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Perché non ci possiamo più permettere l’espresso al bar
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Articolo di Redazione
4 febbraio 2025 9:19
 
I prezzi dell’espresso rimangono pressoché stabili, ma il costo dell’ingrediente principale è aumentato più del sessanta per cento, per non parlare dell’incremento dell’energia e del costo del personale. Ma i veri problemi di un prezzo così basso iniziano con il primo gradino della filiera

95 milioni di tazzine al giorno
2,5 milioni di sacchi consumati all’anno
Un giro d’affari che vale 7 miliardi di euro
Più di 5.000 addetti impiegati nel settore



Sono i numeri del caffè in Italia, anche se forse manca quello più importante: un aumento del costo del caffè verde, ovvero della materia prima, che è salito più del sessanta per cento nel corso dell’ultimo anno. La situazione geopolitica non ha aiutato, ma possiamo affermare con quasi certezza che il caffè è prima di tutto una delle vittime illustri del cambiamento climatico. Le coltivazioni principali sono infatti in Paesi in via di sviluppo e in zone particolarmente vulnerabili a eventi climatici estremi, come quelli che si sono succeduti negli ultimi anni.

Eppure, se guardiamo il costo della tazzina di espresso in Italia (di gran lunga la referenza più richiesta), il prezzo medio è di circa 1,20 euro, con picchi di 1,50 euro nelle grandi città. «Il discorso è molto più ampio del solo ingrediente. Un bar o caffetteria dovrebbe scaricare almeno il trenta per cento dei costi sul caffè quando fa il conto economico, a prescindere dalla materia prima. Ma spesso non si tiene conto che c’è tutto il resto: il costo dell’energia, del personale, dei macchinari. Se un’attività commerciale dovesse vendere solo caffè, la tazzina dovrebbe costare 6 euro: molti bar sono sostenibili economicamente perché hanno diversificato, se dovessero puntare solo sul caffè chiuderebbero», spiega Luciano Sbraga, vicedirettore di Federazione Italiana Pubblici Esercizi (Fipe) e direttore del Centro Studi Fipe. E qui si parla delle miscele più utilizzate e dell’espresso, non dei caffè specialty, per cui il discorso è ancora diverso.

Studiare il caffè per capirlo e apprezzarlo
Chiara Bergonzi è una delle maggiori esperte di caffè in Italia descrive così quello che sta succedendo: «Il torrefattore commerciale si trova a pagare un prodotto circa il sessanta per cento in più, e questo costo dovrebbe essere applicato al chilogrammo di caffè che vende al barista, cosa che però si ha molta difficoltà a fare perché si è sempre stati legati a un prezzo standard di una miscela Arabica/Robusta, dove se si va a sconfinare rispetto ai prezzi di mercato diventa impossibile raggiungere il cliente. All’interno del prezzo di questo chilogrammo poi ci sono le attrezzature in comodato d’uso, gli sconti anticipati fake benefit che vengono “regalati” dal torrefattore e via dicendo: il focus è sulla parte finanziaria, ma non su chicchi e monorigine, creando una dinamica di prezzi che in molti casi sono anche per caffè non di qualità».

Una dinamica che difficilmente accade con lo specialty, perché «entrano in gioco micro-torrefattori e micro-produttori, che sono attenti alla filiera e che cercano di fornire materia prima per la tazzina più buona in assoluto».
Secondo Bergonzi bisogna cambiare la narrazione e soprattutto investire sulla formazione: in primis dei baristi, che possono imparare ad apprezzare e studiare un ingrediente come il caffè che, al pari del vino o della birra, ha molte sfumature e presenta tipologie differenti, per arrivare poi a rendere più consapevole il consumatore. «Generalmente lo specialty ha un prezzo più alto, ma chi ha un coffee shop di specialty non fa così fatica perché ha un consumatore colto, che sa di entrare in un mondo dove il caffè ha una qualità superiore ed è disposto a pagare di più questa qualità. Oggi invece chi entra in un bar o in una caffetteria “classica” è obbligato a bere un solo tipo di caffè e il consumatore non sa neanche quale miscela/blend sta acquistando. Così come quando vai in una macelleria o dal fruttivendolo bisognerebbe avere una scelta in base a origine, varietà, tostatura, così che ognuno scelga la tazzina che vuole bere. Questo è quello che succede nei coffee shop e la questione prezzo così passa in secondo piano».

Riappropriarsi della narrazione e del prezzo
Un’opinione che sembra condividere anche Gino Fabbri: pasticciere di riferimento nel panorama italiano, la sua attività ha sede a Bologna e, nonostante il cliente tipo della Pasticceria Gino Fabbri non va (solo) per il caffè, è stata fatta una scelta ben precisa su cosa offrire in questo comparto. «Non ho nulla contro le miscele classiche, ma nel corso del tempo ho maturato la convinzione che se vuoi offrire un percorso di qualità al cliente lo devi fare per un’esperienza a 360 gradi e non solo su un verticale. Abbiamo quindi deciso di passare allo specialty come offerta in caffetteria e non è stato semplice: ci abbiamo messo almeno sette-otto mesi per introdurre il consumatore, che non era per nulla pronto. Pian piano la fiducia si è rinnovata e anzi, ora con il passaparola arrivano persone espressamente per questo», spiega Fabbri, che rimane negativo sulla situazione del caffè in generale. «In Italia pensiamo di fare il miglior caffè al mondo, poi se andiamo a dare un’occhiata in profondità c’è qualcosa non funziona. Quando Starbucks è arrivato in Italia tutti ci abbiamo riso sopra, ma è partito subito a 1,80 euro alla tazzina: se prendiamo in giro Starbucks perché la vediamo come una grande multinazionale che svilisce il caffè, ma poi noi lo vendiamo a meno c’è qualcosa che non va. Il settore ha timore di alzare i prezzi perché teme le reazioni dei clienti, ma se li abitui alla qualità, dieci centesimi in più non faranno la differenza», conclude Fabbri.

Un problema di filiera
Le contraddizioni non ci sono solo al banco, ma nascono prima, all’origine. È impensabile chiedere (o convincersi) di bere un caffè di qualità a un costo irrisorio senza tenere conto che oggi la maggioranza dei caffè arrivano da zone come Africa, Centro America e Asia e che quindi per arrivare nella tazzina di Napoli, Milano o Roma hanno percorso una lunga strada e, soprattutto, una lunga filiera, che inizia con i coltivatori. Sono questi ultimi i più colpiti dalle crisi climatiche che hanno fortemente danneggiato il settore e che in molti casi già prima non se la passavano bene, a causa di remunerazioni al ribasso da parte dei grandi colossi e non solo.

Mentre i micro-torrefattori e produttori di specialty hanno fatto dell’attenzione verso la filiera quasi un mantra, in pochi (se non successivamente al dilagare proprio della “filosofia specialty”) si sono chiesti come fosse possibile che la richiesta di qualità potesse andare di pari passo con grosse quantità e con una filiera lunga e sostenibile in tutte le sue parti. L’interesse verso temi legati proprio alla sostenibilità ambientale e sociale è cresciuto fino a coinvolgere il settantasette per cento degli italiani, ma non è solo la raccolta differenziata e l’auto elettrica che contribuiscono a un mondo più giusto, quanto il realizzare che se si desidera una sostenibilità in primis sociale sarà richiesta non solo una dichiarazione d’intenti, ma anche di mettersi in gioco in prima persona, a partire dalla piccole abitudini di tutti i giorni e… dal portafoglio.

(Ilaria Ricotti su Linkiesta del 04/02/2025)

 
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