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Tossicodipendenti. A Nairobi non avevano mai sentito parlare di epatite C
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Articolo di Redazione
24 luglio 2018 12:30
 
 Era un mattino del 2013, “giusto dopo il primo buco”. John Ndichu era con una trentina di altri tossicodipendenti nella sua tana, quando un’équipe di Médicins du Monde (MDM) è arrivata. “Li abbiamo cacciati”, racconta il giovane uomo cinque anni dopo, seduto sul pavimento di cemento forato di una piccola clinica gestita dalla ONG francese a Kangemi, una bidonvlle di Nairobi, I suoi occhi sono ancora tirati, affogati e il ritmo della sua voce rotta in alcuni momenti rallenta, come se fosse preso da una estrema stanchezza. Ma John, figura classica in jeans e T-shirt rossa, ci tiene a raccontare rigorosamente come i medici lo hanno guarito dall’epatite C.
Lì in un angolo, in una radura con alberi dove si ritrovano venditori e consumatori di eroina, l’HIV è una minaccia ben conosciuta. Ma quando l’équipe dei dottori prova ad entrare in contatto coi tossicodipendenti, la maggior parte di loro non hanno mai sentito parlare di epatite C. “Si diceva: l’epatite C, che cosa può avere a che fare con me? Perché avrei l’epatite C, io mi inietto solo dell’eroina”.
“Avevo perso ogni speranza”.
Presso i tossicodipendenti di Nairobi, marginalizzati, la presenza di epatite C è maggiore che quella di AIDS (42 contro 36%, secondo MDM), ma la sensibilizzazione, l’accesso alla diagnostica e alle cure, sono estremamente limitati. La progressione del virus ha seguito quella dell’eroina, che entra nel Paese attraverso il grande porto di Mombasa. Indice della sua importanza, il Paese conta uno delle maggiori quantità di drogati per via endovenosa in tutto il mondo, secondo la ONG: In precedenza limitata ad alcune strade squallide del centro della città, l’eroina è ormai accessibile in numerosi quartieri popolari. Come Dagoretti, quello dove John è cresciuto.
Il suo primo incontro con l’eroina non è stato per strada né in zone specifiche. Ma a casa sua, con suo fratello maggiore. Quest’ultimo ne consuma da lungo tempo, malgrado le discussioni che questo provoca in famiglia, stimolando nell’adolescente un’avida curiosità. “Ho preparato, bruciandola, l’eroina, quando lui non era più in grado di farlo. Facevo le dosi, muovevo la fiamma in modo che potesse inalare. Un giorno che era completamente andato, ho aspirato la fiamma da solo”, racconta mimando il gesto. Senza poter reprimere un sorriso di estasi. Era agli inizi degli anni 2000, aveva 14 anni. In qualche mese, l’eroina - fumata, inalata e poi alla fine iniettata – aveva un ruolo principale. Lascia la scuola, ruba per mettere insieme 1.500 scellini (13 euro) che costano le sue dieci dosi quotidiane, si allontana dai suoi genitori e dalla loro casa. A Dagoretti, l’adolescente trova una radura dove passa le sue giornate, talvolta anche le notti: e lì incontrerà un giorno l’équipe di MDM.
Una volta accettati, i volontari sensibilizzano i tossicodipendenti sull’epatite C, malattia trasmessa tramite il sangue, nella maggior parte dei casi con lo scambio di siringhe o dei rapporti sessuali in cui ci sono delle lesioni corporee. Propongono dei test di controllo e dei trattamenti. Come gli altri nelle sue stesse condizioni, John è molto diffidente. All’inizio prendono le medicine come loro indicato. “Non abbiamo mai sentito parlare di questa malattia, i medici arrivano, dicono che il trattamento è molto costoso (100.000 scellini, cioé 850 euro) e che vogliono farcene dono? La maggior parte dei ragazzi dice di no”, ricorda muovendo la testa a destra e sinistra. Gli eroinomani hanno paura di essere utilizzati come cavie. Inoltre, “molti preferiscono di non sapere che si sono infettati”, aggiunge Manassen Murage, un giovane medico di MDM specializzato in HIV ed epatite C.
Questo esile uomo con lo sguardo affabile, considerato dagli ex-pazienti come un “angelo guardiano”, riesce alla fine a convincere John a fare il test a luglio del 2017. Positivo. La sua prima reazione è una grande arrabbiatura che ritorce contro se stesso. “Non sono potuto tornare a casa, dire a mia madre ciò che mi ero preso. Avevo perduto ogni speranza. Sono andato nella tana, mi sono riempito di droghe, ho bevuto molto, fumato, ho avuto rapporti sessuali”.
Opportunità
Nel giro di qualche settimana, ha finito per chiedere a Manssen se poteva ricevere la cura. Il programma di Médecins du Monde, portato avanti dal 2016 con Médecins sans frontières, cofinanziato dall’Unitaid, giunge quindi alla fine. Non rimangono che pochi mesi, John ha scelto questa opportunità. Gli 84 giorni di cura col sofosbuvir sono difficili. “All’inizio non avevo accesso al metadone. Quando si prende ancora l’eroina, che si è ancora nella tana, è molto complicato seguire bene la propria cura”. Oltre il superamento della droga, gli andirivieni quotidiani coi trasporti pubblici sono lunghi da Dagoretti fino alla clinica di MDM. Per coloro che lavorano, conciliare i due aspetti è quasi impossibile.
Alla fine del 2017, John fa l’ultimo test. Negativo. La malattia è stata vinta, ma non il richiamo dell’eroina. Anche dopo aver cominciato il metadone, John si è “rifatto”. “Ma con delle siringhe pulite”, ammette con un sorriso ingenuo, precisando che non l’ha più toccata da tre mesi. Le sue relazioni con la sua famiglia riprendono poco a poco, sta considerando di diventare contadino, può darsi un giorno anche guida turistica. E vuole aiutare “quelli della tana” perché anche loro abbiano una cura. “Bisogna che ci siano delle persone che conoscono l’effetto di una dose e l’effetto di una caduta, altrimenti è troppo difficile convincerli. Bisogna anche trovare delle soluzioni per i trasporti, perché molti si fermano proprio per questa difficoltà”. Dall’inizio del 2019, MSF prevede di avviare un nuovo programma di cure, questa volta nel quartiere Dagoretti.

(articolo di Marion Douet, corrispondente da Nairobi, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 24/07/2018)
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