NELL'INFERNO DI DANTE. OVVERO: LA LIBERTA' DELLA COMPASSIONE
Articolo di Annapaola Laldi
1 settembre 2002 0:00
In San Petronio, a Bologna, verso la meta' d'agosto, sono stati arrestati tre marocchini e un italiano per un comportamento ritenuto sospetto dalla polizia, anche se poi il giudice e' stato di altro avviso.
Cosi', ora, tutti, anche le pietre, sanno che in quella chiesa, in un affresco rappresentante l'inferno, e' raffigurato, fra i dannati, anche Maometto, sottoposto alla pena immaginata da Dante, al canto XXVIII della "Divina Commedia".
Naturalmente questa raffigurazione e' per i musulmani una tremenda bestemmia. Perche' stupirsene? Che effetto farebbe ai cristiani -ma anche agli agnostici di questa parte di mondo- vedere all'inferno, fra i dannati, Gesu'?
Credo che sia dunque totalmente da rispettare lo sdegno di quei giovani islamici, e non so se serva dire loro che, da noi, nel Medioevo, si pensava che Maometto fosse un prete cristiano che era stato spinto allo scisma perche' deluso nelle sue aspirazioni. Di conseguenza, il Maometto di Dante e dell'affresco e il PROFETA da loro venerato non sono la stessa persona.
Nello stesso tempo, pero', abbiamo una prova in piu' che, per convivere, ci vuole parecchia pazienza -da parte di tutti. E, soprattutto, stare attenti a non fare corti circuiti fra la storia del passato, che puo' essere intrisa di ignoranza, e la vita di oggi. Anche se, ovviamente, una memoria storica c'e', e un uso sconsiderato di essa puo' produrre ancora effetti letali.
Avere coscienza di cio', puo' aiutare a non moltiplicare i lutti e il dolore? Puo' aiutare a vedere che il vero scandalo non sta in un dipinto o in un testo di tanti secoli fa, ma nel fatto che un normale lavoratore -italiano o extracomunitario che sia- non riesce a trovare un alloggio decente a un prezzo accessibile?
L'episodio di Bologna, comunque, mi ha fatto venire voglia di dare una spolverata -letterale- alla "Divina Commedia" che, purtroppo, non ho piu' letto dai tempi lontani dell'universita'. E dico purtroppo per due motivi; in primo luogo perche' certamente Dante era una grande mente e vedeva molto piu' in la' del proprio naso, gia' peraltro alquanto arditamente proiettato in avanti, e quindi praticarlo assiduamente sarebbe certo un arricchimento; in secondo luogo perche', avendo perso confidenza con il testo, ho trovato in qualche punto difficolta' a decifrarlo senza l'aiuto delle note (per questo, in appendice ho messo la trasposizione dei brani in italiano attuale).
Cio' che mi ha guidato, pero', non e' stata la curiosita' di vedere che cosa Dante abbia detto di Maometto, col quale peraltro ha un rispettoso dialogo. Mi e' venuto in mente, piuttosto, che il poeta, all'inferno, ci mette tante persone che stima o che addirittura ama. Qualche volta succede, e' vero, che esprima disprezzo verso alcuni personaggi che incontra (specialmente prelati e papi). Una volta arriva anche a "predire" l'inferno al pontefice allora regnante Bonifacio VIII, quando, nel canto XIX, papa Niccolo' III, che brucia fra i simoniaci (i religiosi che hanno fatto mercato di cose spirituali), non capisce bene chi e' che gli rivolge la parola e crede che sia il suo collega: "Ed ei grido': -Se' tu gia' costi' ritto, /se' tu gia' costi' ritto, Bonifazio?" (vv. 52-53).
Ma accade senz'altro piu' spesso che i personaggi incontrati siano individui nobili, generosi, degni del massimo rispetto. Perche' li mette all'inferno, allora? Non credo che si possa semplicemente dire che questo sia stato il prezzo che egli dovette pagare alla cultura del suo tempo per poter scrivere qualcosa che andava al di la' di essa. No; indubbiamente Dante sa che esiste una condizione di chiusura in se stessi, una sorta di avvitamento su di se' dell'animo umano, che conferisce una nota di oscurita' alla vita e le impedisce quel "trasumanare" che sarebbe il suo vero scopo, e di cui parla nel "Paradiso" (I,70). E' a questa umana contraddizione, mi pare, che Dante rende omaggio nel suo inferno, dove molti sono gli episodi in cui, oltre alla bellezza della poesia, e' presente un'intensa compassione dettata da un onesto riconoscere se stesso nell'anima infelice che ha davanti a se'.
Il primo dei quattro episodi, che sono andata a cercare, si trova nel canto X, quello di Farinata degli Uberti, che, essendo ghibellino, apparteneva alla parte politica nemica dell'Alighieri, che era guelfo, anche se bianco. L'incontro con Farinata, che soffre la pena degli eretici, e' anche uno scontro, senza esclusione di colpi, fra due avversari politici. Ma cio' non impedisce a Dante di rendere onore al senso di giustizia e all'amor patrio di Farinata che, all'indomani della battaglia di Montaperti, nel concilio di Empoli, si oppose agli altri ghibellini quando volevano distruggere Firenze, e gli fa dire con giusto orgoglio: "Ma fu' io sol, cola' dove sofferto/fu per ciascun di torre via Fiorenza,/colui che la difesi a viso aperto" (Ma fui io solo quello che, quando tutti avevano ormai accettato di distruggere Firenze, la difese a viso aperto) (vv. 91-93).
Vi e' poi, nel canto XXVI (vv.90 ss.), l'incontro con Ulisse e Diomede, trasformati in fiamma vagante per aver conquistato Troia con la frode. Per Dante questa e' l'occasione di elevare un inno al desiderio di conoscere, cosi' vivo anche in lui, e Ulisse diventa l'eroe della conoscenza, per la quale sacrifica ogni cosa.
Vale la pena seguire almeno un po' la narrazione dell'eroe greco:
"Quando/mi diparti' da Circe, che sottrasse/Me piu' d'un anno la' presso a Gaeta,/Prima che si' Enea la nomasse;/Ne' dolcezza di figlio, ne' la pieta'/Del vecchio padre, ne' 'l debito amore/Lo quale dovea Penelope far lieta,/Vincer potero dentro a me l'ardore/Ch'i ebbi a divenir del mondo esperto,/ e de li vizi umani e del valore./Ma misi me per l'alto mare aperto/Sol con un legno, e con quella compagna/Picciola, dalla qual non fui deserto:/L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,/Fin nel Morrocco; e l'isola de' Sardi,/E l'altre che quel mare intorno bagna./Io e' compagni eravam vecchi e tardi,/Quando venimmo a quella foce stretta/Ov'Ercole segno' li suoi riguardi/Acciocche' l'uom piu' oltre non si metta./Dalla man destra mi lascia Sibilia, Dall'altra gia' m'avea lasciata Setta./ -O frati (dissi), che per cento milia/Perigli siete giunti a l'occidente;/A questa tanto picciola vigilia/De' vostri sensi, ch'e' del rimanente,/Non vogliate negar l'esperienza,/Diretro al Sol, del mondo senza gente./ Considerate la vostra semenza:/ FATTI NON FOSTE A VIVER COME BRUTI,/MA PER SEGUIR VIRTUTE E CANOSCENZA".
Il racconto di Ulisse prosegue: i compagni, infiammati dalle sue parole, spingono la nave oltre le colonne d'Ercole, cioe' lo stretto di Gibilterra, fin nell'oceano Atlantico, dove pero', dopo circa cinque mesi di navigazione, in vista di un'altissima montagna, un turbine avvolge l'imbarcazione, la fa girare tre volte su se stessa e alla fine la inabissa.
Episodio famosissimo credo che sia quello di Paolo e Francesca, nel V canto, dove "enno dannati i peccatori carnali,/che la ragion sommettono al talento" (dove "talento" significa "istinto"). I due amanti gli si presentano (vv.82 ss.) presi in un vortice di vento, che comunque non li ha potuti separare da morti, cosi' come, da vivi, erano stati presi dal vortice della passione amorosa. E per Dante e' l'occasione di cantare proprio questo, l'amore e la sua potenza, e fa dire a Francesca da Rimini:
"-Amor, che a cor gentil ratto s'apprende,/prese costui della bella persona/che mi fu tolta, e 'l modo ancor m'offende./Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer si' forte,/ che, come vedi, ancor non m'abbandona./Amor condusse noi ad una morte/Caina attende chi vita ci spense-".-".
Dante e' profondamente commosso tanto da chinare il capo in silenzio. E quando riprende, si rivolge a Francesca con partecipazione e le dice: "Francesca, i tuoi martiri/a lagrimar mi fanno tristo e pio". (Dove "tristo" sta per triste e "pio" richiama la "pietas", quel senso di rispetto e di venerazione per cio' che e' sacro).
E cosi' fa descrivere a Francesca come nacque la passione fra lei e il cognato e come la loro vita fu violentemente troncata: "-Noi leggevamo un giorno per diletto,/Di Lancelotto come Amor lo strinse:/Soli eravamo e senza alcun sospetto./Per piu' fiate gli occhi ci sospinse/Quella lettura, e scolorocci 'l viso;/Ma solo un punto fu quel che ci vinse./Quando leggemmo il diasiato riso/Esser baciato da cotanto amante,/Questi, che mai da me non fia diviso,/La bocca mi bacio' tutto tremante./Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse./Quel giorno piu' non vi leggemmo avante-". Di fronte al pianto degli amanti che fa seguito a questo racconto, l'emozione di Dante e' ancora piu' intensa di prima tanto che addirittura sviene.
Ho lasciato per ultimo l'episodio nel quale, secondo me, vi e' la maggiore commozione e dolcezza. Si trova nel canto XV e riguarda Brunetto Latini, il quale, con tanti altri illustri chierici e letterati, e' all'inferno per sodomia ("omosessualita'" e' un vocabolo coniato cinque-sei secoli piu' tardi), e all'epoca la sodomia era considerata uno dei peccati e reati piu' gravi.
Il fatto e' che Brunetto Latini, Dante lo considerava suo vero MAESTRO -nel senso piu' autentico della parola, e per lui, il poeta aveva una riconoscenza infinita.
L'incontro con ser Brunetto, da cui Dante si fa chiamare piu' volte "figliolo", occupa quasi tutto il canto (vv.22-124), che e' improntato a una rispettosa familiarita' che culmina in un punto dove la tenerezza e la nostalgia di Dante per quest'uomo si esprimono in modo particolarmente intenso. Sono i vv.79-85:.
"-Se fosse pieno tutto 'l mio dimando/(Risposi io lui), voi non sareste ancora/Dell'umana natura posto in bando./CHE' IN LA MENTE M'E' FITTA, ED OR M'ACCORA,/LA CARA E BUONA IMMAGINE PATERNA/DI VOI, QUANDO NEL MONDO AD ORA AD ORA/M'INSEGNAVATE COME L'UOM S'ETERNA./E quant'io l'abbia in grado, mentr'io vivo/convien che ne la mia lingua si scerna".
E dunque, stare nell'inferno di Dante non significa essere per forza umanamente indegni. Anzi! -verrebbe quasi da dire.
Quello che colpisce, accanto alla profonda conoscenza dell'umano sentire, e' la grande liberta' di quest'uomo e la sua capacita' di compassione -in un mondo e in un tempo che, lo sappiamo, con lui furono particolarmente duri, ne' tanto piu' teneri per tutti gli altri.
(Appendice)
INCONTRODI CON ULISSE (canto XXVI, vv. 90-120)
Quando lasciai Circe, che mi tenne prigioniero per piu' di un anno vicino a Gaeta, prima che Enea chiamasse cosi' quel luogo, niente (ne' la dolcezza del figlio, ne' il rispetto per il vecchio padre, ne' l'amore per Penelope) pote' vincere in me l'ardente desiderio di conoscere il mondo, i vizi umani e l'umano valore. Ma, invece di restare a Itaca, tornai a navigare con una sola nave e con quei pochi compagni che non mi avevano abbandonato. Vidi le due sponde del Mediterraneo, quella della Spagna e quella del Marocco e la vista si spinse fino alla Sardegna e alle altre isole bagnate da quel mare.
Io e i compagni eravamo vecchi e lenti quando arrivammo a quello stretto passaggio dove Ercole aveva posto le sue colonne come segnale di pericolo, affinche' l'uomo non si spingesse oltre. Dal lato destro lasciai Siviglia, da quello sinistro Ceuta e a questo punto dissi ai compagni: "Fratelli, che per centomila pericoli siete arrivati al punto in cui il sole tramonta, non vogliate negare a quel poco che vi resta da vivere l'esperienza di scoprire cosa c'e' alle spalle del sole, nel mondo senza gente. Considerate la vostra origine, lo scopo per cui esistete. Non siete fatti per vivere come le bestie, ma per seguire l'intelligenza e la conoscenza.
INCONTRO CON PAOLO E FRANCESCA (Canto V, vv.100-107):
L'amore, che si attacca con rapidita' a un cuore nobile, fece innamorare Paolo della mia bella persona, della mia bellezza che poi mi fu tolta in un modo -l'omicidio- che ancora mi ferisce e mi tormenta. L'amore, che non consente a nessuna persona che viene amata di non corrispondere a sua volta all'amore, mi fece innamorare della bellezza di quest'uomo cosi' fortemente che, come vedi, non mi lascia neppure adesso. L'amore ci ha portato a morire insieme. Caina (la zona in fondo all'inferno dove sono puniti i traditori dei parenti) aspetta colui che ci ha ucciso (Gianciotto Malatesta, l'assassino, infatti, era marito di Francesca e fratello di Paolo).
vv. 127-138
Noi leggevamo un giorno per diletto la storia di Lancillotto che si era innamorato della regina Ginevra. Eravamo soli e non sospettavamo quello che ci sarebbe successo. Diverse volte quella lettura ci spinse a guardarci negli occhi e ci fece impallidire; ma un punto solo del poema ci vinse, ci fu fatale. Quando leggemmo del bacio fra Ginevra e Lancillotto, Paolo, che non sara' mai separato da me, mi bacio' tutto tremante la bocca. Il libro che leggevamo ebbe la funzione che nel racconto aveva Galeotto (francese: Galehault), il quale spinse i due amanti a darsi il primo bacio. Cosi', appunto, il libro e il suo autore ci spinsero l'una nelle braccia dell'altro. Ma non potemmo piu' leggere il poema perche' proprio allora fummo uccisi.
INCONTRO CON BRUNETTO LATINI (Canto XV, vv.79-85)
Se fosse completamente esaudito il mio desiderio, voi non sareste ancora esiliato dalla natura umana (cioe': non sareste morto), perche' nella mente ho fissa, e adesso mi accora, la vostra cara e buona immagine paterna di quando, nel mondo, di tanto in tanto, m'insegnavate come l'uomo si rende eterno, cioe' si fa conoscere dalle generazioni successive (per mezzo dell'impegno morale e civile del suo agire). E quanto mi sia gradito, e' giusto che, finche' io ho vita, appaia chiaramente nelle mie parole.