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Draghi è l’unico in Italia a capire l’importanza dell’adesione dell’Ucraina all’Ue
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Articolo di Redazione
23 giugno 2022 8:11
 
 In una giornata suggellata dal riposizionamento atlantista di Luigi Di Maio e Manlio Di Stefano, che hanno scoperto che la Russia ha invaso l’Ucraina con otto anni di ritardo e fino al 24 febbraio 2022 non se n’erano accorti, è ovvio che siano passate in secondo piano notizie minori, come il sostegno praticamente unanime del Parlamento italiano all’immediato riconoscimento per l’Ucraina dello status di candidato all’adesione all’Unione europea.

Ovvio, intendiamo, in un Paese sfortunato come l’Italia, in cui il dibattito politico e il suo racconto giornalistico rimangono populisti – un misto di chiacchiera maldicente e spirito malpensante, di scandalismi e di moralismi da portineria – ben oltre le fortune e le sfortune dei populisti ufficiali, grillini in testa.

Eppure Mario Draghi è riuscito nel giro di pochissimi giorni in un’impresa che sembrava impossibile. Prima ha convinto un Emmauel Macron quasi azzoppato e uno Olaf Scholz abbastanza compromesso a garantire a Volodymyr Zelensky l’immediato riconoscimento dello status di candidato all’adesione all’Unione per l’Ucraina, su cui Francia e Germania, come lo stesso Draghi aveva pubblicamente dichiarato, erano non perplesse, ma contrarie.

Poi, senza nessuna discussione, opposizione e distinguo ha imposto la stessa linea a un Parlamento diviso tra forze politiche dichiaratamente contrarie e altre, più prudentemente, non favorevoli, dove la posizione più avanzata, se così la vogliamo chiamare, era quella del segretario del Partito democratico Enrico Letta, che ha proposto di istituire una sorta di “girone B” dell’Unione, in cui far giocare per qualche anno i Paesi che avevano fatto richiesta di adesione all’Unione (tra cui l’Ucraina), in attesa di tempi migliori.

Se quello compiuto da Draghi con Macron e Scholz è stato un miracolo o un capolavoro, quella compiuta in Italia è stata un’impresa meno difficile, ma decisamente rilevante, perché nella scelta di dire No o di non dire Sì alla richiesta di Zelensky e del parlamento ucraino si sono sommate e, tutte insieme, manifestate alcune delle debolezze più caratteristiche e trasversali del sistema politico italiano.

La prima è l’incapacità di pensare per l’Italia un ruolo proattivo nelle politiche europee, che è l’altra faccia dell’abitudine a pensare l’Unione europea come una mera e arcigna istanza di controllo della politica interna e non come il principale strumento di difesa della libertà e sicurezza nazionale.
Anche i politici più dichiaratamente europeisti pensano che in fondo l’Ue stia “là” e che noi stiamo “qua” e che se quindi qualunque cessione di sovranità coincide con una, magari obbligata, ma dolorosa usurpazione, qualunque compromissione con il destino altrui – in questo caso dell’Ucraina – rappresenta un salto nel buio e comunque una trappola da cui tenersi alla larga.

La seconda debolezza è la conseguenza di una politica internazionale storicamente agnostica, ridotta a bla bla bla diplomatichese, a relazioni di routine, a tran tran farnesiniano, che porta naturalmente a escludere qualunque rottura irreversibile con la Russia e quindi impedisce di vedere – proprio di vedere, non solo di capire – le rotture, pure quando queste si sono già consumate, proprio da parte e per responsabilità russa.
L’idea dell’ordine internazionale come qualcosa di statico, per cui quel che c’è oggi ci deve essere domani, e le forme del mondo non possono cambiare, senza precipitare irreparabilmente nel disordine, è la stessa che muoveva Andreotti a diffidenza verso la riunificazione tedesca dopo il crollo del muro di Berlino (“Amo talmente la Germania che ne preferivo due”) e ha portato dopo il 2014 a considerare l’annessione della Crimea e l’occupazione di parte del Donbass come semplici scaramucce locali e non come la tappa di una guerra ufficialmente dichiarata all’assetto politico del mondo post sovietico e alla “dittatura” del liberalismo.

La terza debolezza è il livello formidabile di infiltrazione ideologica e di corruzione da parte russa su una parte consistente del nostro mondo politico, che ha visto in due decenni sostenitori volontari e prezzolati dell’avvelenatore del Cremlino giurare sulla sua caratura democratica e sulla sua buonafede politica e proporre ogni volta compromessi che rappresentavano semplicemente un cedimento alle sue pretese, o perfino un riconoscimento delle sue ragioni.

La quarta e ultima debolezza è, per strano che possa sembrare, l’assenza di autonomia e consistenza politica dei partiti italiani (diciamo: di quelli che si definiscono tali), che dovrebbero funzionare come una forma di intelligenza del mondo, dei suoi problemi e delle relative e possibili soluzioni, e invece funzionano, quando va bene, come macchine organizzative più o meno efficienti e, quando va proprio benissimo, come meccanismi di legittimazione democratica dei dirigenti nazionali e locali.

Siamo sicuri che nessun partito abbia riunito le proprie direzioni e i propri consigli nazionali o avviato qualche forma di consultazione o di approfondimento su questo tema e si siano tutti limitati a rilanciare la posizione decisa dal proprio leader, fosse questa scontata – come il No di Salvini e Berlusconi – o sorprendente – come il No di Calenda e il Nì di Letta.

Quindi nessun partito italiano (tra quelli che erano liberi di accorgersene e non erano pagati per non farlo) si è accorto di ciò che pure era abbastanza chiaro e che Draghi ha subito compreso. Che attorno allo status europeo dell’Ucraina, Putin giocava una doppia partita, di divisione dell’Ucraina dall’Ue e di divisione dall’Ue dalla Nato, cioè di rottura della compattezza del fronte euro-atlantico.

Questo era l’aut aut di Putin: o l’Ue molla l’Ucraina, oppure l’Ue molla la Nato (e allora va pure bene che un pezzo di Ucraina entri nell’Ue e un altro nella Russia). E la risposta doveva essere, e fortunatamente, è stata un doppio No.

Alla fine che abbia prevalso facilmente la linea di Draghi è una buona notizia per l’Ucraina, per l’Italia e per l’Ue. Ma che sia avvenuto così, con partiti costretti a fare quel che dicevano di non volere, non è una buona notizia sulla salute del sistema politico italiano.

(Carmelo Palma e Olivier Dupuis su Linkiesta del 23/06/2022)

 
 
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