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Rette RSA e morbo di Alzheimer. Cassazione: il Comune non puo' rivalersi sui parenti
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Articolo di Emmanuela Bertucci
29 aprile 2012 11:53
 
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 4558 del 22 marzo 2012, si e' pronunciata sulle rette per la degenza in RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) di persone affetta da morbo di Alzheimer, statuendo che la retta deve essere a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Per questo motivo il Comune non puo' rivalersi sui parenti dell'assistito per il pagamento della quota sociale.

La vicenda parte da una domanda di restituzione, fatta dai parenti di una persone affetta da morbo di Alzheimer, di quanto versato al Comune a titolo di quota sociale per la degenza in RSA. Nel giudizio di primo grado davanti al Tribunale di Treviso il Comune chiese invece la condanna nei confronti dei tenuti agli alimenti al pagamento della retta. Il Tribunale di primo grado diede torto agli utenti poiche' –ad avviso dei giudici- “le prestazioni fornite alla persona degente in RSA –malata di Alzheimer- avevano carattere sia sanitario che assistenziale e che, in relazione al secondo aspetto, esse gravavano sul Comune solo nell'ipotesi di indigenza della persona assistita”.

La Corte d'appello di Venezia riformava la sentenza, dando invece ragione ai familiari della persona degente. Secondo i giudici di appello infatti, “la natura di carattere sanitario delle prestazioni eseguite nei confronti della Z., gravemente affetta dal morbo di Alzheimer e sottoposta a terapie continue, a fronte delle quali le prestazioni di natura non sanitaria assumevano un carattere marginale e accessorio.”

Il Comune ricorreva allora in Cassazione rilevando che la Corte d'Appello non aveva tenuto in debito conto le determinazioni comunali e regionali sulla ripartizione delle quota, sanitaria e sociale: “La pretesa dell'ente territoriale a ben vedere si fonda principalmente sulla scindibilità delle prestazioni di natura sanitaria effettuata nei confronti della paziente ricoverata da quelle, poste a carico del Comune e quindi, di natura meramente assistenziale, virtualmente recuperabili mediante azioni di rivalsa.”

La Corte, che sul punto conferma la decisione precedente, muove dall'assunto dell'esigenza di un'interpretazione che tenga conto del nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana:
“In tale quadro, ed alla luce del principio affermato, in linea generale, dalla legge di riforma sanitaria, che prevede la erogazione gratuita delle prestazioni a tutti i cittadini, da parte del servizio sanitario nazionale, entro i livelli di assistenza uniformi definiti con il piano sanitario nazionale (L. n. 833 del 1978, artt. 1, 3, 19, 53 e 63), di per sè ostativa a qualsiasi azione di rivalsa (Cass., 26 marzo 2003, n. 4460), la lettura della norma contenuta nella L. n. 730 del 1983, art. 30 deve effettuarsi, per altro in maniera conforme al tenore letterale della disposizione, nel senso di ritenere che gli oneri delle attività di rilievo sanitario connesse con quelle socio assistenziali sono a carico del fondo sanitario nazionale. In tale prospettiva si è consolidato un indirizzo interpretativo del tutto omogeneo, tale da costituire diritto vivente, nel senso che, nel caso in cui oltre alle prestazioni socio assistenziali siano erogate prestazioni sanitarie, l'attività va considerata comunque di rilievo sanitario e, pertanto, di competenza del Servizio Sanitario Nazionale”
[…] “Appare quindi evidente che, ove sussista quella stretta correlazione, nel senso sopra evidenziato, fra prestazioni sanitarie e assistenziali, tale da determinare la totale competenza del servizio sanitario nazionale, non vi sia luogo per una determinazione di quote, nel senso invocato dal Comune ricorrente (con riferimento al citato D.P.C.M. 8 agosto 1985, art. 6, u.c., e della L.R. Veneto n. 55 del 1982, art. 3), che presuppongono una scindibilità delle prestazioni, non ricorrente in ipotesi, come quella in esame, di stretta correlazione con netta prevalenza degli aspetti di natura sanitaria.”

Il caso posto all'attenzione della Corte e' invero risalente (l'impegno al pagamento da parte del familiare fu sottoscritto nel 1992), e difatti la Corte applica una normativa ormai abrogata. Volendo attualizzare la sentenza alla disciplina oggi in vigore in materia di prestazioni residenziali per disabili gravi e ultrassessantacinquenni non autosufficiente, essa ribadisce con forza due principi di estrema rilevanza:
- la centralita' del diritto alla salute come ambito inviolabile della dignità umana, tanto piu' a fronte di prestazioni che costituiscono Livelli Essenziali di Assistenza;
- la necessita' di verificare, nell'applicazione dei criteri di ripartizione fra sociale e sanitario, alla situazione concreta, al tipo di patologia da cui il degente e' affetto, all'accertamento del carattere prevalentemente sanitario delle prestazioni.
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