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Il cieco non sogna al buio. A Futura Memoria
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Articolo di Giuseppe Parisi
1 febbraio 2009 0:00
 
Internet e' un "vero dono per l'umanita'" e deve essere accessibile a tutti
(Jouse' Ratzinger)

Barack Obama si e' insediato, il vento soffia forte, la ricerca scientifica si muove, la storia volta pagina.
Tuttavia, non tanti si saranno resi conto della tipicita' dell'agenda politica di Obama, tutta esposta ai media, privilegiando il web.
Cosi', subito dal primo minuto dall'insediamento del neo Presidente, il sito web della Casa Bianca, (clicca qui) cambia look, a simboleggiare la trasparenza con la quale l'amministrazione Obama pretende di  avere nei confronti sia del popolo Americano sia dei popoli del pianeta.
Obama ha vinto grazie ad una  mobilizzazione senza precedenti, operata attraverso la rete del web,  preziosa e' stata la viva collaborazione di esperti, i quali hanno saputo fare sana politica attraverso questo meraviglioso mezzo di comunicazione.
Come non dire che la Rete ha modellato  il futuro del Paese Americano e di gran parte del pianeta?
Ed in Italia?
Quanti sono a conoscenza che la crescita di informatizzazione dello "stivale", negli ultimi anni, e' crollato sotto gli standard dei Paesi Europei, posizionandosi solo  davanti alla Romania, che certamente presto ci avanzera', superandoci?
Noi ricordiamo uno dei tanti "caroselli" elettorali del Presidente Silvio Berlusconi, quando vantava che  le scuole d'Italia, con lui Presidente sarebbero state le scuole delle 3I, includendo  inglese ed informatica.
Non e' andata esattamente cosi', e la recessione economica, comodamente presa quale motivazione di tutto, non c'entra per niente.
Si tratta, viceversa, di razionale ed astuta, se non agghiacciante volonta' politica, nel mantenere una non piena efficienza della Rete del web.
Il motivo per quanto apparentemente difficile da comprendere, e' viceversa di una facilita' estrema.
Quando il Presidente Berlusconi, con la  medesima metodologia dei "messaggi in codice" asserisce "io sono troppo vecchio per il computer", non molti si rendono conto che sta lanciando messaggi in codice, che sono la vera agenda politica, e che solo orecchie "particolarmente sensibili" sanno udire.
Il politico puo' andare davanti alle telecamere per il piccolo schermo, dicendo amenita', resteranno poche tracce delle brillanti intuizioni.
Tutto questo sul web non e' possibile, sarebbe facile consultare un motore di ricerca, per far emergere le brillanti  stupidita', in ogni parte.
Pensate che i politici propensi ai "caroselli delle bugie", possano essere desiderosi del web? Meglio le tv, ancor di piu' quando se ne e' proprietari.
Perfino il Santo Padre, Jouse' Ratzinger, "vola" sul vento del Web (1) e la Fede va su "youtube" (2).
Tutti cavalcano il Web , anche esponenti di questo Governo, il ministro Renato Brunetta, oltremodo la ministra Maria Stella Gelmini (3).
Il Web e'  un dono per l'umanita', pur non contrastando con la televisione, la sminuisce. Con Internet  si accede ad una cosi' vasta, immensa scelta di informazione e cultura, che  il piccolo schermo  non serve piu' a nulla.
Tra l'altro, per coloro i quali posseggono una connessione  veloce, potrebbero accedere ad un numero innumerevole di canali televisivi direttamente sul proprio computer.
Il nostro consiglio e', pertanto, di non pagare piu' il canone, vendendo la televisione in qualche mercatino delle pulci. La questione e' giuridicamente controversa, ma per ora, almeno, il canone non si paga per il possesso di un pc (4).
Non e' un caso, pertanto, che la banda larga che dovrebbe essere ormai presente in ogni parte del moderno stivale, non c'e', oltremodo l'offerta non e' per tutti.
Una moltitudine di paesi Italiani, localita' piccole o grandi, ne sono sprovvisti, sono nel passato.
L'Italico medioevo del web umilia tutti,  ancor di piu' i portatori di disabilita' visiva, i ciechi. Un normovedente va in libreria, sceglie un libro, lo acquista e va a casa a leggerlo ( n verita' pochi in Italia) un cieco come fara'? Il desiderio di informarsi, soprattutto il desiderio di lettura e quindi cultura, del non-vedente, e', per una eterna insidiosa quanto egoistica posizione dell'editoria Italiana, olio di gomito, una immensa  pazienza di ore ed ore passate alla scansione  del libro, allo scanner ed al computer, per salvarne una copia  in formato testo, trasformato dai software  sempre piu' evoluti chiamati o.c.r.. Ma, medioevo giuridico Italiano, i ciechi che per necessita' ed amore della cultura condividono il loro lavoro con gli altri attraverso il web, rischiano pesanti  pene, per lesioni dei diritti di autore: noi ci chiediamo, chi difende i diritti dei disabili, ed il loro diritto alla informazione ed alla cultura?
Come nel medioevo: i ciechi fuori dalle mura?
Oggi, ogni cieco e' perfettamente consapevole che  l'isolamento  ed il buio intorno si supera  con la luce del web. I ciechi gestiscono il computer meglio di quanto si possa immaginare,  molti di essi sono perfino  programmatori di software, altri al computer sono virtuosi come un concertista al pianoforte, quasi tutti con il patentino Europeo del computer, che si chiama E.C.D.L. 
Un  cieco  al "Grande Fratello". Certamente puo' aiutare a far comprendere alla ignara societa' Italiana che un cieco  non e' solo un povero essere  avvolto nel suo buio, infelice, senza risorse alcune. Ma  il "Grande Fratello" non e' soddisfacente.
Le realta' della disabilita' visiva sono ben altre, che  richiederebbero piu' attenzione da parte  del legislatore  super-distratto, sovente  insensibile ai grandi problemi dei portatori  di tale cosi' grande handicap. Nella mia esperienza, non ho mai conosciuto ciechi che non abbiano avuto una raffinatissima intelligenza, insieme ad una equilibrata capacita' di sintesi logica. Ludicamente dotati sopra la media, con vive risorse  creative, superano quelle dei normovedenti.
Per semplificare al massimo quello che  di facile comprensione non e', si tratterebbe della logica di Madre natura che, in mancanza di un certo senso, ne attiva affinandone e raffinandone altri.
Approfittando di questo spazio pubblico, desideriamo lanciare un messaggio per coloro i quali  sono investiti di responsabilita' istituzionali in questo Paese: se gli interessi di mercato creati dalle televisioni non verranno urgentemente sostituite da sontuosi investimenti e risorse economiche per lo sviluppo della banda larga, il futuro di questo  Paese e' gia' segnato.
Se ne dovranno assumere paternita' e responsabilita', di fronte alle future generazioni.
Quanto scritto, a futura memoria.
Vi lascio con una significativa autobiografia, gia' pubblicata da una casa editrice in Svizzera. Si tratta di un amico, cieco per errore dalla nascita, perche'  nato prematuro: fu  messo in incubatrice  che erogava un tasso non idoneo di ossigeno, che  ledeva irrimediabilmente la retina.
Il dottor Dante Balbo, psicologo, in una serena autobiografia, insegna che un cieco non fa sogni al buio, mai.

Fili d'argento
Il gioco delle reti, tra infanzia e informatica
A cura di Dante Baldo

Mio padre stava li', tutto affaccendato a frugare in uno scatolone, il tavolo gia' pieno di bocce, statuine e pendagli, mentre io esploravo delicatamente la mensa trasformata in un campo di lavoro, strappando qualche commento apprensivo: "Con quelle mani sempre dappertutto!".
Finalmente uscivano fuori dallo scatolone i fili, quei fili delicati, dal crepitio sottile, lucidi al tatto, che pian piano invadevano l'albero con un intrico d'argento e oro.
Quando penso a qualcosa di luminoso e leggero al contempo, torno con la memoria a quei fili colorati che adornavano gli alberi di plastica della mia infanzia natalizia.
Sono fili colorati le relazioni che si sono arrampicate sull'albero della mia vita, ora tenui, ora robuste, ora brevi come un temporale, ora ricorrenti come le maree.
Il dono piu' bello della mia cecita' e' stato proprio questo: se volevo vivere dovevo costruire rapporti.
Certo, non e' una prerogativa dei ciechi intessere incontri, ma l'handicap, quando non isola, diventa un motore potente per costruire ponti fra le persone.

L'esilio "necessario", forse!

E' cominciato tutto con l'istituto per ciechi, almeno fin li' mi ricordo, uno spazio dove non si poteva scegliere se relazionarsi o no, ma solo con chi.
Ciechi fra i ciechi, per imparare a convivere con l'handicap, braille, musica, lattine di caffe' per giocare a "tolla", una specie di football rumoroso, insomma tutto quello che serve per fare un cieco doc.
La comunita', se imposta dalle necessita', non e' un'esperienza solo importante per allargare gli orizzonti, uscire dal pietismo dei vicini di casa, ma uno scoglio difficile, come attestavano i regolari e violenti disturbi gastrici che mi facevano vomitare ogni volta che da casa, tornavo in corriera all'istituto.
Quando terminai le scuole dell'obbligo sapevo strimpellare il pianoforte, avevo "distinto" in latino e un gran desiderio di andarmene da quel ghetto. Erano gli anni settanta, con i cortei di studenti a pochi passi dal collegio, in una Milano in fermento rivoluzionario: anni difficili per noi che crescevamo, ma anche per l'istituzione tradizionalmente dedicata ai privi di vista, che vedeva sgretolarsi il suo potere di unica madre dei "poveri ciechi", rimpiazzata da una parola orribile, "reinserimento".
Quando decisi di andarmene, per studiare nella mia citta', il direttore, un monsignore serio milanese tutto di un pezzo, di cui ricordo le messe in latino, mi disse: "Tornerete piangendo a chiederci di studiare da noi: fuori non e' il paese dei balocchi."

La liberazione: il grande "fuori" e la sfida

Su questo ultimo punto aveva ragione, almeno in parte, perche' un ragazzo cieco dalla nascita, che tenti di studiare al liceo classico, con il greco e tutto il resto, in una piccola cittadina della provincia pavese, e' un fenomeno cosi' strano che piuttosto lo si sarebbe mandato alle magistrali femminili delle monache, almeno cosi' consiglio' l'insegnante di greco del ginnasio che con me non sapeva che pesci pigliare.
Fu pero' la prima parte del discorso del buon monsignore, che, malgrado le sue intenzioni, mi diede la forza necessaria per stringere i denti e continuare.
Ancora una volta fu una questione di persone a determinare la mia strada: un professore di greco e italiano che mi insegno' ad apprezzare Dante e che scommise su di me, molti amici conosciuti a scuola e in un movimento religioso giovanile, che oltre a scorrazzare con me per la provincia mi registrarono cassette per studiare, e una cara insegnante di inglese, che mi diede molte ripetizioni e soprattutto la saggezza nobile di una signora.
Fu quello il tempo della mia conversione religiosa, dopo un periodo di estremismo di sinistra, piu' pensato che praticato.
Questo dato e' importante, non per una sua relazione con la mia cecita', ma perche' mi ha consentito di intrecciare un'infinita' di relazioni significative, che mi sono state di grande aiuto durante la scuola superiore e l'universita'.
Reinserirsi si', ma alla grande, per cui affrontare il liceo classico, significava automaticamente accettare la sfida della formazione universitaria.
Quando si tratto' di scegliere la facolta', nessun dubbio, avrei studiato psicologia, lo avevo deciso gia' a quattordici anni.
Non era semplice, perche' di psicologi ciechi non ne conoscevo e probabilmente non ce ne erano, allora, nel 1978, quando iniziai a frequentare le prime lezioni con il prof. Petter, a Padova, docente di psicologia dell'eta' evolutiva.
Se il mio primo compagno di viaggio negli studi elementari e medi era stato il Braille, l'universita' era impossibile da combattere a colpi di punteruolo e la vecchia tavoletta per la scrittura a puntini fu sostituita dal registratore.
Ho perso qualche amico appioppandogli i miei tomi, da riversare su cassetta, ma molti ne ho acquistati per la stessa ragione.
Il primo anno di psicologia sono rimasto a Padova, un altro istituto per ciechi mi ha ospitato, ma ero grande e quello era piu' vicino ad un albergo che ad una prigione.
Una delle cose che la cecita' insegna e' la sintesi, la necessita' di prendere possibilmente piu' piccioni con la proverbiale fava.
Siccome nella mia famiglia non si navigava nell'oro, anzi, qualche volta si rischiava di rimanere in secca, decisi che non potevo fare il signorino studente universitario e contemporaneamente agli studi sulla misteriosa rete delle passioni e dei sentimenti umani, mi dedicai alla rete telefonica, formandomi come centralinista.
Mentre studiavo psicologia, praticamente quasi per corrispondenza, cioe' preparandomi a casa sulla base delle indicazioni dei docenti, cominciai quindi a lavorare come centralinista nel municipio di Vigevano, la mia citta' natale.
A farmi compagnia, oltre alla mia ragazza di allora e ai miei amici, c'era un cane, un pastore tedesco con qualche acciacco e il terrore dei botti improvvisi, ma fedele e disponibile ad accompagnarmi per la citta', sui bus, a piedi, oppure spettatore dei miei giorni in ufficio e delle mie sere passate a ciondolare per la bella piazza della cittadina sulle rive del Ticino.
Studiare e' stato faticoso, anche se l'ascolto dei libri mi ha insegnato a star sveglio di notte e non ho ancora perso questa abitudine, famiglia permettendo.
Tuttavia non immaginavo fosse cosi' difficile lavorare.
Non si trattava di incompetenza, ma di resistenze sociali e culturali. In Italia la legge mi proteggeva e avevo diritto a lavorare in municipio o in un altro ente pubblico o privato che avesse piu' di tre linee telefoniche.
Quando percio' chiesi di poter lavorare nell'amministrazione comunale non sospettavo che mi ci sarebbero voluti sei mesi per imporre un mio diritto.
Una volta assunto, poi, mi ritrovai a fare di tutto, dall'impiegato d'ufficio che trascriveva le registrazioni dei consigli comunali, all'animatore musicale negli asili (scuole dell'infanzia), dal collaboratore d'archivio al cooperatore di una collega animatrice socioculturale che andava in giro a registrare canti e danze popolari.
Non che questo mi dispiacesse, anzi, mi permise di acquisire molte competenze che ancora oggi mi sono utili, ma tutto facevo, tranne il mio mestiere, il centralinista, l'unico che avevo seriamente imparato.
In realta' anche questa fu una fortuna, perche' mi preparo' almeno come mentalita' alla situazione di flessibilita' che una quindicina d'anni dopo, sarebbe diventata indispensabile requisito per tener testa alle trasformazioni del mercato del lavoro.
Per poter esercitare come centralinista, avrebbero infatti dovuto trasformare il mio posto di lavoro adattandolo alle esigenze di un cieco, sostituendo le spie luminose con dei sensori tattili e questo doveva essere un'impresa ciclopica, visto che ci vollero piu' di tre anni prima che si concretizzasse.
Quando poi avvenne, mi presi una soddisfazione, anche se determinata da ben altri motivi: me ne andai dal municipio.
La ragione non era una ripicca, ma una scelta di vita che feci allora con mia moglie, una ragazza svizzera conosciuta qualche anno prima per il tramite di un sacerdote mio grande amico.
Insieme a lei, infatti, decisi di trasferirmi in Svizzera.
Qui inizio' per me un periodo abbastanza singolare, per un marito italiano educato dalla cultura degli anni sessanta: io studiavo e mia moglie lavorava.
La laurea in psicologia non mi bastava, per diventare psicoterapeuta e mi iscrissi ad una scuola di specializzazione che aveva una caratteristica singolare: era in costruzione e quindi, si modifico' nel tempo, per quanto riguardava le sedi.
Mi ritrovai a viaggiare per l'Italia, da Torino a Genova, da Cremona a Milano.
Non era una cosa semplice affrontare ogni settimana nei mesi invernali le nebbie della pianura padana, ma a credere in questa avventura eravamo almeno in due: io, cresciuto con la propensione a trovarmi cose difficili da affrontare per potermi misurare con le mie effettive capacita' e mia moglie, una donna dall'apparenza fragile, ma che via via che la conosco si e' dimostrata anche piu' ostinata e tenace di me.
Eravamo nella seconda meta' degli anni ottanta, il mio cane era morto, ma stavo in Svizzera in un momento in cui non mi andava di avventurarmi nell'incontro con un altro animale da guida, perche' non ero ancora in una situazione di vita stabile e cosi' imparai ad usare il bastone bianco.
Mi fu utilissimo durante gli stage di psicologo e poi di psicoterapeuta, trascorsi in varie strutture, tra cui l'ospedale neuropsichiatrico Cantonale, oggi notevolmente riformato.
Terminai la mia formazione post laurea e finalmente cominciai a lavorare, per una societa' di servizio che si occupava di alcolisti.

La pelle dell'orso

Avevo partecipato ad un concorso, senza assolutamente credere di avere qualche possibilita' di successo e, invece, il direttore mi mando' a chiamare.
Qui sfoderai tutta la mia faccia di bronzo, quella che i francesi chiamano expression figée, per descrivere la fissita' dei volti dei ciechi dalla nascita, ma che in realta' io attribuisco in quel caso alla necessita' di barare spudoratamente.
Senza sapere praticamente niente di informatica e senza avere mai avuto un computer, scommisi con il direttore che valutava la mia assunzione che avrei avuto completa autonomia sul posto di lavoro, informatizzando la mia postazione.
Per fortuna vendetti la pelle, ma uccisi anche l'orso, imparando in breve tempo a districarmi fra bytes, ram, processori e text-editors.
Fu un vero salto di qualita' per le mie possibilita' di comunicazione con il mondo.
Ricordo l'angoscia provata anni prima, quando avevo dovuto scrivere la mia tesi universitaria con una macchina da scrivere e trascriverla poi in braille, imparando velocemente il sistema di stenografia italiana, per abbreviarne il volume.
Adesso potevo scrivere correggere, avere materiale da consultare attraverso i dischetti dei colleghi, trovare documenti gia' fatti e non dover chiedere a qualcuno di leggermeli.
Fu come passare dalla bicicletta alla Ferrari.
La scrittura braille rimaneva un punto fermo, ma diventava lo strumento per accedere ad informazioni in quantita' smisurata e in spazi ridotti.
Un libro che in scrittura braille avrebbe occupato numerosi volumi, diventava un floppy disk da tenere in tasca.
Quando mi accostai all'informatica il mio obiettivo era tutto sommato minimo, trovare il modo di conservare le informazioni professionali e poterle scambiare con i colleghi.
Non immaginavo certo che mi si sarebbe aperto un mondo immenso e in continua evoluzione.

Sia la rete, e rete fu

Prima venne l'edicola elettronica, una delle esperienze piu' emozionanti della mia vita per quanto riguarda l'acquisizione di autonomia.
Ricordo ancora la trepidazione e lo stupore nel trovare sul mio computer, semplicemente con poche operazioni e qualche momento di attesa, i giornali che tutti comperavano al chiosco.
Poter sfogliare le notizie in tempo reale, anticipare i colleghi su fatti che non avevano letto, gustare le terze pagine in cui la cultura si dispiega e dibatte.
Poi venne la posta elettronica, un circuito attraverso un server, per comunicare fra ciechi e ipovedenti, il precursore di Internet. Infine la rete, la grande rete delle lettere scambiate con la Siberia, delle biblioteche virtuali, delle informazioni piu' disparate, delle ricerche su temi diversi, della scoperta di luoghi da visitare ecc.
L'informatica ha costituito una vera e propria rivoluzione nella mia vita, le cui proporzioni sono difficili da circoscrivere.
Con la scrittura braille o i testi su audiocassetta la vita dei ciechi era gia' piu' facile di quando elemosinavano davanti alle chiese, ma con l'accesso alla rete virtuale e la possibilita' di trasferire mediante uno scanner testi dalla carta al computer sono stati un vero e proprio balzo in avanti, come dal velocipede all'aeroplano.
Oggi via e-mail ho scritto ad un editore per chiedergli se era possibile avere un libro in formato elettronico e poche ore dopo lo ritiravo dalla stessa posta elettronica.
Ho iniziato questo scritto a casa, lo ho continuato in ufficio e ora da casa lo spediro' sempre tramite un modem alla coordinatrice che me lo ha chiesto. Prima, pero', sempre con lo stesso computer lo inviero' via fax ad un'amica, per un commento.
Ma, soprattutto, posso controllare sempre quello che ho scritto o quello che altri mi inviano.
Quando eravamo fidanzati, io ho inondato mia moglie di lettere, perche' lavoravo in un ufficio e avere una macchina da scrivere non era un problema, ma lei non ha mai potuto scrivermi, e, se lo avesse fatto, avrebbe potuto al massimo parlarmi del tempo che faceva in Svizzera.
Ora invece la possibilita' di intessere relazioni consentendo anche ad altri di essere intimi con me e' possibile, grazie alla posta elettronica.
Tutto questo e' oggi il vasto mare cui anch'io ho accesso, ma solo grazie a delle persone.
Non alludo alla retorica degli informatici che si occupano di programmi speciali per ciechi, del resto indispensabili, ma a quella rete di persone, programmatori, ma soprattutto amici dell'Unitas, l'associazione dei ciechi e ipovedenti della svizzera italiana, miei compagni di viaggio in quest'avventura nel mondo telematico.
Il posto lo ottenni e non solo, progressivamente imparai a gestire la mia professione sempre piu' autonomamente.
Accanto al mio cammino professionale si sviluppava intanto il percorso personale, soprattutto in relazione alla mia esperienza di fede.

Non di sola integrazione professionale vive l'uomo

Crebbi con gli amici del movimento religioso cui ancora appartengo, il Rinnovamento nello spirito, che mi educo' all'amore per la Chiesa e alla tensione verso la dimensione comunitaria.
C'e' un pregiudizio sui ciechi, un'idea che probabilmente serve ad esorcizzare il dramma di una menomazione inaccettabile: i non vedenti, per un gioco compensatorio, sono spiritualmente acuti e sensibili. Si potrebbe dire meglio, sono buoni. Niente di piu' sbagliato e fuorviante, sia per la prima sia per la seconda ipotesi.
Il movimento religioso che ho abbracciato non e' fatto di soli ciechi, ma ha coinvolto 80 milioni di persone nel mondo. Si tratta di uno dei movimenti religiosi nati dopo il Concilio Vaticano II in cui uomini e donne hanno ritrovato il gusto di vivere un'esperienza personale di salvezza, di sperimentare un Vangelo attuale e che riguarda la loro vita concreta, le loro scelte quotidiane, i loro progetti e le loro speranze.
La fede, quella cristiana Cattolica, ha segnato profondamente la mia vita, non perche' sono cieco, anche i ciechi hanno le stesse chances di andare all'inferno, ma perche' ho avuto la grazia di incontrare dei testimoni autentici della medesima fede.
Mi ha accompagnato come un filo rosso, fatto di legami con gli amici e la comunita' di appartenenza, dalla mia giovinezza, fino ad oggi.
E' in questa esperienza che ho incontrato mia moglie, anch'ella convertita dall'ateismo. E' per la nostra fede e l'amicizia per una coppia che abbiamo deciso di abitare in Svizzera e non in Italia.
E' per la necessita' di concretizzare l'aspirazione al servizio degli altri in un ambito di fede, che ho chiesto di poter lavorare per Caritas Ticino.
E' infine l'evoluzione della mia partecipazione al movimento che mi ha generato alla fede, che mi ha condotto ad accogliere la chiamata al diaconato permanente.
Dopo la societa' di Cura dell'alcolismo, infatti, venni assunto a Caritas Ticino, in qualita' di operatore sociale.
Contemporaneamente mi formavo come candidato al diaconato permanente, una forma particolare del sacramento dell'ordine, ripristinata dal Concilio Vaticano II, che abilita uomini sposati a servire la Chiesa sia nell'aiuto ai poveri, sia nella predicazione e nel servizio liturgico.
Essere diacono permanente significa concretamente poter amministrare battesimi, partecipare alla Messa come lettore del Vangelo e predicatore, essere attivo in parrocchia con responsabilita' diverse.
Inoltre la mia stessa attivita' lavorativa e' impostata come un particolare modo di esprimersi del mio servizio come diacono.

I fili si annodano per un traguardo

In Caritas Ticino, una delle prerogative e' la flessibilita' e la disponibilita' a fare un po' di tutto.
In qualche modo, la mia vita si e' progressivamente unificata, da torrenti diversi e' nato un fiume, fondendo lavoro e fede, flessibilita' e autonomia, incontro con le persone e riflessione culturale.
Qui in Caritas Ticino faccio di tutto: scrivo articoli per la nostra rivista bimestrale, mi improvviso intervistatore televisivo, collaboro per la redazione di documenti, dirigo il servizio sociale e il servizio adozioni, preparo un programma per una radio locale, scelgo i temi per la formazione interna dell'equipe ecc.
Ma questa volta non e' il ripiego per miei diritti non riconosciuti, ma una scelta libera e cosciente di adesione al progetto di servizio agli "Ultimi" che Caritas Ticino incarna.
E la psicoterapia? Non e' dimenticata, per essa continuo a formarmi ed aggiornarmi, ed e' diventata una delle opzioni del pacchetto di proposte del servizio sociale di Caritas Ticino.
Al centro di tutte queste esperienze, ci sono persone, che camminano al mio fianco, che mi incrociano per un momento, con le quali costruisco amicizie capaci di sfidare il tempo.

Il pre-giudizio universale

Il ghetto non e' del tutto scomparso, anche se si manifesta in modo piu' sottile.
Molta e' ancora la resistenza da superare per una reale integrazione, ma non si tratta piu' di difficolta' logistiche, bensi' di una mentalita' da smontare, scritta nella storia millenaria del rapporto dell'uomo con la diversita' e con la cecita' in particolare.
E' qualcosa di piu' intimo dell'accettazione che un cieco possa fare l'avvocato o lo psicologo o l'operaio in una fabbrica, riguarda la nostra paura del diverso, la necessita' di proteggere come un bambino il portatore di handicap.
Non riguarda i vedenti cattivi che non capiscono, e' dentro la persona umana, cieca o vedente tetraplegica o atleta olimpico.
E' difficile per tutti scindere la persona dalle fantasie che riguardano il suo handicap.
La mia stessa testimonianza, potrebbe far sembrare che i ciechi siano tutti persone eccezionali, piene di interessi, con una vita di relazioni intensissima, ma io conosco ciechi e vedenti ottusi, vedenti e ciechi antipatici, ciechi senza fantasia e vedenti che hanno avuto guai che io non riesco ad immaginare di essere in grado di superare.
Io stesso, che ora parlo cosi', se incontro uno straniero, mi metto a parlare con lui come se fosse sordo, articolando le frasi e semplificandole come i negri dei film, con magari tutti i verbi all'infinito.
Quando il mattino mi reco nella sala dove facciamo la pausa, generalmente, almeno tre persone si alzano per cedermi il posto, con intenzioni di benevolenza, ma non farebbero lo stesso e non lo fanno per il mio direttore, che gerarchicamente e' piu' importante di me.
Nel mio ruolo di diacono permanente sono recentemente andato in un palazzo per benedire le case, una tradizione ancora diffusa qui in Ticino.
Una signora, alla fine, mi ha fatto un'offerta, ma non per la chiesa, cosa consueta, ma "per un caffe'."
E' solo una sensazione di pelle, ma sono quasi certo che se fossi stato vedente non avrebbe osato.

Ancora fili d'argento, per fare una cometa

La mia strada non e' finita e da queste pagine se ne scorgono solo alcuni tratti, dentro i quali le mille relazioni che ho intrecciato o che mi hanno toccato brillano esili come quei fili d'argento degli alberi di plastica dei miei natali d'infanzia, cosi' luminosi da far risplendere la casa, cosi' tenui che li si puo' leggere solo fra le righe.
Non so cosa mi riservi il futuro, ne' se Caritas Ticino sara' il mio traguardo professionale, ma vorrei alla fine della vita poter portare con me quei fili d'argento ed esserne cosi' carico da trasformare il mio povero albero di plastica in un'altra cometa natalizia.


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