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Vendita semi cannabis, contrasto fra giudizi di merito e giudizi di legittimità
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Articolo di Carlo Alberto Zaina
29 luglio 2010 11:57
 
Il tema della vendita di semi di cannabis, la sua perseguibilità in presenza di particolari condizioni e la sussumibilità dell'illecita condotta (astrattamente ipotizzabile) nella previsione dell'art. 82 dpr 309/90, costituiscono argomenti, che, negli ultimi tempi hanno suscitato importanti e contrastanti prese di posizione giurisprudenziali.
Va sottolineato, al fine di meglio comprendere la portata della soluzione adottata in relazione ai vari profili – soprattutto di natura cautelare - emersi nel corso di indagini preliminari promosse da alcune Procure della Repubblica, che si è venuto a creare un rilevante stato di discrasia e di contrasto fra l'orientamento invalso in ambito di merito e quello adottato in sede di legittimità.
Le due pronunzie che intendo brevemente esaminare costituiscono, pertanto, due significativi esempi, che confermando una generale situazione, attualmente imperante, di incertezza e di scontro sul piano interpretativo, si caratterizzano – in pari tempo –, poi, per un approccio abissalmente differente alla questione.
Tentando, quindi, di operare una sorte di parallelismo – entrambe le decisioni si prestano a tale operazione, in quanto attengono al più generale tema della cautela - balza all'evidenza la circostanza che il S.C. circoscrive la propria attenzione al solo aspetto materiale della condotta, privilegiando, così, il collegamento giuridico-naturalistico fra la norma che si assume violata (l'art. 82 dpr 309/90) e le modalità con le quali vengono svolta l'attività commerciale di vendita dei semi.
Per contro il Tribunale di Bolzano opera una disamina più ampia, soffermando su più temi, con speciale accento riguardo all'elemento psicologico dell'agente ed al tipo di dolo che viene richiesto nella fattispecie.

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La Corte di Cassazione (sentenza n. 25798/2010), quindi, conferisce valenza a quella che appare null'altro che la risultante dell'applicazione di un puro sillogismo.
Pur partendo, infatti, dal principio che la vendita di semi è attività lecita e penalmente irrilevante. Il giudice di legittimità assume che tale specifica condotta viene ad acquisire valore degenerativo e negativo, nel caso in cui essa sia svolta in abbinamento con la commercializzazione di testi che illustrino metodi coltivativi oppure di strumenti e di prodotti idonei alla coltivazione.
Si noti bene che il Collegio evoca, ai fini del riconoscimento di rilevanza penale delle condotte commerciali in parola, la commercializzazione di
1) testi sulla coltivazione, che usualmente l'interessato può trovare agevolmente anche in qualsiasi libreria (anche online) e che, quindi, sono tuttora di libero accesso e fruizione, in quanto non risulta che nessuna Procura della repubblica abbia mai preso iniziative di sequestri di tale materiale,
2) arnesi e strumenti (quali sostanze fertilizzanti, lampade illuminanti, vasi ed altro) che appaiono destinati ad assolvere funzione coltivativa in relazione a qualsiasi prodotto agricolo (pomodori, fagioli, patate etc.) e, che, invece, nel collegamento con i semi di cannabis acquisiscono una valenza illecita assolutamente impropria (quasi luciferina), posto che essi
a) non necessariamente devono venire (e vengono) venduti in abbinamento con i semi;

b) non assolvono, come detto, ad una funzione e destinazione specifica, ben potendo essi venire utilizzati per qualsiasi forma di coltivazione agricola o domestica di qualsivoglia prodotto.
La S.C. non opera, pertanto, alcun tipo di disamina in relazione a due elementi che, invece, risultano particolarmente importanti.
Da un lato, come si nota agevolmente nella sentenza emessa dalla Sesta Sezione, onde qualificare il comportamento oggetto dell'indagine, vengono utilizzati, in maniera indistinta tra loro i termini “istigazione” ed “induzione”.
Quella che così si solleva, costituisce questione che non può venire confinata in ambiti puramente filologici o terminologici, perchè, invece, essa appare cartina di tornasole di un'errata omologazione di condotte materiali, che deve venire vigorosamente disattesa.
Il legislatore, infatti, pur ponendo quale condotta illecita centrale nell'ambito precettivo di cui all'art. 82 dpr 309/90, l'istigazione, ha, comunque, inteso perseguire anche altri comportamenti (l'induzione ed il proselitismo) che si presentano, per intrinseche peculiarità, come autonomi rispetto al principale.
Deve essere, pertanto, criticata l'impropria fungibilità con la quale il giudice di legittimità utilizza espressioni (che descrivono specifici comportamenti), le quali, invece, identificano situazioni non solo tra loro assai differenti, ma che non possono affatto sortire e suscitare forme di confusione (come, infatti, mostra di cogliere e recepire la giurisprudenza di merito).
L'adozione di un simile indirizzo ermeneutico, non favorisce certo quella necessità di chiarezza e tassatività di identificazione della tipologia delle condotte perseguite dall'art. 82 dpr 309/90, passaggio che costituisce naturale premessa per delineare gli ambiti di operatività della norma.
Da altro canto, si deve, inoltre, osservare che nessuna importanza la Corte di Cassazione conferisce all'esame della sussistenza dell'elemento psicologico, che dovrebbe sottendere ai tre comportamenti sanzionati dall'art. 82 dpr 309/90.
E' questa una importante lacuna interpretativa, che più volte è stata rilevata dalla giurisprudenza di merito e dalla dottrina.
La disamina dell'esistenza di una volontà (nonchè la successiva esatta configurazione del tipo di volontà) che anima il soggetto, al quale viene attribuito il delitto in parola, costituisce, infatti, un momento di doverosa indagine imprescindibile per pervenire ad una soluzione corretta del problema.
La S.C., invece, nelle sue più recenti pronunzie e, in special modo, nel caso che ci occupa, omette tale verifica, quasi che l'esame dell'elemento psicologico del reato costituisca investigazione superflua.
In realtà, questa impostazione non pare per nulla condivisibile, perchè – come felicemente osserva il Tribunale di Bolzano (pg. 2) – la natura del reato di istigazione suppone che sul piano formale la volontà dell'agente deve essere diretta e non può essere di carattere mediato.
Costituisce principio giurisprudenziale consolidato l'affermazione che “Il delitto di istigazione per delinquere postula un dolo generico, consistente nella cosciente volontà di commettere il fatto in sé, con l'intenzione di istigare alla commissione concreta di uno o più delitti, essendo del tutto irrilevante il fine particolare perseguito o i motivi dell'agire” (Cfr. Cass. pen. Sez. I, 16-10-2008, n. 40684, in www.leggiditalia.it).
Con tale pronunzia, il S.C. ha inteso privilegiare il filo diretto che collega l'ideazione e la volizione del singolo e la condotta illecita.
L'agente deve, quindi, volere la commissione del fatto, nel senso che egli ha come scopo unico la concretizzazione dell'illecito, dovendosi prescindere dalle pulsioni o dalle ragioni che lo spingono all'azione.
E' la direzionalità e fissità dell'idea verso l'evento o l'azione illecita, che rileva per qualificare la volontà dell'agente.
L'istigazione (così come l'induzione od il proselitismo) quale atto persuasivo alla commissione di un fatto antigiuridico viene, quindi, considerato in un'accezione completamente negativa.
Diversamente da queste posizioni, la Corte opera, invece, un automatico assemblaggio tra la vendita di semi e la vendita degli altri prodotti od oggetti già indicati.
Il Collegio utilizza, quindi, in via del tutto esclusiva, simile commistione di comportamenti (che attiene al solo profilo materiale), per, indi, pervenire ad una prognosi di perfezionamento e di attribuibilità dello specifico reato (quello di cui all'art. 82 dpr 309/90) in capo all'agente.
A ben guardare, la posizione dei giudici di legittimità pare adombrare quasi un richiamo al principio della responsabilità oggettiva.
Il costante richiamo ad una presunta correlazione materiale fra i vari prodotti, legittima, infatti, il convincimento che la Corte Suprema ritenga che la vendita di prodotti e strumenti per la coltivazione, ove svolta in simbiosi con il commercio di semi di cannabis, assuma il carattere di illiceità prescindendo dall'effettiva volontà dell'agente.
L'ordinanza del Tribunale di Bolzano sostiene in proposito, con accezione del tutto critica e tranciante che, formulando tale costruzione giuridica, “.....la Cassazione ha escogitato un escamotage..”.
E allora, attesa l'inconciliabilità delle posizioni giurisprudenziali, vi è da domandarsi quali siano i parametri giudirico-delibativi adottabili ed adottati.
Vale a dire che non è ozioso valutare se si verta in ambito di applicazione dell'art. 44 c.p. (in tema di condizione di punibilità), giungendo ad inserire nella categoria delle condizioni il commercio di tutti quei prodotti che non sono semi, oppure, se si verta in un contesto di responsabilità obbiettiva, atteso che l'attribuibilità del reato avviene solamente sulla base del rapporto di causalità materiale, indipendentemente dal concorso del dolo o della colpa.
Ritiene chi scrive che la prima delle due ipotesi illustrate possa avere un pregio, quantomeno, quale vera e propria provocazione giuridica.
E' notorio che la semplice vendita di fertilizzanti, vasi, lampade non costituisce, infatti, reato.
Tale commercio, però, diviene, repentinamente ed asseritamente illecito, se abbinato alla vendita di semi e, dunque, viene giurisprudenzialmente elevato ad elemento di condizionamento negativo di una condotta altrimenti non penalmente rilevante.
Da tale operazione interpretativa si può desumere, quindi, la giustificazione della prevalente, se non esclusiva, attenzione dei giudici al profilo materiale, cioè solo alla condotta.
Sotto altro aspetto, invece, il riferimento alla responsabilità oggettiva costituisce, probabilmente, soluzione di maggiore aderenza e coerenza rispetto agli arresti giurisprudenziali della Corte di Cassazione.
Nella pronunzia in commento, infatti, come già si è avuto modo di sottolineare, emerge, pacifico e connotante, il totale disinteresse per qualsiasi aspetto riguardante l'intenzione dell'agente, di modo che la condotta penalmente rilevante (istigazione, induzione o proselitismo) acquisisce valenza ex se, cioè proprio secondo i canoni sanciti in dottrina (V. ex plurimis ANTOLISEI Manuale parte generale Milano, 1991, pg. 340).
Qualunque sia, quindi, l'orientamento cui aderire – anche differente rispetto a quelli indicati – risulta, comunque palese, pertanto, la circostanza che la S.C. incorre nell'errore di ricavare la presunta prova della volontà cosciente dell'illecito, per facta concludentia, utilizzando, così, un canone ermeneutico che, invece, presenta natura esclusivamente residuale.
Esso può venire, infatti, evocato solo quando l'esame del profilo psicologico della persona non appaia sufficiente a permettere una concreta diagnosi.

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La giurisprudenza di merito – e per essa, esemplificativamente, l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Bolzano – ha, per propria parte ed impostazione, sempre posto alcune pregiudiziali questioni.
A conferma di tale assunto, in primo luogo, si richiama un elemento di fondamentale importanza, ai fini della valutazione della correttezza e pertinenza della contestazione del reato di istigazione (et similia) e cioè l'esame lessicale del testo del ricordato articolo 82.
Va, infatti, sottolineato come il co. 1 dell'art. 82 cit. - nel corpo di sole tre righe – ripeta per ben tre volte la parola “uso”, ponendo, quindi, inequivocabilmente, solo tale condotta finale (e nessun altra) in diretta correlazione con le tre azioni vietate ed, in pari tempo, sancendo una principio di tassatività dell'azione considerata illecita.
Ergo, nessun altra distinta forma di eccitazione morale di terzi, la quale si rivolga a condotte diverse dall'uso e penalmente rilevanti, viene prevista dalla disposizione di legge in questione, (neppure per implicito).
Va osservato, forse pleonasticamente, ma necessariamente, attesi i presupposti dell'ordinanza, che l'uso di sostanze stupefacenti (che costituisce comportamento penalmente irrilevante) non può formare oggetto di confusione ad alcun titolo e sotto alcun profilo con la coltivazione (che, invece, costituisce una delle oltre venti ipotesi punibili).
Il collegamento fra l'attività illecitamente eccitativa, descritta dalla norma nelle tre forme indicate, e la successiva condotta coltivativa posta in essere dal soggetto destinatario dell'illecita esortazione, appare, quindi, del tutto improprio e non conforme al ricordato tenore della disposizione.
A conferma del collegamento fra condotte illecitamente istigative e l’eventuale successivo uso di sostanze stupefacenti, il giudice di merito opera, inoltre, un pregevole richiamo storico alle motivazioni che indussero il legislatore a formulare il dettato dell’art. 82.
E’, comunque, la valutazione dell’elemento psicologico dell’agente, il punto nodale della vicenda su cui pone la propria attenzione il Tribunale.
Sotto questo profilo il giudizio del collegio è impietoso e non risparmia critiche né al potere legislativo, né, tanto meno, al potere giudiziario.
La attività di commercio di semi – ad avviso dei giudici di merito – costituisce, dunque, attività di per sè lecita, sia in quanto essa si svolge “sfruttando una lacuna normativa”, sia – ed è ciò che maggiormente importa – perché la volontà, che sottende all’azione posta in essere dagli esercenti, è indubbiamente quella di trarre profitto economico dal proprio commercio.
In modo chiaro ed univoco, senza ipocrisie giuridiche, il Tribunale esclude, quindi, che l’agente-commerciante nello svolgimento della propria azione, persegua scopi di diffusione e proliferazione ideologica dell’uso di stupefacenti, fini per cui appaiono strumentali l’istigazione, l’induzione od il proselitismo.
Deriva dalle premesse sin qui svolte, un’ulteriore osservazione in punto di dolo.
Come già considerato, risulta insuperabile la conclusione che il dolo, che le condotte descritte dall’art. 82 dpr 309/90 prevedono, debba essere diretto.
L’azione persuasiva, pertanto, deve risultare necessariamente orientata e concepita in modo da essere idonea a suscitare nel destinatario la pulsione di usare droghe.
La circostanza che il commerciante di semi possa accettare – tra le conseguenze del proprio mercato – l’eventualità che l’acquirente faccia uso di prodotti derivati dalla coltivazione, costituisce situazione differente dalla finalizzazione che il dolo diretto presuppone.
Questo atteggiamento mentale, dunque, non apparendo inequivoco, ma presentando caratteri di mera presumibilità permette di qualificare il dolo dell’agente come diretto od eventuale, cioè elemento psicologico affatto differente da quello che la norma incriminatrice presuppone.
E' quella che precede conclusione che chi scrive ritiene di particolare pregnanza, rispetto alla tematica in parola e che induce a preferire la posizione della giurisprudenza di merito, attesa la maggiore completezza della ricognizione interpretativa che quest'ultima pone in essere.

* Avvocato e consulente legale Aduc sulla normativa sugli stupefacenti
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