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Stupefacenti, associazione finalizzata al traffico di droga per fatti di lieve entità e custodia cautelare
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Articolo di Carlo Alberto Zaina
12 ottobre 2011 9:49
 
Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione intervengono, con la sentenza n. 34475/2011 che si commenta, a dirimere il contrasto interpretativo che atteneva alla applicabilità, anche alla fattispecie di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti per fatti di lieve entità, prevista dal comma 6° dell'art. 74 dpr 309/90 (Testo unico sugli stupefacenti, associazione ), della presunzione di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in carcere – ai sensi dell'art. 275 comma 3° c.p.p.
Il dubbio, così posto, è derivato dalla considerazione della necessità di verificare il carattere particolare della norma in questione.
Il comma 6°, infatti, per giurisprudenza costante, è riconosciuto come espressione di una ipotesi di reato autonoma rispetto alla più generale previsione del delitto associativo finalizzato alla commissione di reati concernenti gli stupefacenti, governato dall'art. 74 co. 1 e segg. T.U. stup. .
L'ipotesi di operatività – in fattispecie concrete – di questo caso di societas minor è, infatti, strettamente connessa e funzionalmente dipendente dalla effettiva ravvisabilità ed applicabilità, da parte del giudice, del criterio della lieve entità, regolato in via principale dal comma 5 dell'art. 73 dpr 309/90.
Pur nella condizione di sorprendente singolarità normativa, determinata dal fatto che l’individuazione e la qualificazione giuridica di una situazione, che permetta l’applicazione di un’autonoma tipologia di reato (l'art. 74/6°) dipenda esclusivamente dal riconoscimento di una circostanza attenuante ad effetto speciale (l'art. 73/5°), opzione che la dice lunga sulla insipienza e sullo strabismo del nostro legislatore, si deve rilevare che proprio l'indubbio carattere di autonomia dell'istituto in parola si pone come elemento di apprezzabile ed indiscutibile distinzione rispetto alla più grave ipotesi prevista dall'art. 74 co. 1 e seguenti.
La differenziazione a livello normativo fra sodalizi criminosi di diversa portata delinquenziale (pur se attinenti – all’apparenza – a medesime condotte illecite di natura aggregativa e necessariamente plurisoggettiva) e la espressa previsione della punibilità di uno di essi, in forma indipendente dall’altro, (attraverso il richiamo alla pena prevista dall’art. 416 c.p.) risponde, quindi, a precise valutazioni riguardanti il criterio dell'offensività del programma in base al quale l'associazione si viene a formare.
In tale contesto, dunque, la Corte Suprema si è posta il problema di valutare se le preclusioni o le presunzioni (tra queste appunto quella di pericolosità oggetto della pronunzia in questione) che attengono tout-court alla associazione classicamente prevista dall’art. 74 dpr 309/90, si estendano anche all’ipotesi governata dal comma 6, in quanto il collegio ha dovuto affrontare l’esistenza di opposti indirizzo ermeneutici.
Senza ripercorrere i prodromi del conflitto interpretativo, risolto dalla sentenza in commento, sia sufficiente rilevare la persuasività degli argomenti adotti dall'indirizzo che sostiene la tesi che l’associazione di cui al comma 6 ° dell’art. 74 dpr 309/90 operi uno specifico richiamo all’art. 416 c.p., che non pare affatto circoscritto solamente all’aspetto quantitativo della pena.
In realtà, la associazione relativa alla commissione di fatti di lieve entità deve essere classificata come una previsione normativa specifica (e qualificata) dell’art. 416 c.p. calata, però, nel contesto della disciplina sanzionatoria degli stupefacenti.
Appare assolutamente condivisibile, quindi, la lucida notazione – riportata in sentenza – secondo la quale, se davvero la previsione del comma 6 dell’art. 74 dpr 309/90 fosse riconducibile alla generale disciplina prevista dall’art. 74 (e priva di indipendenza), non avrebbe, quindi, avuto alcun significato classificare l’istituto in parola come reato autonomo.
Sarebbe stato, infatti, sufficiente, in caso di adesione a siffatta opzione, utilizzare lo stesso meccanismo previsto dall’art. 73 comma 5.
In tal caso, la portata dell’istituto dell’associazione minore sarebbe stata confinata al rango di mera circostanza attenuante, con tutti i limiti e le preclusioni (ad esempio, l’obbligatorietà del giudizio di valenza rispetto ad altre circostanze, oppure il divieto espresso di bilanciamento rispetto alla recidiva ex 99 co. 4 e 5 c.p.) che ne avrebbero depotenziato l’efficacia e l’operatività.
L’assimilazione al regime dettato dall’art. 416 c.p. appare, pertanto, elemento giustificato da un grado di minore offensività e di minore allarme sociale che il tipo di societas sceleris – in questione – provoca.
In pari tempo, detta condizione costituisce carattere che differenzia fortemente ed in maniera del tutto individualizzante l’istituto dal generale regime associativo previsto dall’art. 74 co. 1 e segg. .
Le conclusioni che precedono permettono di comprendere anche la scelta di un diverso trattamento sanzionatorio, [sine dubio, maggiormente afflittivo per l’ipotesi genetica] opzione che costituisce piattaforma razionale e logica per risolvere il tema dell’applicabilità (o meno) della regola prevista all’art. 275/3° c.p.p. anche all’associazione di cui all’art. 74 comma 6°, che integra il quesito che in via principale ha investito i giudici di legittimità.
Appare evidente che la soluzione del quesito rimesso all’apprezzamento della Corte di Cassazione risulti assolutamente obbligata ed orientata nel senso di ritenere che il comma 3° dell’art. 275 c.p.p., (in quanto stabilisce sulla scorta di una mera presunzione di adeguatezza, una importante compressione del regime delle libertà personali, in deroga al principio che la custodia in carcere costituisce l’extrema ratio e strumento di applicazione del tutto eccezionale), vada applicato, in modo del tutto sinallagmatico, solo a quei reati che – siccome testualmente e tassativamente indicati dal combinato disposto dalla stessa norma con l’art. 51 co. 3 bis e quater c.p.p. – presentano un carattere di apicale gravità.
Il principio che la intrinseca ed elevatissima gravità del singolo reato soddisfi in re ipsa il requisito dell’adeguatezza della misura detentiva intra moenia (a mente del comma 3° dell’art. 275 c.p.p.) costituisce, pertanto, ulteriore limite a che la citata presunzione possa operare nei confronti dell’istituto giuridico previsto dal comma 6° dell’art. 74 dpr 309/90.

* Avv. Carlo Alberto Zaina
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