
L’affermazione secondo il ritorno al regime normativo delineato dal d.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, sarebbe imposto dalla necessità di evitare una violazione del diritto dell’Unione europea dunque non coglie nel segno.
Il ritorno alla disciplina previgente impone un’osservazione ulteriore: dal confronto tra la normativa introdotta nel 2006 e quella anteriore, si evince che l’intervento costituzionale del 12.02.2014 – oggetto di notevole aspettativa da parte degli operatori – non è in assoluto migliorativo della posizione processuale di tutti gli imputati per reati afferenti agli stupefacenti.
“Stabilito (…)
che (…)
riprende applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle modifiche con queste apportate, resta da osservare che, mentre esso prevede un trattamento sanzionatorio più mite, rispetto a quello caducato, per gli illeciti concernenti le cosiddette “droghe leggere” (puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa, anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa), viceversa stabilisce sanzioni più severe per i reati concernenti le cosiddette “droghe pesanti” (puniti con la pena della reclusione da otto a venti anni, anziché con quella da sei a venti anni)”7.
Non si può non ricordare, senza che ciò sia confuso con un fuor d’opera, che la Consulta ha potere di intervento anche su leggi penali di favore (quali cause di giustificazione, scusanti, attenuanti che distraggono talune condotte dall’ambito di operatività della legge generale più sfavorevole,…) con conseguenze additive
in malam partem8.
In tal senso la pronuncia in esame accantona qualsiasi dubbio ricordando a se stessa e ai lettori che “sin dalla sentenza n. 148 del 1983, si è ritenuto che gli eventuali effetti in malam partem di una decisione della Corte non precludono l’esame nel merito della normativa impugnata, fermo restando il divieto per la Corte (in virtù della riserva di legge vigente in materia penale, di cui all’art. 25 Cost.) di «configurare nuove norme penali» (sentenza n. 394 del 2006), siano esse incriminatrici o sanzionatorie, eventualità questa che non rileva nel presente giudizio, dal momento che la decisione della Corte non fa altro che rimuovere gli ostacoli all’applicazione di una disciplina stabilita dal legislatore”.
0.2. (continua): … per le c.d. “droghe pesanti”.
I Giudici con la sentenza che si commenta hanno legittimato la nomenclatura, pur a-tecnica ma ben rappresentativa, da sempre in auge presso gli operatori del diritto, definendo rispettivamente “droghe pesanti” e “droghe leggere” le sostanze riportate nelle diverse tabelle che corredano il testo del d.P.R. n. 309 del 1990.
Come già anticipato, il trattamento sanzionatorio previsto per le droghe pesanti dalla legge anteriore era più severo, contemplando un minimo edittale di anni otto di reclusione, anziché sei.
Nonostante possa affermarsi, senza temuta di smentita, la reviviscenza della legge anteriore, sul fronte delle droghe pesanti si aprono alcuni dubbi interpretativi.
Per quanti abbiano già maturato un giudicato di condanna sulla base della norma dichiarata incostituzionale, un intervento sulla statuizione definitiva sarebbe precluso dal divieto di
bis in idem9.
Più articolate, invece, le questioni che si schiudono a seguito del giudizio costituzionale riguardo i processi in corso. Tra essi potranno essere distinti quelli relativi a fatti commessi sotto la vigenza della legge anteriore, quindi sino al 27 febbraio 2006 dalle condotte tenute a partire dal 28 febbraio 2006 sino al 06 marzo 2014. La distinzione introdotta, che guarda al periodo di vigenza delle disposizioni incriminatrici, è funzionale all’individuazione di regimi applicativi differenziati per i c.d. “fatti pregressi” rispetto alle c.d. “condotte concomitanti”
10.
In virtù delle garanzie di cui all’art. 25, 2° comma, Cost.
11, secondo il quale “
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”, quanti fossero a giudizio per fatti di traffico di “droghe pesanti” commessi tra il 28 febbraio 2006 e il 06 marzo 2014 (condotte concomitanti) non dovrebbero risentire degli effetti
in pejus della declaratoria di incostituzionalità
12. Il principio di stretta legalità in materia penale che si compiace di assicurare al cittadino “
libere scelte di azione”
13 (art. 25, 2° comma, Cost.) sarebbe infatti violato se – contrariamente ai criteri minimi di prevedibilità ed accessibilità
14 – taluno fosse punito sulla base di una legge che non poteva conoscere al momento del fatto. E deve considerarsi non conoscibile quella norma abrogata da una legge successiva: nessun orientamento motivazionale infatti l’agente poteva trarre dalla legge abrogata dal Decreto Olimpiadi.
Se per la schiera degli imputati per fatti concomitanti non pare pensabile un ritorno alla disciplina previgente, la cernita della legge loro applicabile risulta operazione non così immediata e banale
15. Da un lato, e per effetto del principio di stretta legalità, è preclusa – come s’è giustificato – la riattivazione delle cornici edittali anteriori al 27 febbraio 2006, di contro parrebbe impedita negli effetti, stante il principio di legalità costituzionale, la disciplina dichiarata illegittima
16.
Per quanti invece fossero ancora imputati per fatti di traffico di “droghe pesanti” commessi sino al 27 febbraio 2006, nessun pregio avrebbe invocare l’adagio inaugurato da Feuerbach,
nullum crimen sine lege, per assicurare loro il trattamento sanzionatorio
mitior introdotto dalla Legge Fini Giovanardi. Infatti, non è possibile negare che gli autori di fatti pregressi abbiano orientato le loro condotte alla previgente disciplina che contemplava un minimo edittale più elevato. Per essi altro è l’interrogativo sul tappeto: il principio di retroattività della
lex mitior concernente la definizione dei reati e delle pene, affermato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo come corollario del principio di legalità di cui all’art. 7 CEDU, è sensibile alla declaratoria di incostituzionalità? La Corte Costituzionale nella sentenza del 19 luglio 2011 num. 236 è già intervenuta
incidenter tantum sul punto specificando che “
il principio di retroattività della legge favorevole non può essere senza eccezioni”. Ed allora non è possibile sfuggire al dubbio residuo: anche la legge dichiarata incostituzionale, se
mitior, opera retroattivamente, giovando a quanti abbiano tenuto la condotta in epoca anteriore? La risposta suggerita dal tenore letterale degli artt. 136 , 1° comma, Cost.,
1, 1° comma, della L. Cost. del 09 febbraio 1948 n. 1, e dall’art. 30, L. 87 dell’11 marzo 1953, è negativa17. Nello stesso senso depone l’argomento logico per il quale non può operare – mai, quindi nemmeno retroattivamente – la legge invalida espunta dall’ordinamento, poiché “nata geneticamente morta”18. Medesima soluzione è stata individuata anche dallo studio sfociato nel Progetto 1992 predisposto dalla Commissione Pagliaro: in casi analoghi prevede che ai fatti pregressi si applichi la legge precedente a quella caducata dall’intervento censorio della Consulta
19.
Cionondimeno, non si può non constatare che laddove la risposta statuale alle condotte di costoro fosse stata più tempestiva, a prescindere dall’esito del giudizio di costituzionalità, detti imputati avrebbero potuto godere (ed assicurarsi) degli effetti favorevoli propri della legge dichiarata poi incostituzionale.
0.3. (continua): … per le c.d. “droghe leggere”.
Più complessa appare la gestione delle fattispecie di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 aventi ad oggetti “droghe leggere”
20, poiché esse debbono essere governate nel rispetto del principio di favorevolezza
21.
Quanto ai giudizi non ancora conclusi, l’unica soluzione percorribile è il recupero integrale della normativa previgente, con riflessi di favore anche in punto di termine prescrizionale, sensibilmente ridotto ad anni 6 (salvi gli effetti della interruzione), rispetto ai 20 iniziali. Estinzione del reato per effetto della prescrizione peraltro inseguibile anche con ricorso per Cassazione, posto che a seguito dell’invalidazione costituzionale, la Suprema Corte sembrerebbe tenuta a rilevare anche
ex officio (art. 609, 2° comma, c.p.p.) l’illegittima applicazione di norma incostituzionale
22 ed annullare, di conseguenza, la sentenza gravata
23, rilevando eventualmente la prescrizione maturata. L’operazione in parola soffre di limiti che non possono essere omessi nell’esposizione; perché l’intervenuta prescrizione sia rilevabile in sede di legittimità occorrono, alternativamente, a) che il termine prescrizionale sia maturato in sede di merito, quindi prima della pronuncia della sentenza di secondo grado; b) che il ricorso per cassazione sia ammissibile e la prescrizione venga raggiunta nelle more del giudizio di legittimità.
Per il vero deve essere anche osservato che, al di là della distinzione tra capo e punto della sentenza rispetto alla formazione del giudicato, stando agli insegnamenti della Corte di Cassazione, il termine prescrizionale non correrebbe nel giudizio di rinvio, se l’oggetto dello stesso è circoscritto alla rideterminazione della pena
24.
La posizione processuale di coloro nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, con condanna in corso d’esecuzione, è l’oggetto di questa riflessione che si pone l’obiettivo di illustrare una quaestio iuris e, come meglio si può in un terreno tanto accidentato, ipotizzare percorsi argomentativi utili a vincere le preclusioni di un giudicato di condanna formato sulla legge dichiarata incostituzionale.
Prima di muoversi alla ricerca di rimedi – sempre che ve ne siano – a disposizione del condannato in via definitiva, in esecuzione pena, che si trovi a scontare una sanzione detentiva, divenuta eccedente e illegittima per effetto della sentenza costituzionale 32/2014, sia consentito subito dubitare dell’utilità del meccanismo di cui all’art. 314 c.p.p., che assicurerebbe l’equa riparazione per aver sofferto un’ingiusta detenzione.
Preliminarmente, si osserva anche che le quaestines qui introdotte sono state oggetto di discussione in sede di elaborazione di progetti di riforma del codice penale, allo scopo di coordinare le disposizioni codicistiche all’attività della corte costituzionale, sconosciuta al tempo di entrata in vigore dell’attuale codice penale.
Procedendo ordinatamente, il disposto – già richiamato – di cui all’art. 5, comma 7°, del Progetto Pagliaro, prevedrebbe “
in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge, applicazione dei criteri indicati nei punti 1, 2, 3 e 4, fatta salva l’applicabilità della legge precedente ai fatti commessi prima”. E quindi, per quanto qui interessa, in caso di declaratoria di incostituzionalità, “(1)
non retroattività delle norme incriminatrici e di ogni altra disposizione che comporti comunque un trattamento più sfavorevole; (2)
retroattività delle leggi che rendono penalmente lecito un fatto prima incriminato, con effetto anche sull'eventuale giudicato; (3)
retroattività di ogni altra disposizione che comporti comunque un trattamento più favorevole al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna. Nonostante la suddetta sentenza, stabilire la retroattività della sopraindicata disposizione, quando essa preveda una pena pecuniaria in luogo della precedente pena detentiva, ovvero quando l'esecuzione di una pena detentiva sia destinata a protrarsi, in forza del giudicato, oltre il limite massimo stabilito dalla nuova legge. Definire legge più favorevole quella che, unitariamente considerata, assicuri complessivamente ed in concreto tale trattamento”
25.
Di analoga consistenza pare la proposta confezionata dalla Commissione Grosso.
Anche l’art. 5 dell’articolato, pubblicato il 26 maggio 2001, infatti, estende le regole della successione di leggi nel tempo ai casi di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge penale. Al cospetto di una pronuncia irrevocabile in corso di esecuzione, il Progetto Grosso si limita – similmente al precedente richiamato – a stabilire che la pena inflitta non potrà superare il limite massimo di durata stabilita dalla legge successiva, e se la legge successiva prevede una pena di specie diversa da quella prevista precedentemente, a richiesta del condannato, viene commutata
26.
Decisamente maggiori spunti di riflessione offre la bozza redatta dalla Commissione guidata dal professor Pisapia. Ai sensi del disposto di cui all’art. 6 dell’articolato
27, la disciplina della successione di leggi penali nel tempo si estende al caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, con la conseguenza che “
se sono diverse la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le leggi successive, si applichi quella che, valutata complessivamente e in concreto, risulti più favorevole per l'agente, salvo che sia intervenuta sentenza irrevocabile. In tale ultimo caso, prevedere che, se la legge successiva prevede una pena di durata minore o di specie meno afflittiva, la pena sia corrispondentemente rideterminata”.
La proposta di riforma da ultimo licenziata, dunque, introduce uno strumento di larga novità, sconosciuto alle bozze di articolato che l’hanno preceduta: riconosce spazio alla rideterminazione della pena in executivis, laddove la legge successiva sanzioni le medesime condotte con pena più mite, considerata la dosimetria sanzionatoria o la tipologia di sanzione. Identica soluzione nell’ipotesi di intervenuto giudizio di incostituzionalità di una legge penale non incriminatrice ex novo.
La soluzione suggerita risulta – nell’economia di questo scritto – di grande interesse, poiché costituisce l’occasione e insieme l’espediente retorico per avviare un approfondimento in ordine alla superabilità del giudicato a fronte della dichiarazione di illegittimità di una legge penale aggravatrice della posizione del reo.
Prima di addentrarsi nell’analisi delle conseguenze giuridiche della sentenza 32 del 2014, sia consentito soffermare il discorso sul valore del giudicato.
1. Altre brevi premesse: il valore del Giudicato.
Il valore del giudicato inteso, ai fini di questa riflessione, quale punto d’approdo intangibile della res iudicata, esprime l’esigenza ordinamentale di conferire certezza ai rapporti giuridici esauriti.
È opportuno fare chiarezza da subito. Il giudicato che qui interessa non è quello cautelare né quello esecutivo, istituti che rappresentano mere preclusioni processuali impeditive di attività defatigatorie della difesa.
Se è vero che l’importanza del giudicato, contributo di stabilità del sistema, è riconosciuta a livello interno e sovranazionale, non meno validità ha l’affermazione secondo cui nessuna disposizione costituzionale assicura l’intangibilità al giudicato
28. Nonostante ciò è innegabile che il tema relativo al valore del giudicato si pone problematicamente a cavaliere tra il diritto costituzionale e il diritto processuale
29, coinvolgendo – in materia penale – i diritti fondamentali della persona.
Nel costituzionalismo multilivello di una costituzione per così dire “integrata” o “composta”
30, dove le elaborazioni giurisprudenziali delle istanze superiori nazionali (e non nazionali) si intrecciano in un proficuo dialogo tra Corti
31, la portata dei valori fondamentali si espande in richiami reciproci che transitano per mezzo dell’art. 117, 1° comma, Cost. Quanto al riconoscimento del giudicato in materia penale la Corte Costituzionale italiana in una recente pronuncia
32, su cui più oltre ci si soffermerà proprio perché relativa alla possibilità di vincere il giudicato penale, richiama i principi già elaborati nelle due Corti Europee , della UE (Corte di Giustizia UE) e del Consiglio d’Europa (CEDU). Vediamo dunque partitamente questi “saggi” di giudicato mutuati dalle esperienze delle Corti sovranazionali.
1.1. (continua): il Giudicato come inteso dalla Corte di Giustizia UE.
La CGUE puntualizza l’importanza del principio dell’autorità del giudicato e lo celebra al punto da ritenere prevalente l’interesse alla stabilità e certezza del diritto sulla corretta applicazione del diritto dell’Unione.
Merita dunque menzione, per comprendere appieno il richiamo speso dalla Consulta nella sentenza num. 230/2012, il principio di diritto emerso nell’ambito della decisione C-234/04, 16.03.2006, Kapferer
33, e ribadito più di recente in C-507/08, d.d. 22.12.2010, Commissione Europea c. Repubblica Slovacca.
La Corte del Lussemburgo, infatti, chiarisce l’estrema rilevanza dell’intangibilità del giudicato “vuoi nell'ordinamento giuridico dell'Unione vuoi negli ordinamenti giuridici nazionali. Infatti, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l'esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione (sentenze 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler, Racc. pag. I-10239, punto 38; 16 marzo 2006, causa C-234/04, Kapferer, Racc. pag. I-2585, punto 20, e 3 settembre 2009, causa C-2/08, Fallimento Olimpiclub, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 22).
Pertanto, il diritto dell'Unione non impone sempre ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono forza di giudicato ad una pronuncia giurisdizionale, anche quando ciò permetterebbe di rimediare ad una violazione del diritto dell'Unione da parte di tale pronuncia …”
34.
Le osservazioni riportate in nota consentono di cogliere in quali termini e soprattutto in quali ambiti nell’Europa dell’Unione è celebrata la firmitas dei rapporti esauriti. La irrevocabilità della sentenza – che resiste ai rimedi vòlti all’eliminazione di contrasti con il diritto dell’UE – è elevata a tutela dell’affidamento in rapporti di carattere marcatamente civilistico, a difesa della certezza di traffici giuridici; così nel caso della controversia tra la signora Rosmarie Kapferer e Schlank & Schick GmbH, altrettanto nella contesa che ha conivolto la Repubblica Slovacca per gli aiuti asseritamente prestati alla società Frucona Košice.
La Corte Costituzionale italiana, dunque, nella sentenza num. 230/2012, al fine di avallare l’intangibilità dei rapporti giuridici coperti dal giudicato in ambito penale, arruola a sostegno della propria argomentazione principi enucleati dalla Corte del Lussemburgo, senza dar conto però che gli stessi sono stati enunciati in materie squisitamente privatistiche.
1.2. (continua): il Giudicato come inteso dalla CEDU.
Anche la Corte EDU riconosce il giudicato come approdo definitivo di una vicenda giudiziaria.
Se da un lato il giudicato per la CEDU può costituire limite invalicabile di taluni diritti fondamentali, quale la retroattività della
lex mitior (anche se intermedia), purché essa sia disposizione di diritto penale sostanziale
35, dall’altro il giudicato è la premessa fattuale e giuridica che consente ai Giudici di Strasburgo di intervenire e valutare gli esiti giudiziari nazionali: infatti, ai sensi dell’art. 35 CEDU, il ricorso individuale è ammissibile, di regola, solo se proposto avverso un
decisum definitivo.
Nella prospettiva della Convenzione, il giudicato è necessariamente premessa operativa, ma di per sé mai invincibile. Laddove la Corte EDU riscontrasse la violazione di diritti convenzionali, il giudicato nazionale risulta situazione precaria ché deve essere rimossa per realizzare la
restituito in integrum conformemente alle indicazioni CEDU, secondo gli artt. 41 e 46
36 della Convenzione.
L’adempimento alle prescrizioni da parte dell’Autorità Nazionali, dunque, non può che passare attraverso la rimozione di una pronuncia irrevocabile, ai sensi – oggi
37 – dell’art. 630 c.p.p., come modificato in senso additivo da una recente pronuncia della Corte costituzionale
38.
L’impianto poc’anzi illustrato non è stato scalfito dall’apertura alle firme delle Alte parti Contraenti del Protocollo 16 che introduce per la Corte EDU nuove competenze, di carattere consultivo, modulate sullo schema operativo di cui all’art. 267 TFUE
39.
1.3. (continua): il Giudicato in materia penale.
Sebbene, come poco sopra ricordato, manchi una disposizioni univoca sul punto, l’intero ordinamento giuridico si compiace della stabilità conferita alle situazioni concrete dagli effetti del giudicato: anche il sistema penale conosce ed esalta i pregi del “giudicato”, quale espressione delle guarentigie della irretroattività della legge incriminatrice e del divieto di bis in idem.
1.3.1. (continua): i limiti del Giudicato in materia penale
Quanto dianzi esposto richiede d’esser coordinato con talune altre osservazioni che non possono sfuggire all’esame.
Le statuizioni concernenti la responsabilità penale riguardano un privato nel suo rapporto con lo Stato: non c’è alcun affidamento da preservare dalle sopravvenienze future
40, né situazioni consolidate da conservare in validità. Non perde quindi d’attualità
41 l’opinione espressa da Lozzi, a commento dell’art. 90 del codice di rito superato, secondo cui è “
ravvisato nel ne bis in idem
l’effetto che contraddistingue il giudicato penale”, la cui funzione risiede essenzialmente nell’assicurare la certezza in senso meramente soggettivo
42, quale “
espediente pratico che sottrae il singolo ad una teoricamente illimitata possibilità di prosecuzione penale, e quindi, all’arbitrio incondizionato dell’organo punitivo”
43.
L’idea secondo cui in ambito penale non esiste un valore del giudicato autentico o analogo a quello riscontrabile nei rapporti civilistici come quelli intercorrenti tra la signora Rosmarie Kapferer e Schlank & Schick GmbH, o tra la Frucona Košice e la Repubblica Slovacca è avvalorata dall’analisi del dato positivo.
La lettera dell’art. 673 c.p.p.
44 disciplina le ipotesi di revoca del giudicato penale di condanna. È nelle ipotesi di
abolitio criminis, che, ai sensi dell’art. 2, 2° comma, c.p., il principio di favorevolezza raggiunge la massima intensità con il travolgimento del giudicato. Le stesse conseguenze si verificano anche nei casi di declaratoria di incostituzionalità della norma incriminatrice.
Inoltre, molto significativa in tal senso è la riforma avvenuta con L. 24 febbraio 2006, n. 85 che ha introdotto il 3° comma dell’art. 2 c.p.: “Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135”.
La novella del 2006 si è guadagnata l’apprezzamento della dottrina
45 per aver riparato l’ordinamento sanzionatorio da un motivo di irragionevolezza manifesta: la
firmitas del giudicato di condanna “salta” nell’ipotesi di attenuazione del trattamento sanzionatorio, tramite la sostituzione legislativa della pena detentiva con quella pecuniaria
46. In tal senso, come più sopra riportato, si erano già orientati gli sforzi delle Commissioni istituite per lo studio di un nuovo codice penale.
Anticipando, ai meri fini espositivi, la questione centrale di questo scritto, si deve ricordare che l’intervento della Consulta del 12.02.2014 con sentenza num. 32 ha dichiarato incostituzionale una norma penale, ma non una norma penale incriminatrice in senso stretto. La puntualizzazione è dirimente, poiché si pone il dilemma di come agire di fronte ad una pena (o porzione di essa) che risulta definitiva e al contempo illegittima costituzionalmente poiché comminata sulla base di una disposizione colpita da una pronuncia di incostituzionalità. Dilemma che parrebbe di agevole soluzione al cospetto di affermazioni di principio del tipo, “
il valore del giudicato – e il fascio di interessi ad esso sottesi – ben può (…)
essere considerato recessivo”
47 rispetto all’esigenza di far cessare quella pena, ma che di agevole soluzione non è allo stato.
Rinviando oltre per una disamina dell’atteggiamento della giurisprudenza, vale la pena ricordare, prima di passare oltre, la soluzione offerta dal Progetto Pisapia che ha proposto una rideterminazione della pena: “se sono diverse la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le leggi successive, si applichi quella che, valutata complessivamente e in concreto, risulti più favorevole per l'agente, salvo che sia intervenuta sentenza irrevocabile. In tale ultimo caso, prevedere che, se la legge successiva prevede una pena di durata minore o di specie meno afflittiva, la pena sia corrispondentemente rideterminata”.
1.3.2. (continua): il bilanciamento tra valori opposti, contrapposte esigenze. - Giudicato vs. Libertà personale.
Sebbene sia incontestabile che il giudicato presidia la sicurezza giuridica conferendo stabilità a rapporti giuridici esauriti, altrettanto indiscussa è la posizione del principio di libertà personale quale diritto fondamentale.
Quindi non resta che chiedersi a quale sicurezza giuridica ambisca l’ordinamento di fronte ad una condanna definitiva rispetto a sopravvenienze favorevoli al reo
48: piuttosto il limite del giudicato risponde all’esigenza di contingentare le risorse economiche e processuali che il sistema è disposto ad impiegare per l’accertamento di fatti penalmente rilevanti.
Nel sistema dei valori da tutelare tramite il diritto penale, Mantovani ricorda la primazia del principio personalistico che guarda alla persona umana come “
valore etico in sé (…)
fine primo e fine ultimo, alfa ed omega del sistema penale”
49.
Nella prospettiva personalistica, pertanto, asservire la persona al bisogno di certezza del sistema penale, o peggio ancora a limiti economici, equivale ad un’operazione – non consentita – di strumentalizzazione dell’uomo e delle sue prerogative fondamentali.
La peculiarità del giudicato penale rispetto a quello che si forma nelle corti civili riconosciuta in dottrina, trova validi riferimenti anche nella giurisprudenza. In proposito giova menzionare l’affermazione che le Sezioni Unite Penali della Cassazione hanno lasciato sul terreno: “
La preclusione, effetto proprio del giudicato, non può operare allorquando risulti pretermesso, con effetti negativi perduranti, un diritto fondamentale della persona, quale certamente è quello che incide sulla libertà: s'impone, pertanto, in questo caso di emendare "dallo stigma dell'ingiustizia" una tale situazione”
50.
1.4. (continua): Il valore del giudicato salva l’art. 673 c.p.p. da una sentenza additiva della Corte Costituzionale.
L’antefatto da cui bisogna muovere è la sentenza delle Sezioni Unite del 24.02.2011 (imp.: Alacev) che ha precisato (… con 2 anni di ritardo!) che a seguito delle modifiche di cui all’art. 1, 22° comma, lett. h) L. 5 luglio 2009 n. 94 (c.d. “pacchetto sicurezza”) si sarebbe verificata “l’abolitio criminis del reato già previsto dall’art. 6, comma 3, d. lgs. 286 del 1998 nei confronti dello straniero in posizione irregolare”, omessa esibizione dei documenti richiesti, poiché questi non avrebbe mai potuto esibire documento di identità e di soggiorno validi.
Di seguito al nuovo orientamento della giurisprudenza a Sezioni Unite, il Tribunale di Torino (Giud.: dott. Andrea Natale) veniva adito nella qualità di Giudice dell’Esecuzione dal Pubblico Ministero con istanza di revoca del giudicato di condanna formatosi in capo ad un irregolare rispetto al reato di cui all’art. 6, 3° comma, D.lgs. 286/1998. Il 27.06.2011 con ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 23 L. 11 marzo 1953 n. 53, il Tribunale torinese sollevava una questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 673 c.p.p. “nella parte in cui non prevede l’ipotesi di revoca della sentenza di condanna [o di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena su concorde richiesta delle parti] in caso di mutamento giurisprudenziale -intervenuto con decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione- in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge penale come reato, per contrasto con l’art. 117 Costituzione, in relazione all’art. 7 CEDU (come interprato dalla Corte EDU) e agli art. 5 e 6 CEDU; con l’art. 3 della Costituzione, anche in relazione agli artt. 610, comma 2, 618 c.p.p., 172 disp. att. c.p.p. ed all’art. 65 Regio Decreto 30.01.1941, n. 12 (ordinamento giudiziario); con l’art. 13 della Costituzione; con l’art. 25 della Costituzione; con l’art. 27, comma 3, della Costituzione” (Trib. Torino, 27.06.2011).
La sentenza della Corte Costituzionale, che qui interessa ai fini della nozione di giudicato penale, ha manifestato con fermezza il pregio della firmitas del giudicato di condanna rispetto al ius superveniens di matrice giurisprudenziale, anche se formatosi in seno alle Sezioni Unite.
La predetta sentenza afferma che “…
semplici dinamiche interpretative della norma incriminatrice, quali il mutamento di giurisprudenza e la risoluzione di contrasti giurisprudenziali, ancorché conseguenti a decisioni delle Sezioni unite della Corte di cassazione”
51 non trovano disciplina nell’art. 673 c.p.p., poiché la decisione adottata dalle Sezioni Unite difetta di vincolatività, potendo essere disattesa da contrari opinioni e prassi applicative, financo contraddetta da altre pronunce di legittimità.
Al fine di vanificare la stabilità impressa dal giudicato, la Corte Costituzionale, nella sentenza richiamata, ricorda che “
il legislatore esige, non irragionevolmente, una vicenda modificativa che determini la caduta della rilevanza penale di una determinata condotta con connotati di generale vincolatività e di intrinseca stabilità”
52.
“Generale vincolatività”e“intrinseca stabilità”, dunque, sono i caratteri della novità che, stando a quanto affermato dalla Consulta, può vincere il giudicato.
“Generale vincolatività”e“intrinseca stabilità” che appartengono alle disposizioni legislative, ma ancora di più – e qui si scopre l’interesse all’argomentazione spesa dalla Consulta – ad una dichiarazione di incostituzionalità, per effetto della quale “la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” (art. 136 Cost.).
2. Un’opportuna distinzione: l’annullamento costituzionale non si sovrappone all’abrogazione legislativa.
Come poco sopra riportato, l’art. 673 c.p.p. prende in considerazione due fenomeni, entrambi riconducibili, in senso ampio, al paradigma dell’“
abolizione del reato”, richiamato nella rubrica: a) intervento abrogatore del legislatore; b) declaratoria di illegittimità costituzionale della “norma incriminatrice”. Secondo l’elaborazione giurisprudenziale sviluppata intorno alla disposizione in parola
53, sarebbe riconducibile alla “
abolizione del reato” anche l’intervento della Corte di Giustizia UE che accerti l’incompatibilità della norma incriminatrice interna con il diritto
self executing dell’Unione Europea (c.d. “disapplicazione comunitaria”)
54.
La lettera dell’art. 673 c.p.p., quindi, equipara – quanto a disciplina processuale – fenomeni affatto distinti, e che distinti debbono rimanere, vale a dire il fenomeno abrogativo (
abolitio criminis) e quello dell’annullamento di norme incostituzionali
55.
2.1. (continua): distinzione riconosciuta dalla Corte Costituzionale.
Fin dalla sua prima sentenza la Consulta non ha mancato di precisare che “
i due istituti giuridici dell’abrogazione e della illegittimità costituzionale delle leggi non sono identici fra loro, si muovono su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse”
56.
Con più recente sentenza, si è affermato in termini di rara chiarezza: “
Giova richiamare in proposito la differenza tra l'effetto di abrogazione, prodotto dal sopravvenire di nuove leggi, e l'effetto di annullamento, derivante dalle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale. L'abrogazione non tanto estingue le norme, quanto piuttosto ne delimita la sfora materiale di efficacia, e quindi l'applicabilità, ai fatti verificatisi sino ad un certo momento del tempo: che coincide, per solito e salvo sia diversamente disposto dalla nuova legge, con l'entrata in vigore di quest'ultima. La declaratoria di illegittimità costituzionale, determinando la cessazione di efficacia delle norme che ne sono oggetto, impedisce, invece, dopo la pubblicazione della sentenza, che le norme stesse siano comunque applicabili anche ad oggetti ai quali sarebbero state applicabili alla stregua dei comuni principi sulla successione delle leggi nel tempo. Altro è, infatti, il mutamento di disciplina attuato per motivi di opportunità politica, liberamente valutata dal legislatore, altro l'accertamento, ad opera dell'organo a ciò competente, della illegittimità costituzionale di una certa disciplina legislativa: in questa seconda ipotesi, a differenza che nella prima, è perfettamente logico che sia vietato a tutti, a cominciare dagli organi giurisdizionali, di assumere le norme dichiarate incostituzionali a canoni di valutazione di qualsivoglia fatto o rapporto, pur se venuto in essere anteriormente alla pronuncia della Corte”
57.
Il tema della successione delle leggi penali nel tempo, regolato dall’art. 2 c.p. si distingue quindi dall’ipotesi di illegittimità costituzionale di una norma penale, disciplinata dagli artt. 136, 1° comma, Cost, 30 L. 87/1953, sebbene l’art. 673 c.p.p. si riferisca ad entrambi i fenomeni.
2.2.2. (continua): Quali differenze tra i due istituti, fenomeno abrogativo (successione di leggi nel tempo) e annullamento costituzionale.
Pur aventi evidenti tratti d’analogia in punto di disciplina, l’abrogazione e l’annullamento costituzionale debbono essere tenuti concettualmente distinti.
i) quanto ai soggetti istituzionali
Nella successione di leggi penali, è il legislatore che interviene ponendo una nuova disposizione in successione diacronica con la precedente.
Nel caso di dichiarazione di incostituzionalità, la Consulta rimuove un prodotto legislativo illegittimo.
ii) quanto alle modalità di intervento sul sistema
Si parla di successione di leggi in quanto si avvicendano nel tempo diverse disposizioni, tutte valide, con innovazione del contesto normativo.
Nel caso di dichiarazione di incostituzionalità, la Consulta rimuove un prodotto legislativo illegittimo per mezzo di una sentenza al fine di inseguire la
aedequatio del sistema normativo ai principi veicolati dalla Carta Costituzionale
59.
iii) quanto ai criteri di prevalenza
Nella successione di leggi penali, la seconda disposizione prevale sulla prima per effetto del criterio cronologico.
Con il pronunciamento costituzionale è conferita effettività pratica al principio gerarchico e di legalità costituzionale.
iv) quanto alla dimensione temporale degli effetti
Nella successione di leggi penali, salvo il regime di favore di cui ai commi 2, 3, 4° dell’art. 2 c.p., l’abrogazione legislativa opera solo pro futuro con effetti ex nunc conformemente al disposto di cui all’art. 11 Preleggi, secondo cui “La legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo”.
La Consulta proclamando l’illegittimità di una disposizione espunge dall’ordinamento una norma, come già s’è detto, “
nata geneticamente morta”
60.
v) quanto alla possibilità di reviviscenza
La legge abrogata legislativamente si presta ad essere riportata in vigore per effetto di un intervento costituzionale
61: meccanismo di reviviscenza che coinvolge le disposizioni apparentemente abrogate da quelle in seguito censurate dal Giudice delle Leggi.
La capacità di reviviscenza non appartiene, considerate le conseguenze dell’annullamento, alla norma dichiarata incostituzionale.
A questo punto della trattazione, il riferimento all’art. 2 c.p. che si rinviene nel testo della sentenza num. 32/2014, quale strumento a disposizione del giudice comune per impedire che la dichiarazione di illegittimità vada a detrimento della posizione giuridica degli imputati
62, è piuttosto discutibile. Infatti, si ribadisce ancora che “
la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale non configura una abrogazione e non è dunque in alcun modo riconducibile alla disciplina penale della successione di leggi nel tempo (art. 2 c.p.). Invero, non essendovi due leggi in successione tra loro, mancano i presupposti per l’applicazione delle regole di cui all’art. 2 c.p.”
63.
3. Le questioni irrisolte: quali effetti della dichiarazione di incostituzionalità della disposizione penale sulle sentenze definitive.
Ritornando al tema che si è fatto proposito di analizzare, rimane aperta la questione del trattamento che deve essere riservato a chi si trova in esecuzione pena, quindi condannato in via definitiva ad una pena che, dopo la pronuncia num. 32/2014, soffre lo stigma della incostituzionalità.
Come già esposto più sopra, i giudicati sotto la vigenza della Legge Fini-Giovanardi per reati di spaccio di “droghe leggere” presentano senz’altro una eccedenza sanzionatoria che soffre dell’illegittimità della legge di cui sono espressione.
La quaestio iuris che rimane da affrontare è se sia possibile dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 12.02.2014 un intervento (in bonam partem) in sede di giudizio di esecuzione sulle sentenze definitive.
Ci si chiede quindi se dopo la dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale sostanziale (non incriminatrice in senso stretto
64) che ha influito sul trattamento sanzionatorio sia possibile –
in executivis – attivare un meccanismo processuale per la rideterminazione della pena, vincendo il giudicato.
Ferma la proclamazione del valore del giudicato quale momento di stabilità e certezza giuridica, in materia penale, il valore fondamentale della legalità della pena e il principio di libertà personale suggeriscono, come già abbozzato, qualche riflessione in più
65.
Riflessioni certo non nuove e condivise dai membri della Commissione dei Settantacinque nella discussione relativa all’art. 104 del Progetto di Costituzione; nella seduta del 14 dicembre 1946 nel corso dell’esame dell’art. 4 del progetto Calamandrei, il relatore, onorevole Giovanni Leone, proponeva la seguente modifica “La sentenza irrevocabile non può essere annullata o modificata, neppure con legge, eccetto il caso della legge penale abrogativa e delle impugnazioni straordinarie. / L’esecuzione della sentenza irrevocabile non può essere sospesa, eccetto i casi espressamente previsti dalla legge”. Intervenuto l’onorevole Renzo Laconi, esponente del Partito Comunista Italiano, avvertiva che il Comitato di redazione, di cui era peraltro esponente, esaminando in una delle sue sedute il problema della irretroattività della legge e della irrevocabilità del giudicato, aveva messo in evidenza la necessità di non prevedere soltanto il caso di revoca per determinati reati, ma anche quello della diminuzione della pena, facendo altresì osservare che nella proposta formulata da Calamandrei non era previsto il caso della disposizione più favorevole al reo. Di conseguenza l’onorevole autonomista Piero Calamandrei, proponeva una nuova formulazione per l’art. 104 del Progetto che bilanciasse il valore della firmitas del giudicato di condanna con il principio di favorevolezza. “La sentenza, non più soggetta ad impugnazioni giudiziarie di qualsiasi specie, è immutabile. Non potrà esserne modificata o sospesa la efficacia neanche per atti del potere legislativo, all'infuori dei casi di legge penale abrogativa o più favorevole al reo, e dell'esercizio del potere di amnistia, indulto e grazia, secondo le norme della presente Costituzione”.
Da una parte il ricordo torna di nuovo all’elaborato proposto dalla Commissione Pisapia; all’art. 6, nell’estendere la disciplina della successione di leggi penali all’ipotesi di dichiarazione di illegittimità costituzionale, stabilisce che se sia intervenuta sentenza irrevocabile, e la legge successiva prevede una pena di durata minore o di specie meno afflittiva, “la pena sia corrispondentemente rideterminata”.
Dall’altra, si richiamano le lezioni di legalità già impartite dalla giurisprudenza di legittimità. “La pena illegale per specie e/o misura va corretta anche in executivis, dovendo tendenzialmente cedere il giudicato a tale più alta valenza fondativa dello statuto della pena” (Cass. Pen. Sez. I, 13.10.2010, num. 38245, Di Marco).
Fuoriesce dall’oggetto del presente scritto l’analisi relativa alle conseguenze della dichiarazione di incostituzionalità rispetto alle iscrizioni presenti nel certificato del casellario giudiziale, con speciale riferimento al beneficio contingentato della sospensione condizionale della pena. Questo profilo dinamico e al contempo prospettico degli eventuali effetti della dichiarazione di incostituzionalità che si commenta non può essere pretermesso sol perché sfugge dall’emergenzialità propria di una pena in corso di esecuzione. Anche in questo caso le ripercussioni conseguenti all’annullamento costituzionale delle modifiche introdotte al D.L. 272/2005 pretendono una netta presa di posizione in favore della libertà personale del condannato.
3.1. (continua): La dichiarazione di incostituzionalità di una legge incriminatrice.
Ipotesi di questa natura, almeno in questa sede, interessano relativamente poco, per due ordini di ragioni. Come più volte ricordato la sentenza della Corte Costituzionale num. 32/2014 non ha dichiarato incostituzionale una norma incriminatrice in senso stretto (il reato di traffico di sostanze stupefacenti sussiste ora come allora). Inoltre, in simili ipotesi soccorrerebbe all’operato dell’interprete la chiara formulazione del più volte citato art. 673 c.p.p.
Una volta espunta dall’ordinamento una fattispecie incriminatrice, ed emendato il disvalore della condotta, il giudicato è necessariamente travolto, revocato con provvedimento del giudice dell’esecuzione; con conseguente diritto del condannato alla cancellazione dell’iscrizione dal certificato del casellario giudiziale
66.
3.2. (continua): La dichiarazione di incostituzionalità di una legge penale non incriminatrice.
La dichiarazione di incostituzionalità di una legge che prevede un trattamento sanzionatorio più gravoso rispetto alla disciplina previgente che rivive sfugge dall’ambito di operatività dell’art. 673 c.p.p. In questi casi parte della dottrina
67 e della giurisprudenza
68 ha individuato nell’art. 30 L. 11 marzo 1953 num. 87
69 il regime applicativo a disposizione per intervenire su una sentenza definitiva. Cionondimeno, altra fazione, registrata tanto in dottrina
70 quanto in giurisprudenza
71, propugna la tesi contraria, presentando opinioni scettiche circa l’utilità della disposizione appena citata (art. 30, 3°-4° commi, L. 11 marzo 1953 num. 87) per rimuovere un giudicato di condanna formato sulla base di una norma non incriminatrice dichiarata incostituzionale.
La discussione sul punto rimane intensa sebbene, stando alle parole della Corte Costituzionale, “
l'obbligatorietà delle decisioni della Corte (…)
si esplica a partire dal giorno successivo alla loro pubblicazione, come stabilito dall'art. 136 della Costituzione, nel senso - precisamente - che da quella data nessun giudice può fare applicazione delle norme dichiarate illegittime, nessun'altra autorità può darvi esecuzione o assumerle comunque a base di propri atti, e nessun privato potrebbe avvalersene, perché gli atti e i comportamenti che pretendessero trovare in quelle la propria regola sarebbero privi di fondamento legale”
72.
Per capire quali scenari si aprono nella fase dell’esecuzione del giudicato di condanna (formato sulla base della Fini-Giovanardi, legge che prevedeva un trattamento sfavorevole per le “droghe leggere”), è opportuno osservare l’atteggiamento conservato dalla giurisprudenza di legittimità in casi assimilabili al presente
73.
Si faranno riferimenti, pertanto, alle sentenze della Corte Costituzionale che negli ultimi anni hanno innovato l’ordinamento espellendo norme penali non incriminatrici in senso stretto. Tra queste ricordiamo, per ricchezza di contributi e spunti di approfondimento, il dibattito insorto a seguito della pronuncia costituzionale num. 249/2010 che ha dichiarato illegittima l’aggravante della clandestinità di cui all’art. 61 n. 11-bis
74 c.p., introdotta legislativamente dal D.L. 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica)
75.
Anche l’intervento caducatorio prodotto dalla declaratoria di illegittimità num. 251/2012 regala occasioni di valutazione utili ai fini del presente scritto, avendo dichiarato incostituzionale l’art. 69, 4° comma, c.p. “nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, DPR 309/1990, possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, 4° comma, c.p.”.
Non saranno dimenticate – anche se in questa sede non potranno essere considerate singolarmente – per affinità di questioni sollevate in executivis, la pronuncia della Corte Costituzionale num. 68/2012 che ha dichiarato illegittimo l’art. 630 c.p. (sequestro di persona a fini di estorsione) “nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità”, la num. 07/2013 che ha dichiarato incostituzionale l’art. 569 c.p. “nella parte in cui stabilisce che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di soppressione di stato, previsto dall’art. 566, secondo comma, del codice penale, consegua di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto”, nonché quella identificata nel numero 183/2011 che ha corretto l’art. 62-bis, 2° comma, c.p. (attenuanti generiche) “nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta del reo susseguente al reato”.
Procedendo con ordine, il primo termine di confronto nella riflessione che segue è offerto dalla sentenza della Corte Costituzionale num. 249/2010
76 che, come anticipato, ha dichiarato incostituzionale l’aggravante della clandestinità di cui all’art. 61 n. 11-bis c.p. (e in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a, c.p.p., limitatamente alle parole «e per i delitti in cui ricorre l’aggravante di cui all’art. 61, primo comma, numero 11-bis c.p.).
Premettiamo che la disposizione normativa che prevede un’aggravante è senz’altro qualificabile in termini di norma penale. Cionondimeno però la circostanza non può essere ricondotta nella tipologia, riguardata dall’art. 673 c.p.p., delle disposizioni incriminatrici ex novo di una condotta altrimenti lecita.
Lo statuto circostanziale del disposto dell’art. 61 n. 11-bis c.p. non si discosta – per quanto qui interessa – dagli effetti prodotti dal combinato degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272: entrambi producono un irrigidimento sanzionatorio in concreto.
Svolte queste premesse, è da chiedersi se in sede d’esecuzione si possano registrare, ed eventualmente come ciò debba avvenire, riflessi positivi dall’annullamento costituzionale dell’aggravante. E quindi, in termini di brutale praticità, se la dichiarazione di incostituzionalità di una aggravante che ha influito sul trattamento sanzionatorio possa comportare la rideterminazione della pena in executivis, con superamento della fermezza del giudicato.
Anticipiamo che in ossequio al decreto del Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione del 06.05.2013, i ricorsi in materia di esecuzione penale, esclusi quelli riguardanti le esecuzioni relativi alla legislazione speciale di competenza della Terza sezione penale
77, confluiscono, ordinariamente, avanti i Giudici della Prima Sezione. L’organizzazione degli Uffici Giudicanti elaborata per il triennio 2012-2014 dunque spiega l’attuale protagonismo della Prima Sezione in materia di esecuzione penale, protagonismo che in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale num. 32/2014 potrebbe essere condiviso – nella materia degli stupefacenti – con la Terza Sezione.
Sebbene la materia sia stata governata sino ad ora da un’unica sezione, non si può tacere che le soluzioni adottate sul punto sono state contrastanti a fronte delle plurime istanze tese all’ottenimento della rideterminazione della pena inflitta, previo scomputo dell’aggravamento derivante dall’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trovava illegalmente sul territorio nazionale.
La Prima Sezione, con sentenza del 27.10.2011 (num. 977, ricorrente: Hauohu), muovendo dal presupposto che l’art. 30, 3° e 4° comma, L. 87/1953 si riferisce a tutte le norme penali, anche quelle non incriminatici in senso stretto, e dalla considerazione che gli artt. 136 Cost. e 30, 3° e 4° comma, L. 87/1953 ostano alla esecuzione della porzione di pena inflitta in conseguenza dell’applicazione di una circostanza aggravante dichiarata illegittima, conclude assegnando “
al Giudice dell'esecuzione il compito di individuare la porzione di pena corrispondente e di dichiararla non eseguibile”
78.
L’approdo interpretativo maturato dalla Prima Sezione con la pronuncia dianzi menzionata è stato riproposto in numerose occasioni
79. Tra le sentenze edite, si ricordano per la chiara presa di posizione, la sentenza del 24.02.2012 (num. 19361, ricorrente: Teteh Assic)
80, nonché quella del 25.05.2012 (num. 26899, ricorrente: H.K.)
81.
Come s’è anticipato, la giurisprudenza della Prima Sezione è stata attraversata da un contrasto interpretativo. La decisione del 19.01.2012 (num. 27640, ricorrente: Hamrouni) infatti raggiungeva – in relazione all’ennesimo ricorso vòlto alla rideterminazione della pena mediante scomputo della porzione di essa corrispondente all’aggravante di cui al num. 11-bis dell’art. 61 c.p. – l’opposta soluzione. “Non è soggetta a revoca "in executivis" la sentenza di condanna intervenuta per reato aggravato da circostanza dichiarata costituzionalmente illegittima successivamente al suo passaggio in giudicato né è consentito al giudice dell'esecuzione dichiarare non eseguibile la porzione di pena corrispondente”.
Le premesse argomentative che hanno condotto la Corte a simile soluzione sono degne di annotazione poiché rappresentano i pretesti invocabili dal Giudice dell’esecuzione per rifiutare qualsiasi intervento sul giudicato di condanna in seguito alla declaratoria di illegittimità della Fini-Giovanardi.
L’operazione ermeneutica esposta dalla sentenza Hamrouni muove dall’inusuale interpretazione dell’ambito di applicazione dell’art. 30, 4° comma, L. 87/1953. Anch’esso, al pari dell’art. 673 c.p.p., si riferirebbe unicamente alla norme penali
stricto sensu incriminatrici, se non fosse stato abrogato implicitamente dall’ultima disposizione citata che l’avrebbe completamente assorbito. Date simili premesse, la pronuncia da ultimo riportata vuole porsi come inno al valore del giudicato, quale punto di arresto alla espansione della retroattività delle sentenze della Corte Costituzionale
82.
Detto contrasto interpretativo non è stato avvertito prontamente sebbene insorto in seno alla Prima Sezione; segno quasi impercettibile della contesa in atto è stato lasciato dalla pronuncia del 27.06.2012 (num. 28465, ricorrente: Lofti).
L’occasione utile per rilevare le difformità giurisprudenziali in atto è stata offerta dalle statuizioni contenute nella pronuncia costituzionale num. 251/2012 che ha sancito l’illegittimità dell’art. 69, 4° comma, c.p. “
nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, DPR 309/1990, possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata, prevista dall’art. 99, 4° comma, c.p.”
83.
La declaratoria di incostituzionalità in questo caso ha riguardato non un accidentalia delicti, ma una disposizione con funzione di predeterminare sfavorevolmente il giudizio di bilanciamento tra circostanze di segno opposto. Tale norma non è ascrivibile alla species delle norme incriminatrici in senso stretto: l’incidenza infatti è circoscritta al trattamento sanzionatorio, lasciando impregiudicata la rilevanza penale delle condotte tipizzate dall’art. 73 D.P.R. 309/1990.
Tanto premesso l’interrogativo affrontato dalla Prima Sezione è stato se in sede d’esecuzione la dichiarazione di incostituzionalità relativa all’applicata disposizione che governava sfavorevolmente il regime di cui all’art. 69 c.p. possa comportare la rideterminazione della pena in executivis, con superamento della fermezza del giudicato.
In risposta all’istanza avanzata al Giudice dell’esecuzione, la Prima Sezione della Cassazione, osservando il contrasto insorto sulla analoga e corrispondente vicenda relativa all’aggravante della clandestinità, ha optato per la remissione della questione all’attenzione delle Sezioni Unite, ritenendo “
difficilmente superabili” le argomentazioni emerse dalla sentenza Hamrouni
84.
La questione a cui è chiesto responso alle Sezioni Unite è “se la dichiarazione della illegittimità costituzionale di norma penale sostanziale, diversa dalla norma incriminatrice (nella specie, appunto, dell'articolo 69, comma quarto, c.p. in parte de qua, giusta sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012), comporti, ovvero no, la rideterminazione della pena in executivis, così vincendo la preclusione del giudicato”.
L’appuntamento con le Sezioni Unite, fissato per l’udienza del 29.05.2014, è atteso ora dalla stipata schiera di detenuti per fatti connessi al traffico di droghe leggere.
Altra sentenza della Corte Costituzionale che non può essere dimenticata prima di passare oltre è quella che ha dichiarato illegittimo l’art. 630 c.p. (sequestro di persona a fini di estorsione) “
nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità”
85.
L’ultimo caso menzionato si discosta dai precedenti in quanto l’illegittimità si appunta sulla mancata previsione legislativa di una ipotesi lieve di sequestro di persona a fini di estorsione
86, analoga, nella struttura e negli effetti, a quella applicabile, in forza dell’art. 311 c.p., al delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, previsto dall’art. 289-bis del medesimo codice. L’interesse per l’ennesima sentenza della Consulta riportata dipende dalla circostanza che a seguito della censura costituzionale dell’art. 630 c.p. sono stati avanzati ricorsi per la correzione del giudicato, previo riconoscimento della lieve entità della condotta ascritta. L’assenza, al tempo del giudizio, di un’ipotesi di lieve entità per i fatti di sequestro di persona a scopo estorsivo impone ai Giudici della Prima Sezione, intenzionati a tenere fede alla prevalente opinione espressa, di effettuare un
distinguishing rispetto alla soluzione individuata nel caso dell’aggravante di cui al num. 11-bis art. 61 c.p. Infatti, diversamente da quest’ultima ipotesi in cui si pretende dal Giudice dell’esecuzione lo scomputo della porzione di pena illegittima, con l’introduzione “costituzionale” di una fattispecie minore non è automatica l’individuazione in condanna di una eccedenza sanzionatoria. Salvo che in sede di cognizione si sia fatta – per felice intuizione del Giudicante – esplicita qualificazione della condotta in termini di lieve entità, la rideterminazione della pena definitivamente comminata avrebbe sempre come precondizione una ridefinizione del fatto, con fuoriuscita dalla cornice tracciata dal libro X del codice di rito. Queste dunque le parole dalla Cassazione: “
Se il giudice dell'esecuzione ha dunque, in astratto, il potere di adeguare la pena alla legittimità del sistema normativo vigente, in quanto in forza degli artt. 136 Cost. e 30, commi terzo e quarto, legge n. 87 del 1953 le norme dichiarate incostituzionali non possono trovare applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, (Cass., Sez. 1, 27 ottobre 2011, n. 977, rv. 252062, P.M. in proc. Hauohu) nella fattispecie tuttavia il giudice dell'esecuzione, non potrebbe esimersi dall'effettuare una nuova e inammissibile valutazione di merito, non potendo essere sufficiente una mera attività ricognitiva circa la già avvenuta ravvisabilità della fattispecie (anche circostanziale) e una semplice attività di emersione di efficacia. Al contrario, viene richiesto un nuovo accertamento fattuale, la modifica del piano concettuale del giudizio, non più tangibile, che impedisce definitivamente e per sempre l'interpretazione invasiva del giudicato ancorché al solo fine di uniformarlo all'ordinamento vigente”
87.
Analoghe criticità potrebbero affiorare a seguito di ricorsi avanzati per conseguire la diminuente di cui all’art. 62-bis c.p. negata per effetto della limitazione introdotta nel 2° comma dall’art. 1 L. 05.12.2005, n. 251 dichiarato incostituzionale con la sentenza num. 183/2011 “
nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta del reo susseguente al reato”
88. Quindi, pare scontato che un ricorso al Giudice dell’esecuzione per far valere la parziale illegittimità della pena a seguito della declaratoria di incostituzionalità del 2° comma del’art. 62-bis c.p. avrebbe poche probabilità di riuscita.
Non meno complessa – per esaurire l’analisi promessa su casi affini – la situazione a seguito della sentenza costituzionale num. 07/2013 che ha dichiarato incostituzionale l’art. 569 c.p. “
nella parte in cui stabilisce che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di soppressione di stato, previsto dall’art. 566, secondo comma, del codice penale, consegua di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto”
89. Non è il Giudice di cui all’art. 665 c.p.p. legittimato ad un’analisi in concreto dell’interesse del minore rispetto alla sanzione accessoria della perdita della potestà genitoriale. Ancora una volta il dubbio non sembra cadere sulla tangibilità o meno del giudicato penale; piuttosto è constatata la carenza di disposizioni che riconoscano al giudice dell’esecuzione poteri di intervenire sull’accertamento del fatto per cui v’è stata condanna
90.
Il tema delle sanzioni accessorie offre lo spunto per un richiamo a quella giurisprudenza che in tempi non sospetti anteponeva il principio di legalità della pena al valore del giudicato. L’erronea applicazione della interdizione perpetua dai pubblici uffici in luogo di quella temporanea ha offerto l’occasione alla Cassazione per elargire provvidi insegnamenti di grande attualità. “Questa Corte dopo avere affermato che la comminazione di una pena illegittima è rilevabile anche in sede di esecuzione, dovendo la pena essere considerata come inesistente (Sez. III, 24-6-1980, Sanseverino; Sez. I, n. 1436 del 25-6-1982, Carbone, rv. 156163), ha successivamente ribadito il suo insegnamento, osservando che il principio di legalità della pena di cui all'art. 1 c.p. non può ritenersi operante solo in sede di cognizione, di talché anche in sede di esecuzione può rilevarsi l'applicazione di una pena illegittima (Sez. V, n. 809 del 29-4-1985, Lattanzio, rv. 169333).
In linea con il predetto insegnamento questa Corte ha poi affermato - dopo avere ripetutamente insegnato che il principio di legalità della pena è applicabile anche alla pena accessoria (Sez. II, n. 595 del 22-1-1988, Gualano, rv. 180210; Sez. III, n. 652 del 23-9-1987, Lofonso, rv. 177435; Sez. II, n. 11230 del 4-7-1985, Gioffrè, rv. 171202; Sez. V, n. 6280 del 21-3-1985, De Negri, rv. 169897) - che l'erronea applicazione, da parte del giudice di cognizione, di una pena accessoria predeterminata per legge nella specie e nella durata - e quindi sottratta, come nel caso di specie, alla valutazione discrezionale del giudice - può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione ovvero, quando venga dedotta con ricorso per cassazione, anche dal giudice di legittimità, che sul punto relativo può direttamente dichiarare l'ineseguibilità della sentenza, stante la sua evidente contrarietà alla legge (Sez. II, n. 4492 del 13-11-1996, P.M. in proc. Kenzi, rv. 206850)”
91.
Dirimente forse è pensare allora ad una pena illegittima come ad una pena inesistente, posta al di fuori tanto dai principi fondamentali del sistema penale quanto dall’ordinamento giuridico; inesistente ed ineseguibile: “
nessun giudice può fare applicazione delle norme dichiarate illegittime, nessun'altra autorità può darvi esecuzione o assumerle comunque a base di propri atti, e nessun privato potrebbe avvalersene, perché gli atti e i comportamenti che pretendessero trovare in quelle la propria regola sarebbero privi di fondamento legale”
92.
Se da una parte ci si chiede “
con che diritto”
93 dare esecuzione a sentenze di condanna che fanno applicazione di norme dichiarate illegittime, dall’altra rimane insoluta la questione relativa all’individuazione dello strumento processuale che consenta di detrarre la cifra della illegittimità da un giudicato.
Quanto esposto induce chi scrive a credere alla possibilità di rimuovere gli effetti della sentenza di condanna irrevocabile al cospetto di particolari sopravvenienze. Ed è a pieno diritto che la declaratoria di incostituzionalità relativa ad una norma che ha contribuito al percorso decisionale del giudice e che trova riscontro immediato in condanna è annoverabile tra tali evenienze.
Simile conclusione è stata anticipata dalla discussione intavolata dalla Commissione dei Settantacinque là dove valutava l’opportunità (poi esclusa) della formulazione del principio di intangibilità del giudicato nella Carta Costituzionale. Direzione peraltro confermata dai più recenti interventi del legislatore che ammettono la cedevolezza del giudicato nelle ipotesi di cui al 3° comma dell’art. 2 c.p., anteponendo lo statuto dei diritti fondamentali alla certezza del diritto e alla pretesa ordinamentale di dare esecuzione ad una sentenza divenuta definitiva, nonché dalla tendenza ad estendere l’ambito di operatività dell’art. 673 c.p.p.
94.
A livello giurisprudenziale le richiamate sentenze, su cui più sopra ci si è dilungati, rappresentano l’espressione applicativa di questa sensibilità particolare alle istanze individuali del condannato.
La sostanziale univocità di contributi ed impulsi raccolti nel presente scritto sembra sufficiente a giustificare le pretese di correzione della sentenza definitiva avanzate da quanti sono stati condannati per traffico di droghe leggere con applicazione delle modifiche introdotte dal D.L. 272/2005.
Le criticità maggiori si insinuano nel momento operativo che presuppone l’individuazione dello strumento processuale che permetta le auspicate manovre sulla pena. Pur ammettendo quindi che l’art. 30, 4° comma, legge n. 87 del 1953, comporti la cessazione dell’esecuzione e di tutti gli effetti penali della sentenza che faccia governo di disposizione incostituzionale, non è chiaro davvero quale sia il meccanismo che consenta di conseguire detti esiti. Non si può dissentire da quanti vedono nell’istituto della revoca del giudicato, disciplinato dall’art. 673 c.p.p., un dispositivo eccessivo e non calibrato sulle legittime pretese del condannato
95, né discordare dall’obiezione per cui applicare l’art. 673 c.p.p. al caso in esame sarebbe frutto di un’operazione lontana anche dal modulo dell’analogia
96. Avanguardisticamente il ricordato progetto di riforma del codice promosso dalla Commissione Pisapia discorre di rideterminazione della pena per casi assimilabili al presente. Rimane però il dilemma del mezzo processuale spendibile, poiché se la gestione della esecuzione della sentenza è consegnata alla competenza del giudice dell’esecuzione, la strada dovrebbe essere individuata tra i poteri tipici ad esso riconosciuti, tra cui non risulta – ad oggi – la rideterminazione della pena per effetto dell’annullamento costituzionale di norma non incriminatrice
97.
3.3. (continua): Era necessario il rinvio alle Sezioni Unite?... alcuni spunti dalle Sez. Un. Ercolano e dalla conseguente sentenza della Corte Costituzionale 210/2013
Sebbene il ragionamento sin qui condotto suggerisca di preferire la legalità e la libertà personale del condannato alla firmitas del giudicato, si attende – come anticipato – un pronunciamento risolutivo delle Sezioni Unite sulla questione “se la dichiarazione della illegittimità costituzionale di norma penale sostanziale, diversa dalla norma incriminatrice (…), comporti, ovvero no, la rideterminazione della pena in executivis, così vincendo la preclusione del giudicato”.
Non nascondiamo che la remissione della questione coglie di sorpresa poiché segue una netta presa di posizione delle stesse Sezioni Unite e della Consulta in relazione alla tangibilità del giudicato penale. Ci si riferisce alla nota sentenza del 19.04.2012 (num. 34472, ricorrente: Ercolano) che rappresenta un episodio dell’avvincente “saga Scoppola”.
Un inquadramento della vicenda, per quanto conosciuta, è d’obbligo. Tutto prende le mosse dalla sentenza del 17.09.2009 pronunciata dalla Grande Camera della Corte Europea che ha accertato la violazione dell’art 7 CEDU da parte dell’Italia per non aver applicato retroattivamente la lex mitior intermedia, rappresentata dalle disposizioni introdotte dalla L. 479/1999 (legge Carotti) all’art. 442 c.p.p. I Giudici di Strasburgo sostengono l’accertamento in parola affermando che “(punto 106) Dalla decisione X c. Germania (ndr, X c. Germania, ricorso avente num. 7900/77, decisione della Commissione del 6 marzo 1978), si è progressivamente formato un consenso a livello europeo e internazionale per considerare che l’applicazione della legge penale che prevede una pena meno severa, anche posteriormente alla perpetrazione del reato, è divenuta un principio fondamentale del diritto penale (...). (punto 109) l’articolo 7 § 1 della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa. Questo principio si traduce nella norme secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato”.
La Corte EDU ha dunque ritenuto che l’art. 7 della Convenzione, così come interpretato nella presente sentenza, imponeva alle Autorità italiane di far beneficiare il ricorrente degli effetti dell’articolo 30 della legge n. 479 del 1999 per effetto della quale, pur imputato per reato punito con l’ergastolo ed isolamento diurno, avrebbe potuto chiedere la celebrazione del giudizio abbreviato con conseguente sostituzione dell’ergastolo con la pena della reclusione di trent’anni.
Tanto accertato in sede europea, nell’interesse dello Scoppola veniva promossa impugnazione straordinaria ai sensi dell’art. 625-bis c.p.p.
98 vòlta alla revoca della sentenza pronunciata dalla corte di assise di appello di Roma il 10.01.2002.
L’attenzione non può che scivolare allora sulle premesse raccolte dalla Cassazione per risolvere la vicenda processuale dello Scoppola. Pur giudicando “pienamente conforme alla normativa vigente” l’ipotesi procedurale di “affidare al giudice dell'esecuzione il compito di sostituire la pena inflitta”, e quindi ritenute, da una parte, superabili le statuizioni su cui sarebbe già calata la cortina del giudicato, e dall’altra competente a ciò il giudice dell’esecuzione, per mere ragioni d’economia processuale, la Cassazione ha optato per l’annullamento senza rinvio con immediata sostituzione della sanzione.
L’esito positivo del ricorso promosso dallo Scoppola induceva quanti altri si reputavano vittime della medesima violazione a percorrere analoghe vie. Ciononostante, per effetto delle preclusioni di cui all’art. 35 della Convenzione, non per tutti era possibile replicare sullo scacchiere internazionale le mosse dello Scoppola
99.
Tra essi, Ercolano: questi, per recuperare altrimenti i risultati positivi conseguiti a Strasburgo, ove era stato reso un giudizio negativo sulla legislazione italiana
100, attivava il rimedio esecutivo ex artt. 666 e 670 c.p.p., pretendendo dal giudice dell’esecuzione, nella fattispecie si trattava del Tribunale di Spoleto, la sostituzione della pena dell'ergastolo con quella temporanea di anni trenta di reclusione, come insegnato dalla CEDU. In assenza di un titolo esecutivo europeo a cui dare esecuzione, l’istanza veniva disattesa. Investita del ricorso la Prima Sezione, il Consigliere delegato per l’esame preliminare, con nota del 1 marzo 2012, segnalava l’opportunità di assegnare il ricorso alle Sezioni Unite, stante la speciale importanza delle questioni implicate
101.
Dopo aver avvertito l’interprete che il caso sottoposto al più autorevole organo di nomofilachia “
non è dissimile da ogni altra situazione in cui vi sia stata condanna in forza di una legge penale dichiarata ex post
, nella sua parte precettiva o sanzionatoria; illegittima o comunque inapplicabile, perché in contrasto con norme di rango superiore alla legge penale medesima”, e riscontrata in atto la “
crisi dell'irrevocabilità del giudicato”
102, le Sezioni Unite affermano che la “
esigenza imprescindibile di porre fine agli effetti negativi dell’esecuzione di una pena contra legem” opera a detrimento dell’intangibilità del giudicato, il quale “
deve cedere, anche in executivis
, alla ‘più alta valenza fondativa dello statuto della pena’”.
Difettando
103 qualsiasi meccanismo che consentisse al giudice nazionale di mutuare dalla sentenza resa nei confronti dell’Italia nel ricorso individuale num. 10249/03 il principio di diritto ed estenderne quindi l’applicazione
erga omnes, le Sezioni Unite provvedevano a rimettere alla Consulta la questione di legittimità degli artt. 7 e 8 D.L. 341/2000, alla luce degli artt. 3 e 117, 1° comma, Cost, quali parametri del vaglio di costituzionalità.
La valutazione nel giudizio d’esecuzione
104 di rilevanza della questione sollevata in relazione a disposizioni applicate nel corso del giudizio di cognizione è la più efficace dimostrazione della validità della tesi qui sostenuta, vale a dire della tangibilità del giudicato al cospetto di una declaratoria di incostituzionalità, al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 673 c.p.p.
Infatti, se la remissione degli atti alla Corte Costituzionale è subordinata alla rilevanza concreta ed attuale dell’incidente rispetto all’esito del giudizio a quo, nel caso in esame si desume a fortiori la cedevolezza del giudicato a fronte dell’annullamento costituzionale della legge utilizzata per la formazione dello stesso.
Orbene, gli sforzi delle Sezioni Unite nel motivare in punto di rilevanza (punto 11 dei considerato in diritto) sono favoriti dalla disponibilità di principi giurisprudenziali preconfezionati nel caso Hauohu
105, a cui danno prova di massima adesione: “
l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità delle norme interne innanzi citate, avendo una forza invalidante ex tunc
, la cui portata, già implicita nell'art. 136 Cost., è chiarita dalla L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30 inciderebbe sull’esecuzione ancora in corso della pena illegittimamente inflitta al ricorrente in applicazione della più severa norma penale sostanziale, sospettata, nella parte relativa alla sua efficacia retroattiva, di essere in contrasto con la Carta fondamentale”.
La Corte Costituzionale
106 appropriandosi della impostazione assunta dalle Sezioni Unite rimettenti ha attestato a sua volta la rilevanza, e quindi ammissibilità, dell’incidente di costituzionalità ammettendo che l’ordinamento “
conosce ipotesi di flessione dell'intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato. Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo”.
Svolta un’articolata ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale, la sentenza si chiude con la declaratoria di illegittimità dell’art. 7 D.L. 341/2000 per violazione dell’art. 7 CEDU, che integra il parametro interposto di costituzionalità attraverso il richiamo all'art. 117, 1° comma, Cost.
Espunta dall’ordinamento la disposizione in parola, lo
strumento valutato congeniale a correggere il giudicato modellato sul disposto illegittimo è individuato nel rimedio esecutivo. Il Giudice dell’esecuzione, dotato di una competenza ampia non circoscritta ad intervenire sulle questioni attinenti alla validità ed efficacia del titolo posto in esecuzione, risulta abilitato, in vari casi, ad incidere sul titolo (artt. 669, 670, comma 3, 671, 672 e 673 c.p.p.). Per ragioni di completezza espositiva, è opportuno segnalare il progressivo “slittamento verso compiti e poteri che sono tipici del giudice della cognizione”: come nel caso di revoca parziale del giudicato, limitata ad uno o più reati, così in costanza di rideterminazione del trattamento sanzionatorio (con eventuale concessione della sospensione della pena) quando l’abolitio coinvolga il reato più grave nel meccanismo di cui all’art. 81, 2° comma, c.p.107
Reinvestite del ricorso Ercolano, le Sezioni Unite, con sentenza del 24.10.2013
108, offrono la migliore occasione per superare qualsiasi resistenza a riconoscere vincibile il giudicato penale.
La pronuncia da ultimo richiamata quindi apporta un nuovo decisivo contributo alla tesi qui argomentata che pretende di assegnare ai condannati in executivis per reato di traffico di droghe leggere il diritto di ottenere una rimodulazione della pena in seguito alla declaratoria di costituzionalità che si commenta attivando il rimedio d’esecuzione.
I principi di diritto cui pervengono nell’ordine le Sezioni Unite il 19.04.2012, la Corte Costituzionale con la sentenza 210/2013, ed infine la sentenza che segna l’epilogo del caso Ercolano, sono estendibili alla fattispecie di chi è stato condannato per traffico di droghe leggere in virtù del D.P.R. 309/1990 come modificato dal D.L. 272/2005. L’omogeneità delle situazioni passa attraverso la Costituzione, una pronuncia di incostituzionalità e l’esistenza di situazioni che pretendono l’irrevocabilità applicando una pena illegittima.
La parola conclusiva dunque non può che essere lasciata alle stesse Sezioni Unite che ribadiscono – di ritorno dal Palazzo della Consulta – che il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona
109.
Pur rassicurati sulla sostenibilità della pretesa di correggere il giudicato di condanna formato sulla Legge Fini-Giovanardi a seguito della sentenza costituzionale num. 32/2014, rimane ancora aperto il quesito relativo all’individuazione del meccanismo procedurale più congeniale a conseguire ciò.
Si rammenta come già anticipato che la revoca del giudicato risulterebbe dispositivo sovrabbondante rispetto alle legittime pretese del reo tese ad una rideterminazione della pena, previo scomputo della porzione ineseguibile.
Anche su questo punto la sentenza in parola consegna spunti di riflessione decisivi: “non è estraneo alla ratio del richiamato L. n. 87 del 1953, art. 30, comma 4, l'impedire che anche una sanzione penale, per quanto inflitta con una sentenza divenuta irrevocabile, venga ingiustamente sofferta sulla base di una norma dichiarata successivamente incostituzionale: la conformità a legge della pena, e in particolare di quella che incide sulla libertà personale, deve essere costantemente garantita dal momento della sua irrogazione a quello della sua esecuzione”.
Tra i poteri implicitamente riconosciuti al Giudice dell’esecuzione, le Sezioni Unite, riscontrano anche quello di incidere sul titolo esecutivo, per sostituire la pena inflitta con quella conforme a legge. Sebbene a seguito della sentenza costituzionale 32/2014 sia stata annullata una legge che contemplava un aggravio sanzionatorio per condotte inerenti al traffico di droghe leggere, e sebbene non si faccia questione di sostituzione di una pena illegittima, ma di rideterminazione della sanzione, non pare sostenibile alcuna distinguo, premessa che condurrebbe a divergenti risultati, come invero effettuata nell’ipotesi di introduzione costituzionale di una ipotesi di reato mitior (Corte Cost. 68/2012).
Archiviate le resistenze alla rimozione del giudicato enunciate dalla Cassazione nel caso Hamrouni, superata quindi anche la ragione della rimessione della questione alle Sezioni Unite
(“se la dichiarazione della illegittimità costituzionale di norma penale sostanziale, diversa dalla norma incriminatrice (…), comporti, ovvero no, la rideterminazione della pena in executivis, così vincendo la preclusione del giudicato”), il più recente intervento delle Sezioni Unite peraltro ostacola (perché pone le premesse per un eventuale giudizio di inammissibilità) l’ipotesi di un’eventuale questione di costituzionalità degli artt. 670, 671 e 673
110 c.p.p. nella parte in cui non prevedono espressamente il potere di rideterminare la pena a seguito di una declaratoria di incostituzionalità di norma penale sostanziale non incriminatrice
ex novo.
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NOTE