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Guerra alla droga. La vittima principale è la civiltà giuridica liberale
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Articolo di Pietro Yates Moretti
3 agosto 2010 14:05
 
La guerra alla droga è figlia non solo di un'ideologia moralistica e paternalista, ma anche di una epocale rottura con la tradizione giuridica liberale. Le politiche di diritto penale si sono conquistate nei secoli principi fondamentali come la proporzionalità fra pena e reato, fra severità della sanzione e il bene offeso. Il reo è giudicato come singolo, e mai come appartenente a categorie o classi: l’essere nero, tossicodipendente, povero o straniero non puo’ essere, in una concezione liberale, un fattore rilevante se non per individuare le motivazioni, le circostanze in cui l’individuo ha agito.
Con la guerra alla droga si arriva invece a individuare la pericolosità del soggetto non in base a criteri individuali, ma in base alla sua appartenenza ad una categoria (il tossicodipendente, il drogato). Si creano tabelle con quantità minime e massime, con pene fisse e obbligatorie senza tener conto della sfera individuale e delle circostanze. Si creano categorie di individui che pongono un rischio per la società, e si punisce in base all’appartenenza a questa categoria. Il bene offeso dall’assunzione di sostanze stupefacenti non è individuabile in concreto, ma è astratto: non è la salute dell’individuo che si vuol proteggere (il carcere sarebbe certamente inidoneo a far questo, e comunque l'individuo è libero di farsi del male), ma il senso collettivo di sicurezza. Chi si droga è colpevole perché aderisce ad un comportamento reputato antisociale, comportamento che a sua volta contribuisce al senso di insicurezza e alla paura della criminalità (anche quando il tasso di criminalità diminuisce). Ed ecco che la pena (il carcere), invece di essere rieducativa diventa repressiva, retributiva e persino preventiva.
E’ questa la rivoluzione, o meglio la regressione, ad una penalità primitiva e istintiva, che ha portato gli Stati Uniti a raggiungere livelli di carcerizzazione astronomici. Oggi negli Usa sono in carcere 2,3 milioni di persone, buona parte delle quali per reati di droga, buona parte poveri, neri o di origine sudamericana. E lo stesso sta accadendo in Europa, e in Italia, non solo grazie alle politiche sulle droghe ma anche a quelle sull’immigrazione. Le carceri italiane sono abitate soprattutto da tossicodipendenti e da stranieri.
Alla discriminazione insita in questa nuova penalità, che individua e sanziona i rei in base alla loro appartenenza a gruppi ritenuti pericolosi, c’e’ la discriminazione istituzionale. Le forze dell’ordine organizzano le proprie pratiche –preventive- prendendo di mira le ‘categorie a rischio’, ovvero i soggetti che all’apparenza sembrano appartenere a quelle categorie. Si moltiplicano le operazioni di controllo del territorio mirate a individuare tossicodipendenti (esami tossicologici non giustificati da controlli stradali) e immigrati (chi è nero ha molte piu’ probabilità di dover mostrare i propri documenti alla polizia anche se perfettamente regolare o cittadino italiano). Al contempo c’e’ la discriminazione nelle aule di giustizia, determinata dalle norme più che da un comportamento deliberato dei giudici (basti pensare che all’immigrato clandestino raramente vengono concesse misure alternative al carcere perche’ non ha fissa dimora). Si crea quindi un circolo vizioso, per cui chi appartiene a certe categorie ‘a rischio’ finisce nell’ingranaggio della giustizia penale molto più frequentemente di altri, anche a parità di reati commessi. E da questo ingranaggio diventa difficile uscire, sia perche’ il carcere ha perso la sua funzione rieducativa, sia perche’ trovare lavoro e reinserirsi nel contesto sociale e familiare dopo l’esperienza carceraria è pressoché impossibile.
Ora pero’ sembra che qualcosa si stia muovendo negli Stati Uniti. Oggi il Presidente Barack Obama elimina una delle più odiose discriminazioni raziali formulate a livello legislativo: la disparità di trattamento fra i consumatori di cocaina in polvere, prevalentemente bianchi benestanti, e i consumatori di crack-cocaina, prevalentemente poveri afroamericani. Nonostante si tratti di due forme diverse della stessa sostanza, il limite mimino per essere condannato per possesso di crack era fino ad oggi di cento volte inferiore a quello della cocaina in polvere.
Non solo, ma si è in procinto di rivedere e forse stravolgere le linee guida sulle sentenze, create per togliere al giudice ogni discrezionalità nel comminare la pena in base alle circostanze concrete del reo che ha di fronte. Anche la politica della ‘tolleranza zero’, altra causa dell’incarcerazione di massa e alla base della nuova penalità basata sul rischio percepito piuttosto che sul bene offeso, è rimessa in discussione -almeno in alcuni Stati. Come del resto, sono ormai all’ordine del giorno normative statali e referendum per legalizzare non solo la cannabis ad uso terapeutico, ma anche la cannabis ad uso ricreativo –ogni anno vengono arrestate la bellezza di 800mila persone per reati non violenti connessi a questa sostanza, gran parte per il solo possesso.
Il fallimento della guerra alla droga è evidente sotto molti punti di vista. Le risorse pubbliche destinate o sottratte alle forze di polizia, ai tribunali e al sistema penitenziario a causa della guerra alla droga sono ormai insostenibili, specialmente in tempo di crisi. Gli effetti sociali della guerra sono altrettanto devastanti: diffusione di Hiv/Aids per la mancanza di politiche di riduzione del danno, le morti per overdosi, la incarcerazione di soggetti malati da curare e non da punire, l’emarginazione, i guadagni della criminalità organizzata che in alcuni Stati sembra essere in grado di minare le basi delle istituzioni (Colombia, Messico, Afghanistan), la vera e propria tortura in cui si è trasformata la detenzione in carceri sovraffollate. E proprio su questi effetti, facilmente misurabili quanto ignorati dalla politica, si concentrano gli sforzi di coloro che chiedono una riforma delle leggi sulla droga. Ma uno degli aspetti più devastanti della guerra alla droga è proprio la negazione di conquiste faticosamente raggiunte dalla nostra civiltà giuridica. Non dimentichiamocelo.
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