
In un articolo fresco di
pubblicazione in rete si rendono noti alcuni dati di un'intervista condotta fra la popolazione israeliana e quella di Gaza sul possibile successo del cessate il fuoco fra Israele e Hamas, che sta entrando nella sua quarta settimana, in cui dovrebbe avere inizio la seconda fase, cioè la ricerca di soluzione duratura per Israele e la Palestina. Ma, a detta dei firmatari dell’articolo, “
le prospettive di questo procedimento come originariamente pianificato, sembrano estremamente fragili”. Infatti, Hamas ha dichiarato che ritarderà il rilascio di altri ostaggi israeliani, perché Israele ha violato le condizioni del cessate il fuoco. La risposta del primo ministro israeliani, Benjamin Netanyahu, è stata tranciante: se lo scambio di ostaggi non avverrà come previsto, i combattimenti a Gaza ricominceranno.
Di fronte a ciò, la considerazione che gli autori dell’intervista -
Jeremy Ginges (1) e
Nils Mallock (2) – è la seguente: “
Ogni accordo può reggere solo se sostenuto dalla gente comune e se riflette le sue prospettive, u
n aspetto spesso trascurato nel dibattito pubblico e nell'impegno in politica estera”, e per questo hanno condotto “ampi sondaggi rappresentativi in Israele e a Gaza” già all’inizio di gennaio, cioè poco prima che fosse annunciato il cessate il fuoco. In Israele si sono affidati a interviste online, mentre a Gaza le interviste sono state fatte incontrando direttamente le persone. Gli intervistati sono in tutto 1400 persone.
I dati raccolti, scrivono Ginges e Mallock, “
mostrano perché 16 mesi di violenza estrema e sofferenza hanno creato barriere psicologiche alla pace”, suggerendo, però, al contempo, i modi per raggiungere un futuro più positivo.
I ricercatori parlano esplicitamente di “
risultati immediati sconfortanti”; infatti,
in Israele, l’opposizione alla soluzione dei due stati resta ai massimi storici: adesso il 62% degli intervistati respinge l’idea (prima del 7 ottobre era il 46%). Addirittura, quasi la metà degli Israeliani è contraria alla convivenza e uno su cinque esclude persino la possibilità di un contatto personale con i palestinesi. Anche
a Gaza la prospettiva di vivere fianco a fianco con gli Israeliani è considerata irrealistica; meno della metà degli intervistati vede la formazione di due stati come un’opzione per porre fine al conflitto, e meno del 31% ha sostenuto qualsiasi contatto interpersonale.
I due ricercatori, a questo punto, fanno notare che, “
contrariamente a una credenza popolare, l'esposizione diretta alla guerra non spiega di per sé queste crescenti ostilità”. Anche se è vero che gli attacchi di Hamas del 7 ottobre e successivi hanno lasciato profonde cicatrici e riaperto traumi storici per molti Israeliani e gli incessanti attacchi militari di Israele su Gaza hanno aperto profonde ferite nei Palestinesi,
“il principale ostacolo alla pace potrebbe risiedere nella comprensione di ciascuna parte del motivo per cui l'altra si impegna nella violenza”. Non, dunque, le innumerevoli distruzioni e i molti tremendi lutti causati da questa guerra sarebbero responsabili dell’incapacità di Israeliani e Palestinesi di pensare a una convivenza futura nella forma dei due Stati, bensì, appunto, il motivo che ha spinto le due parti l’una contro l’altra.
In pratica: “
Palestinesi e israeliani hanno affermato che gli attacchi da parte loro erano più motivati da ciò che gli psicologi chiamano 'amore per l'ingroup' (cura e preoccupazione per il proprio popolo) che da 'odio per l'outgroup' (antipatia appassionata per l'altra parte). Tuttavia, sia gli israeliani che i palestinesi pensavano che la violenza dell'altra parte fosse più motivata dall'odio”.
Perché questo è importante? Come dimostrano gli studi di psicologia sociale, “
la convinzione di essere odiati da un altro gruppo diminuisce il nostro desiderio e ottimismo per soluzioni diplomatiche, portando invece a un'inclinazione a separarci o a distruggere l'altro”. E questo atteggiamento coincide con dei sondaggi condotti nel settembre 2024 dal Palestinian Center for Policy and Survey Research, in cui si è scoperto “
che la maggior parte degli Israeliani e dei Palestinesi riteneva che l'altra parte intendesse commettere un genocidio”.
Arrivati quasi alla fine della relazione, Ginges e Mallock danno una buona notizia: non tutti gli indicatori stanno peggiorando. Infatti, “
rispetto a sei mesi fa, adesso più Israeliani favoriscono gli sforzi diplomatici rispetto alle azioni militari continue per risolvere la crisi. E se il nuovo accordo di rilascio degli ostaggi rimane saldo, questa tendenza potrebbe continuare”.
Di fronte a un gruppo radicale indurito, circa il 20% in entrambe le popolazioni, “
la maggior parte delle popolazioni mostra atteggiamenti fluttuanti nel tempo e in risposta a condizioni mutevoli. Man mano che la violenza diventa meno saliente, le opinioni potrebbero cambiare”.
Di conseguenza, non tutto è perduto; adesso si tratta di cercare di correggere la percezione errata delle motivazioni dell’altra parte, cioè la sensazione che gli Israeliani provino odio per i palestinesi e i Palestinesi odio per gli Israeliani. Non è facile, ma proprio la ricerca mostra che questo sforzo ha successo può cambiare atteggiamenti e comportamenti.
Ebbene,
“il rischio ora risiede in una visione troppo ristretta degli attuali decisori – una leadership palestinese delegittimata e frammentata, un governo israeliano in lotta interna e un’amministrazione a Washington orientata alle transazioni – che cercano di garantire accordi politici che producano risultati sulla carta”.
La conclusione, a cui giungono i ricercatori, è quella annunciata all’inizio: “
Affinché il cessate il fuoco duri, l'attenzione politica dovrà spostarsi verso la riduzione di un divario psicologico più profondo”.
(1)
Jeremy Ginges Professore, Dipartimento di Scienze Psicologiche e Comportamentali, London School of Economics and Political Science, Nils Mallock non lavora, non è consulente, non possiede azioni né riceve finanziamenti da alcuna azienda o organizzazione che trarrebbe beneficio da questo articolo, e non ha dichiarato alcuna affiliazione rilevante oltre al suo incarico accademico. -
(2)
Nils Mallock, Professore, Dipartimento di Scienze Psicologiche e Comportamentali, London School of Economics and Political Science.
Il primo riceve finanziamenti dalla National Science Foundation degli Stati Uniti. - Dottorando, Dipartimento di Scienze Psicologiche e Comportamentali, London School of Economics and Political Science;
il secondo, invece, non lavora, non è consulente, non possiede azioni né riceve finanziamenti da alcuna azienda o organizzazione che trarrebbe beneficio da questo articolo, e non ha dichiarato alcuna affiliazione rilevante oltre al suo incarico accademico.
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