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Exodus - La lacerazione interiore di molti artisti russi
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Articolo di Redazione
11 marzo 2022 11:28
 
Dimissioni al Bolshoi a Mosca, una lettera di fuoco dal “Piccolo teatro” di San Pietroburgo. La guerra lacera il mondo della cultura della Russia. Un numero sempre maggiore di artiste e artisti volta le spalle a Putin
Al gruppo di artisti russi, che prendono posizione contro l’invasione della Ucraina da parte di Putin e non fanno come se la guerra non ci fosse, appartiene anche lui: Tugan Sochijew, dal 2014 direttore principale del teatro Bolscioi di Mosca. Il direttore musicale del Teatro dell’Opera famoso in tutto il mondo ha dato le dimissioni domenica dal suo posto e, al contempo, ha abbandonato anche il suo incarico di direttore musicale dell’orchestra nazionale del Teatro dell’opera “Capitole” di Tolosa. Ha fatto questo perché si sente sotto pressione, richiesto com’è di fare dichiarazioni - cosa a cui in questo periodo si trovano esposti molti artisti russi. Si veda, per esempio, il collega direttore Valery Gergiev che, tra l’altro, ha perso gli ingaggi a Monaco di Baviera e a Milano per non aver preso posizione pubblicamente sulla guerra in Ucraina. Sochijew (44 anni) scrive di essersi trovato di fronte a una “scelta insopportabile”, cioè di dover decidere tra la sua orchestra russa e la sua orchestra francese; a dover scegliere tra due tradizioni culturali. Molte persone, continua Sochijew, si sarebbero aspettate da lui una posizione “su quello che sta avvenendo adesso”. “Gli eventi attuali” – di guerra non parla esplicitamente – hanno provocato in lui dei “sentimenti complessi”.

Sono sentimenti di lacerazione. Sentimenti che inquietano oggigiorno molte artiste e artisti in Russia. Sochijew, che dal 2021 al 2016 è stato anche direttore principale dell’Orchestra sinfonica tedesca di Berlino, scrive anche di non avere mai sostenuto conflitti armati; accettare che egli possa “come musicista avere a cuore qualcosa di diverso dalla pace sul nostro pianeta”, lo trova scioccante e offensivo. Ma adesso l’Europa lo costringe “a fare una scelta e a preferire un membro della mia famiglia musicale a un altro”. Per Sochijew è impossibile: “Tra poco verrò esortato a scegliere tra Tschaikowsky, Strawinsky, Schostakowitsch e Beethoven, Brahms, Debussy. Ciò accade già in Polonia , un Paese europeo, nel quale è proibita la musica russa”. Qui però il, direttore d’orchestra si spinge troppo oltre: in Polonia alcuni organizzatori hanno tolto dal programma la musica russa, ma essa non è affatto proibita.

Le dimissioni di Sochijew sono una “questione molto seria”, si è fatto sapere dal teatro Bolscioi. “Non è chiaro come si svilupperà la situazione”, ha dichiarato l’intendente Wladimir Urin che aveva firmato un appello contro la guerra e per questo è stato attaccato violentemente dai media russi vicini al governo. Sochijew, un artista tra i mondi, insignito in Russia dell’ordine al merito di prima classe per la patria allo stesso modo che in Francia, anche qui insignito di un ordine al merito, è fino a questo momento il caso più rilevante in una serie di artisti che hanno lasciato il lavoro dall’aggressione di Putin all’Ucraina. Elena Kovalskaya si è dimessa, il subito, giorno successivo all’invasione, da direttore del Centro teatrale moscovita Meyerhold; anche Mindaugas Karbauskis, direttore del Teatro Majakowski ha rinunciato al suo posto. Intanto le direttrici e i direttori di cinque teatri di Stato si sono dimessi per protesta, il loro teatro dovrebbe perciò momentaneamente essere accorpato a un altro, dichiara al telefono alla SZ una [non meglio precisata] drammaturga moscovita.

“Il cervello si irrigidisce e si rifiuta di vedere immagini simili”
Altri artisti, nonostante le rappresaglie, hanno formulato la loro protesta e le loro dichiarazioni sui social. La rivista russa “Spectate” parla di una lettera aperta “per la pace in Ucraina”, sostenuta da diciottomila fra artisti e personalità della cultura. Nel frattempo la raccolta delle firme sarebbe stata fermata, i nomi dei firmatari tenuti sotto chiave per motivi di sicurezza. Anche la rivista si vede costretta a misure precauzionali. La guerra viene chiamata “operazione militare speciale”, ma la parola viene contrassegnata con un asterisco. “*su richiesta dello stato non possiamo chiamare altrimenti ‘l’operazione militare speciale’”, scrive la redazione sotto il testo e ricorda subito anche l’articolo 54 della Costituzione della Federazione Russa, secondo il quale le leggi non devono essere retroattive – neppure quella che proibisce l’uso della parola “guerra” in relazione all’Ucraina con la minaccia di una detenzione fino a 15 anni.

In una commovente lettera il grande Vecchio del teatro russo, Lev Dodin, si è rivolto direttamente a Putin. Colui che è stato per molti anni il direttore del PiccoloTeatro (Teatro Maly) di San Pietroburgo comincia con queste parole: “Dire che sono ‘scosso’ - sarebbe dire niente”. Dodin, classe 1944, continua: “Per me, figlio della grande guerra patriottica, questo non sarebbe stato immaginabile neppure negli incubi: missili russi lanciati sulle città ucraine … Il cervello si irrigidisce e si rifiuta di vedere, di sentire, di figurarsi immagini simili”. Parole che danno una scossa quelle pronunciate da un regista teatrale, noto ben oltre i confini russi, molto influente nella sua patria e carico di onori conferitigli dallo Stato. Questo regista che nella sua infanzia ha giocato “alla difesa di Mosca, Leningrado e Kiev, come scrive lui stesso, e che definisce molto chiaramente cosa sta succedendo: la ricerca di nemici interni ed esterni, la diversa interpretazione del passato, la reinterpretazione del presente. La sua lettera termina con queste frasi: “Ho 77 anni e durante la mia vita ho perduto tante persone, che ho amato. Oggi che invece delle colombe della pace volano sulle nostre teste missili di odio e di morte, mi riesce dire solo una cosa: Stop! Faccio l’unica cosa che posso, imploro: La smetta! La smetta!

Finora non è dato sapere se per Dodin vi siano conseguenze minacciose per le sue parole. A due suoi colleghi è successo così – il più importante festival teatrale russo, la “Maschera d’argento”, che si svolge in questo periodo a Mosca, ha operato dei cambiamenti spontanei al programma. Il regista Maxim Isajev, una settimana fa, dal palcoscenico del Teatro Tagaka, aveva esortato Putin a por fine alla guerra – la seconda replica della sua opera “La fiaba del gallo d’oro” è stata cancellata. Il direttore d’orchestra Ivan Welikanov era già stato cassato prima dal programma, dopo che anche lui aveva preso posizione contro la guerra – l’Inno alla gioia lo ha diretto ora Fabio Mastrangelo.

Molti persone dell’ambiente culturale, che sono critiche nei confronti della guerra, non vogliono più rischiare. Alcuni ricordano il tempo dell’esodo di cento anni fa, quando la leadership bolscevica dell’allora giovane Unione sovietica buttò fuori dal paese gli “elementi controrivoluzionari attivi e l’ intelligenzija borghese“, pensatori ed intellettuali malvisti. Essi arrivarono con una nave nell’Europa occidentale, l’azione è conosciuta con il termine “la nave dei filosofi”. Nel colloquio fatto con la SZ la drammaturga russa [a cui ci si è riferiti all’inizio] fa un altro paragone, quello con l’anno 1937, quando il servizio segreto NKWD, su incarico di Stalin, arrestò con la “grande purga” più di un milione di persone, che erano sospettate di non essere abbastanza fedeli alla linea del partito. “Non si può essere abbastanza cauti”, dice la drammaturga che sta esaminando quando e in quale paese emigrare.

A Eriwan esplodono i prezzi degli affitti
Kantamir Balagov, regista e vincitore di due premi al festival di Cannes nel 2019, lo ha già fatto; su Twitter ha postato l’immagine di un aeroporto: “Abbiamo lasciato la Russia”, ha scritto domenica. “Da un momento all’altro ci è stato rubato il futuro, ma una cosa non ce la possono strappare – il CINEMA”. Il suo cuore, continua, è con gli Ucraini e quei Russi che insorgono contro “l’incubo”.
Anche l’autrice Ljudmila Ulitzkaja non è più nel Paese, dagli ambienti editoriali si viene a sapere che il presidente tedesco del PEN- Club, Deniz Yücel, sa di un altro autore fuggito, il cui nome, nel colloquio con la SZ, non vuole rivelare, per motivi di sicurezza,. La sua associazione potrebbe tuttavia diventare attiva: il governo federale si è già avvicinato, fra l’altro, al Centro PEN di Germania, per trovare soluzioni per scrittrici e scrittori in fuga, come ha confermato lunedì alla SZ Astrid Vehstedt, responsabile del programma “Scrittori in esilio”.

A causa della legge sulle fake news, oltre agli operatori culturali, fuggono dal Paese soprattutto i giornalisti. Tikhon Dzyadko, capo redattore dell’emittente di opposizione "Dozhd", la settimana scorsa ha mandato a casa tutti i collaboratori, dopo che le prime minacce hanno raggiunto la redazione. In seguito a ciò l’emittente ha terminato i suoi programmi mandando in onda la stessa registrazione del “Lago dei cigni”, che la televisione di Stato, nel 1991, aveva trasmesso durante il tentativo di colpo di stato dei comunisti intransigenti; Dzyadko è fuggito con la sua famiglia a Istanbul. Il giornalista Alexej Kovalev, che dirige la piattaforma investigativa „Meduza“, è riuscito ad arrivare, prendendo diversi taxi, in otto ore al confine con la Lettonia, che ha potuto varcare dopo altre tre ore, come informano alcuni suoi conoscenti. La rivista moscovita “The Village”, che, in realtà, do informazioni più sullo stile di vita che sulla politica, ha spostato l’intera redazione a Varsavia, dopo che, giovedì scorso, era stato bloccato il suo sito internet. Da un sondaggio della rivista investigativa “Agents” risulta che più di 150 collaboratori di 17 organizzazioni che lavorano nei media, avrebbero abbandonato il Paese.

Fra di loro c’è anche Marina Davydova, capo redattrice della rivista “Teatr” e direttrice artistica del Festival moscovita “NET”. Con l’aiuto dell’ambasciatore lituano, Davydova è fuggita da Mosca. Dopo aver lanciato una petizione contro la guerra, è stata minacciata con telefonate e mail e sulla porta di casa sua è stato lasciato un segno nero, “il che significa che ora che mi si può fare di tutto, bruciarmi la casa, assassinarmi in un vicolo buio”. Era spaventata a morte. Ora ella è a Vilnius e non sa come andare avanti. I suoi bancomat e carte di credito russe non funzionano all’estero, e da una banca in Austria, di cui è ancora cliente, ha ricevuto la notizia che il suo conto è stato bloccato. “Sono disperata”, scrive in una mail.

Meta di chi parte sono soprattutto quei Paesi che non hanno sospeso il traffico aereo con la Russia. Fra di essi co sono la Turchia, i Paesi del Caucaso, Azerbaigian e Georgia e anche Israele. Lì gli immigrati dalla ex Unione Sovietica rappresentano oltre il 20 per cento della popolazione ebraica. Essi possono offrire a diversi nuovi arrivati da San Pietroburgo, Mosca o Ekaterinburg anche dei legami familiari. Poiché i cittadini russi non hanno bisogno di visti, anche la capitale dell’Armenia sta diventando un centro di una nuova generazione di dissidenti russi – e sta vivendo così come un dejà vu: già al tempo dell’Unione sovietica Eriwan era una meta popolare tra artisti e studenti che speravano di trovare nella provincia, lungi dalla centrale del potere sovietico, un clima più liberale. Oggi dei giornalisti armeni informano che il numero degli aerei in arrivo da Mosca è quadruplicato: venerdì sono arrivati 24 velivoli, mentre normalmente ne arrivano dai tre ai cinque, scrive , per esempio, Todar Baktemir su Twitter. “In ogni angolo si sentono voci russe angosciate, i prezzi degli alloggi crescono di ora in ora”. Ciò è in linea con quanto dichiara una studentessa forestiera: il suo padrone di casa le ha telefonato chiedendole se non volesse andarsene prima del previsto. Altrimenti dovrebbe pagare un affitto notevolmente più alto – la stanza adesso ha un valore maggiore.

(Da Süddeutsche Zeitung, 7 marzo 2022)
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