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Riforma della giustizia o... diniego di giustizia?
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Articolo di Claudia Moretti
28 luglio 2011 11:50
 
Vorrei raccontare un aneddoto professionale che mi è capitato. Un cliente ha promosso una causa al Tribunale di Livorno nel 2005 contro una società “fantasma” che gli ha venduto una multiproprietà e la finanziaria che detto acquisto ha finanziato. Dopo innumerevoli rinvii di anno in anno per problemi dei giudicanti che si sono nel frattempo avvicendati, si arriva al 2011 con una sua piena vittoria. Lo chiamo e scettico mi chiede: “mah... ma abbiamo vinto davvero? E' sicura? Ma ce la faremo davvero a prendere quanto ci ha liquidato il giudice?”. Insomma. Non credeva alla possibilità che la “giustizia” adita sei anni prima e poi stagnante, fosse sfociata (almeno per il momento!) in un “risvolto pratico”.
Del resto, il cliente sa che se le sue controparti appelleranno la sua vittoria, la Corte d'Appello di Firenze fisserà un'udienza fra non meno di quattro anni. E così via, e così via...
In effetti, a ben vedere, ma chi glielo fa fare al cittadino di “investire” anni del suo tempo in una causa, anticipando magari, bolli, spese di avvocati e consulenti, che non è affatto detto che recuperi (è molto di moda la compensazione delle spese fra i giudici di oggi) e di dar credito alla sua “speranza di giustizia”?
Da un paio d'anni il legislatore risponde al problema, abbattendo ulteriormente proprio quella “speranza di giustizia” del cittadino caparbio e mirando a rendendere sconveniente, antieconomica, perfino ridicola, ogni sua “velleità di giustizia”.
In tale esclusiva prospettiva di deterrenza vanno inquadrati i semestrali aumenti del contributo unificato, che hanno ormai sbarrato il ricorso al giudice in numerosi contenziosi. Del resto, se le cause durano tanto, se manca l'organico, una soluzione tampone è quella di diminuire il contenzioso. Infatti, non è pensabile ritenere che le entrate fiscali dei bolli per l'iscrizione a ruolo di un giudizio mirino a equilibrare le finanze del Ministero della Giustizia, né che risolvano in alcun modo il problema della scarsità del personale giudicante. Tuttalpiù avranno l'effetto di impedire che si impugni una multa di 38 euro, visto che 37 euro si dovrebbero anticipare di contributo unificato.
Ma la deterrenza ad agire in giudizio più evidente si è venuta a creare nei giudizi amministrativi con la riforma del codice di rito entrata in vigore nel settembre 2010.
Quando si ricorre avverso un provvedimento della pubblica amministrazione si hanno generalmente 60 giorni per andare al Tar della propria regione. Il contributo unificato generale è oggi di 600,00 euro. Prima della riforma, se l'amministrazione emetteva, successivamente al ricorso un altro atto (e del resto ne ha sempre nei pieni poteri) illegittimo, lo si poteva impugnare con il cosiddetto “ricorso per motivi aggiunti”, ossia un'appendice dell'originario ricorso ove si rendeva conto al giudice degli aggiornamenti della controversia chiedendo l'annullamento del nuovo atto. Tale appendice non era soggetta a spese di contributo unificato.
Orbene, dopo la riforma, non è più così: per ogni atto nuovo che la pubblica amministrazione decida a suo piacimento di emanare dopo il ricorso, il ricorrente avrà l'onere di impugnarlo nei 60 giorni dall'emanazione (a pena di decadenza) e di pagare i 600,00 euro aggiuntivi per ciascuna impugnazione. Il ché significa che se si promuove un ricorso contro la p.a. si dovrà esser pronti a sborsare tanti soldi di contributo unificato quanti l'amministrazione stessa vorrà sottoporci a sborsare. Basterà che emetta ogni mese o anche ogni settimana un nuovo e illegittimo atto.
La faccenda è grave e lascia ancor più il cittadino alla mercé della pubblica amministrazione. Non credo di esagerare se parlo di diniego di giustizia, di violazione dell'art. 24 della Costituzione comma 1: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” e dell' equo processo che ci impone l'art. 111 Cost., oltre che la Convenzione europea dei diritti dell'uomo: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.”
Ma chi glielo fa fare, allora, al cittadino di sperare nella nostra giustizia? Questo, a mio parere, l'obbiettivo delle recenti riforme fiscali in materia di giustizia.
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